2019 - Le
mie nuove Recensioni
INDICE
1) Premessa
2) Ester Quadri presenta
La Senaide del padre Cesare
3) Giulio Vignoli La
cacciata degli Italiani di Corfù (1944)
-Un’indagine incompleta-
e Isole
dell’Adriatico già italiane
4) Claudio Papini e i
suoi primi III libri su Marx
5) Giglio Reduzzi, Una
mucca da mungere
6) Giglio “
“ , L’Arte di accontentarsi
7) Dino Frambati, Quando
la notizia è buona
8) Gianni Romolotti,
Scritti vari
9) Oliver Sacks, Il fiume
della coscienza
10)
Teresa Wendler e Marcella Rossi Patrone,
Breve Storia di
Nervi (Guida in inglese e italiano)
11)
Walter Cordani, Il vademecum del
pensionato
12)
Pietro Tacchini, Il testimone: Gli
Angeli esistono
13)
Gino Arcidiacono, un artista che vive a Nervi
PREMESSA
Ho finito le recensioni del 2018 con La
Senaide di Cesare Quadri ed inizio queste del 2019 con la commossa e sobria
presentazione che ne ha fatto la figlia Ester al Lions Club La Torretta di
Savona.
LA SENAIDE di
Cesare Quadri
(presenta la figlia
Ester)
Sono passati venti anni da quando mio padre è
mancato improvvisamente, e fra le tante cose che lui custodiva e che per
nostalgia prendeva e poi riponeva, si celava il manoscritto dell’opera unica
“La Senaide” che lui scrisse quando ancora non era ventenne e mentre studiava
legge all’Università di Siena dove era nato e viveva.
Nulla lui fece per pubblicarlo, forse per pigrizia,
forse per quella sua indole per cui mai concludeva le sue cose, o forse perché
non fece in tempo.
E così decisi di far rivivere quell’opera che lui
scrisse nei suoi tempi felici e spensierati, trascrivendola per pubblicarla.
La Senaide è un poemetto cavalleresco, un genere
che mescola epico e grottesco, e ha come argomento le gesta di cavalieri
medioevali; è scritto in metrica, in sestine, in sette canti, arricchita dalle
vignette divertenti e ironiche dell’autore stesso che meglio rappresentano i
personaggi e i luoghi descritte nell’opera, e che parla di guerra fra Senesi e
Fiorentini.
In quel periodo in Italia tra il 1941 e il 1943,
c’era la guerra, il fascismo, la fame.
Nostro padre poco dopo aver terminato la sua opera,
dovette partire subito per la guerra, anche lui militare come tutti i giovani
di quella età.
L’8 settembre del 1943, quando aveva 21 anni, fu
fatto prigioniero dai tedeschi e a Bolzano salì su un treno, un carro bestiame,
e portato in campo di concentramento, a Vienna e poi nel Lager-Bezeichnung in
Deutschland (Germania) … come si evidenzia dalle lettere inviate alla sua
famiglia.
Non scrisse più opere al suo ritorno.
Nulla fu più come prima.
Ester Quadri
Giulio Vignoli
La cacciata degli
italiani da Corfù (1944)
Una indagine incompleta
La Gazzetta ionica annuncia
(pagina in lingua greca) l’arresto di Mussolini
“Un Benefattore d’Italianità” così ho definito
Giulio Vignoli, già professore di Diritto Dell’Unione Europea e di
Organizzzione Internazionale
nell’Università Di Genova. Così scrissi nella recensione al suo Storie e
Letterature di Nizza e del Nizzardo: questo perché da anni il professore,
compiendo viaggi, raccogliendo testimonianze dirette, si occupa delle nostre
minoranze all’Estero. Suoi testi fondamentali: L'irredentismo italiano in
Corsica durante la Seconda guerra mondiale, I territori italofoni non appartenenti alla Repubblica Italiana; Gli
italiani dimenticati. Minoranze italiane in Europa; L’olocausto sconosciuto. Lo
sterminio degli italiani di Crimea ed altri.
Da ricercatore, profondo e attento, riesce a
scoperchiare inganni (come nel suo Repubblica Italiana – Dai brogli e dal Colpo
di Stato del 1946 ai giorni nostri), a sconfessare “censure” che vogliono
cancellare l’esistenza, di oggi e storica, di nostri connazionali in diversi
Paesi europei.
In questo breve saggio (ricco però in Appendice di
citazioni di documenti di Archivi) si occupa della “pulizia etnica” dei nostri
perpetrata a Corfù, più modesta per numeri di quella sui giuliano-dalmati, ma
non meno sanguinosa. Nella notte del 26 settembre 1944 iniziò la fucilazione degli ufficiali italiani a
Corfù, ad opera dei tedeschi. Precisa Vignoli: “L’aspetto che distingue Corfù da
Cefalonia è che nella prima isola non vennero fucilati i soldati che si erano
arresi, ma solo i comandanti che avevano ordinato la resistenza e quelli che
avevano causato maggiori vittime come gli artiglieri e i capitani della
contraerea.
Questa pagina è davvero drammatica. Fu dato
l’ordine: “Nessuna sepoltura bensì
portarsi al largo e in mare ed affondare in punti diversi i corpi dopo averli
zavorrati”. “Ma il dottor Georges
Linardos, incontrato nell’Archivio di Stato di Corfù, – spiega Vignoli – ci ha
informato che nei sacchi furono infilati anche morituri vivi, portati in
piccole barche e annegati. Che furono il vice del Metropolita ortodosso di
Atene (il Metropolita era stato fatto viceré dopo che il Re aveva lasciato la
Grecia con l’occupazione italo-tedesca) e poi il Metropolita ortodosso di
Corfù, ad istigare i Tedeschi a mettere nei sacchi i soldati italiani per poi
buttarli a mare”.
Conclude Vignoli: “Non era stato solo l’odio
politico, ma anche quello religioso verso i cattolici a distruggere la
minoranza italiana di Corfù nel 1944, dimezzando nel contempo il numero dei
cattolici delle Isole”.
L’indagine del professore parte dall’ottobre 1940
quando l’Italia, varcato il confine albanese, dichiarò guerra alla Grecia.
L’occupazione di Corfù e delle altre Isole Jonie avvenne il 28 aprile 1941. E
arriva subito la domanda fondamentale: “Quanti erano all’epoca i Corfioti
italiani?”
I numeri forniti dalle varie fonti discordano, tra
i 5mila e i 10mila ma con l’acume di storico competente Vignoli osserva:
“Perché nel 1944 vennero scacciate dal Governo greco migliaia di persone,
asserite italiane e che in Italia si rifugiarono?”
Non solo, quanto alla censura e alla voluta
dimenticanza della Storia, una conferma viene dal fatto che S. E. l’Arcivescovo
cattolico delle Isole Jonie, avendo accolto in udienza il professore, gli si
raccomanda così: “Prima dell’espulsione si parlava di una minoranza italiana a Corfù, ma non scriva che esiste
tuttora una minoranza italiana. Tutt’al più si può parlare di una piccola
comunità italiana di recente acquisizione”.
Insomma bisognerebbe cancellare quei lunghi secoli
in cui Corfù fu legata all’Italia dopo la fine del dominio bizantino (1259):
prima nel periodo angioino e del Principato di Taranto; poi dal 1386 sotto La
Repubblica di Venezia che si arrese senza combattere nel 1797 ai francesi di
Napoleone; (poi nel 1815 protettorato del Regno Unito con passaggio alla Grecia nel 1864), di nuovo italiana nel 1923
con l’occupazione di un mese da parte del neo-primo ministro Mussolini e di
nuovo occupata dall’Italia nell’aprile 1941. Insomma i rapporti di Corfù e
l’Italia furono importanti e si concretarono nella lingua italiana adottata
negli atti ufficiali e nelle scuole e anche in buone iniziative del fascismo
come interventi sanitari ed edilizi (furono, ad es., restaurate le case del
Foscolo e dei Fratelli Bandiera), ci fu l’aumento di salari e pensioni, e la
creazione di colonie marine diurne.
I Corfioti espulsi dopo la manifestazione dei greci
del 13 ottobre 1944 furono 5000.
Nel libro sono citati personaggi di spicco come
Giovanni di Capodistria, nato a Corfù che studiò all’Università di Padova e che
fu nominato ministro degli Interni e degli Esteri della Repubblica delle sette
Isole Unite (dette anche Jonie, che durò dal 1800 al 1807 e volle nella sua bandiera il Leone di S. Marco, con
evidente riconoscimento e gratitudine verso il dominio veneziano.
E alla Fortezza di Corfù al cui interno è custodito
l’Archivio di Stato di Corfù è bene evidente nella lapide della fiancata il
Leone di San Marco. Sono testimonianze storiche dato che nel dopoguerra si
volle cancellare ogni traccia di italianità, bruciando ogni documento scritto:
perciò nella Biblioteca si trovano solo tre libri in italiano, di cui quello di
Ida Zambaldi, Preside del Ginnasio femminile di Corfù del 1942: primo libro
d’Italiano per le Scuole delle Isole Jonie.
Quanto al Capodistria per ultimare la storia di
questo insigne personaggio, di formazione italiana, fu chiamato in Russia dove
rese importanti servigi come pure al Congresso di Vienna. Il 18 aprile 1828 fu
eletto primo presidente della Grecia (per essere però assassinato nel 1831). Quindi tempi turbinosi e
tumultuosi in cui risaltano uno stretto legame e una lunga radice con noi
italiani poiché tra gli elementi costitutivi dell’identità di un popolo ci sono “geografia razza storia costumi
religione legislazione e coscienza popolare". E’ proprio una coscienza
popolare che nonostante tutte le censure ancora resiste e ci unisce.
Il libro è denso di fatti, personaggi,
osservazioni, fonti ed è molto importante la dedica a due donne, Rosetta
Colombi e Teresina Bontempi.
La spiegazione che ce ne dà il professore mette in
risalto una volta di più la sua umanità. Furono fondatrici del giornale
ticinese L’Adula (dal nome della cima
che divide il Ticino dalla zona germanofona), stampato a Bellinzona per la
difesa dell’italianità e delle quattro Valli italofone.
Rosetta sposò Piero Parini, nel ’41 messo a capo
dell’Ufficio degli Affari Civili delle Isole Jonie, carica che tenne fino alla
caduta del fascismo. Rientrato in Italia aderì alla Repubblica Sociale e il 15
ottobre accettò la carica di podestà di Milano.
Quando nel loro periodo di vita nelle Isole Jonie
avvenne una terribile carestia venne rimesso a nuovo il vecchio Ospedale e
furono costruiti nuovi padiglioni tra cui il Reparto maternità. Rosetta, già
infermiera volontaria della CRI nella campagna di Albania, venne messa a capo
dell’Ufficio Assistenziale. Si deve a lei l’importazione a Corfù dei sulfamicidi
allora ancora sconosciuti in Grecia per curare tracoma, tifo, dissenteria,
parotiti. Nel suo impegno d’assistenza contrasse una malattia infettiva che la
portò alla morte, a Bergamo, pochi giorni dopo la nomina del marito a podestà.
Nel libro il lettore potrà seguire tutte queste
vite e vicende in modo sintetico ma molto più dettagliato di quanto ne scrivo.
Una cosa testimonia, una volta di più, l’onestà
intellettuale del prof. Vignoli: “il sottotitolo” in cui precisa “Una indagine
incompleta".
Mi ha fatto ricordare il professore Gianfranco
Bianchi, fondatore con Mario Apollonio della Scuola Superiore delle
Comunicazioni Sociali dell’Università cattolica con cui mi diplomai con una
tesi in Storia contemporanea. Insegnava: “Al momento delle discussione della
tesi ricordatevi che è l’unico momento per precisare da dove siete partiti e
dove siete arrivati, cioè se avete lasciato scoperto qualche spazio o fronte di
ulteriore indagine”. Spiega riguardo la sua indagine il professor Vignoli: "Non sono stato all'Archivio di Atene,
sia perché ottuagenario, sia perché non conosco il greco moderno. Qualche anno
fa, diciamo, studiai al Liceo Classico il greco antico”.
Inserisco ancora alcune immagini: di Giulio Vignoli
fotografato sull’uscio di un mulino a vento (un po’ come se fosse Hitchcock che
sempre voleva comparire in qualche fotogramma dei suoi film) e per non far
torto a sua moglie (testimone di quello che gli dissero a Corfù e che non
vollero però mettere per iscritto) anche la foto di lei con sullo sfondo la
Fortezza.
Isole dell’Adriatico,
in passato già italiane
Per noi grande perdita di bellezza!
E di radici!
Qualche
immagine di questa bellezza iniziando dalle isole collegate a Corfù le Isole
Unite o Jonie.
Zante
che ci ricorda il Foscolo e l’Itaca di Ulisse, dato che Omero è alle origini
della nostra cultura.
E
una donna che pulisce le olive a Lagosta da un libro del 1985 Ships of stone in the Adriatic.
Il
titolo si riferisce appunto alle isole di questo mare assimilate a navi di
pietra ed ha splendide foto di Ivo Eterovic con testi di Cedomir
Kolar.
Il
fotografo, nato a Spalato nel 1935, ebbe molti riconoscimenti e scrisse anche
un libro di grande successo: Ivo Eterovic. From Serajevo with love.
Kolar
collaborò con lo scrittore Tonino Guerra e vive tra Slovenia, Belgrado, Roma.
Qui sopra
Zante e la rocciosa Itaca
Quindi la raccolta olive a Làgosta e, salendo un
poco più su, nell’Adriatico, il suo fiordo più grande che è Kotor (alle Bocche
di Cattaro di cui è il nome slavo)
I III
primi libri su Marx
di
Claudio Papini
Claudio
Papini, professore di Filosofia e Storia nei licei genovesi per 33 anni (di cui
25 nei licei classici dove queste materie sono più approfondite), ha
collaborato con case editrici genovesi. Dal 2011 – con stabile attività –
dirige per l'Editore De Ferrari (anche lui un appassionato di Storia) la
collana “Amici del Libero Pensiero”. Questo incontro di persone, che amano e
vogliono approfondire l’essenza storica e contemporanea dell’uomo, iniziò con
la pubblicazione di un libro del Professore: Ben ritrovato Ernst Ingmar.
Non deve
stupire quando si parla di Papini questo apparente sconfinamento da ciò che ha
insegnato perché lo caratterizzano uno sguardo e approfondimento panoramici su ciò
che costituisce l’essenza dell’uomo a partire dall'antichità per arrivare ai
giorni nostri. Con De Ferrari infatti ha pubblicato sei libri di Daniel Massé,
dopo avergli dedicato nel 2012 Daniel Massé e gli enigmi del Cristianesimo. Nel
2013 ha pubblicato Ritornare a Machiavelli e all’approssimarsi del bicentenario della nascita di Marx
(1818-1883) il primo dei volumi su Marx con il programma di farli diventare
sei.
A proposito
del “III”, appena edito, Papini precisa: “Le pagine che seguono costituiscono
quasi per intero il testo della tesi di perfezionamento in Filosofia, che
discussi il 31 maggio 1976. Sono stati omessi i due capitoli dell’Appendice
(con le rispettive Premesse) e le conclusioni della stessa; essi fanno oggetto
di diversa collocazione sotto il titolo “Attualità e inattualità del pensiero
di Karl Marx”.
“Volendo
delineare la traccia che ha animato e guidato tale ricerca che oltre alle
pagine menzionate comprende anche un secondo volume (Filosofia e Ideologia nel pensiero di Karl Marx - che uscirà
sempre in questo 2019-) bisogna risalire agli anni intorno al 1968 e agli
avvenimenti che si produssero”. Il Professore li paragona ad uno spostamento
d’aria nell’ambito della realtà (e dell'interpretazione della realtà) non
marxista ed anche nell’ambito della realtà (e dell’interpretazione della
realtà) di parte marxista. Ci dice che dopo il ’68 nulla è più stato
uguale.
Il libro si
apre con una “Nota Introduttiva”
con una lunga citazione da una Costituzione per i prossimi trent’anni. in
questa l'Autore, Gianfranco Miglio, constata che le costituzioni valide sono
quelle flessibili in grado cioè di adattarsi alla condizioni di un dato
Paese. Osserva che il sistema politico
italiano regge perché è sotto l'ombrello protettivo americano e che il brigatismo
rosso fu l'ultimo abortito tentativo di aprire un conflitto risolutivo.
In tale
introduzione Papini fa osservare che
l’U.R.S.S. impegnò dall'ottobre 1917 al triennio 1989-1991 del suo
disfacimento gran parte del secolo XX. A questa esperienza storica (“esperimento sacro e laico" nel tempo
stesso) occorre far riferimento per
capire la fortuna del pensiero di Marx. Il libro I del Capitale fu pubblicato
ad Amburgo nel 1867 in tedesco, lingua dell’autore, e la prima traduzione fu in
russo ad opera del populista Danielson.
Sono solo
brevi accenni per far capire lo scopo di Papini quando ci accenna che Marx
ebreo-tedesco voleva mettere “i presupposti per un rovesciamento della realtà
sociale e politica attraverso studi amplissimi e profondi, sviluppando una coerente militanza comunista
a fianco di una classe subalterna in condizione sociale infelicissima...”
Osserva però:
“Il reale ha la testa dura e possiede una carica di ambiguità affascinante ben
oltre i cosiddetti valori assoluti (dato e non concesso che ve ne siano) e
quelli correntemente relativi".
Da queste
citazioni di parole del Professore si vede come il suo linguaggio sia preciso
ma anche sempre sull’onda di una analisi successiva a ciò che sta dicendo, come
in bilico su un assunto che è già come sorpassato: un invito a guardare ancora
più avanti partendo sempre dal classicismo dal mondo ebraico, dalla
predicazione di Gesù, dai Romani cioè dalle mostre origini e da come siano
state spesso raccontate in modo falsato per questioni di potere e forza
politica.
I libri di
Papini sono anche un caleidoscopio di riferimenti coltissimi, e i più vari, ad
altri pensatori e mi piace ricordare qui -come ho già fatto in un’altra
recensione ad un suo libro- una citazione da Nietzsche: “No. La vita non mi ha disilluso… la
vita potrebbe essere un esperimento di chi è volto alla conoscenza – e non un
dovere, non una fatalità, non una frode". Parole -come già scrissi allora-
che ci rivelano una consonanza di Nieztsche con Papini: una tensione
all'ideale, una purezza intatta sulla virtù del conoscere.
Poiché Marx è stato paragonato a
Maometto e a Cristo, mi piace anche mettere qui un’altra citazione da Papini,
tratta dal suo libro sul regista Bergman che conserva un intatto sentore di
poesia e di mito: “Si racconta che in altri tempi la cattedrale di Chartres,
colpita da un fulmine, bruciasse da cima a fondo. Allora, dicono, migliaia di
persone accorsero da tutti gli angoli del mondo, persone di tutte le
condizioni. Attraversarono l’Europa come uccelli migratori, tutti insieme
ricostruirono la cattedrale ma il loro nome rimase sconosciuto.” Queste parole
ci fanno tuffare nel mistero della Fede, nel bisogno di credere e nell’essere
insieme di migliaia di piccole e sconosciute persone.
Papini offre anche altre insospettate
qualità nei suoi libri: non è uomo di interessi circoscritti a Storia e
Filosofia come si vede dal suo primo volume su Marx dove un quarto delle 140
pagine sono impegnate dal problema della “favola artificiale” che è un po’
anche il bisogno dell’uomo di superare se stesso verso un infinito mitico. Lo
fa in particolare con riferimento alla pittura di Nicola Ottria come modalità
paradigmatica.
Ottria si formò sotto la guida di
Giannetto Fieschi e quando del suo Maestro ci fu un’esposizione alla GAM di Nervi
qualcuno ricordò come il Fieschi fosse fiero di quando Alberto Helios
Gagliardo, che lo aveva ammaestrato all’arte di dipingere, gli aveva detto:
“hai talento!”. Fieschi sosteneva che Gagliardo lo avesse detto solo a lui ma
lo disse anche a me nell’età dei miei 14 anni quando i miei genitori mi
mandarono ad imparare da lui perché non fossi addolorata avendo scelto per me
l’indirizzo classico al posto di quello artistico come voleva la mia insegnante
di disegno alla scuola media. Capii in tempo che non volevo dedicarmi alla
pittura proprio per la storia di dedizione assoluta che mi rappresentavano le
tele e tele di Gagliardo accatastate lungo le pareti del suo studio in via
Porta degli Archi a Genova. Gagliardo è stato un grande Maestro infondendo nei suoi
quadri un senso etico e proiettando la realtà verso il trascendente, con
un’ansia di Paradiso e d'Infinito. Ma anche chi si dà ad una semplice
recensione può essere più stimolato quando trova qualcosa che gli è familiare
come mi è successo sobbalzando al nome di Fieschi.
Da notare riguardo a Papini che le
pagine dedicate ad Ottria appartengono ad un saggio della sua giovinezza del
tempo di quella tesi di laurea su Marx di cui si sentì insoddisfatto perché non
aveva molta stima dell’Università di allora come ben si arguisce dai suoi
scritti.
Quindi chi si appresta a leggersi
questi volumi e a capire e scandagliare bene Marx attraverso Papini deve tener
conto di questo suo sguardo amplissimo, della sua cultura ricca di citazioni e
riferimenti: in breve, benché lo stile sia chiarissimo, il pensiero suda e
arranca per stargli dietro. Torno così ad un’altra mia caratteristica
personale: l’aver sempre ricercato al di là dello studioso o del poeta o del Cardinale o del sacerdote o del
Carabiniere (tutte esperienze che mi sono state offerte dal Giornalismo) anche
l’Uomo.
Ho scoperto
che Marx, con moglie ricca, per non dispiacere al suocero tenne celato il
figlio illegittimo che ebbe dalla ventenne governante di casa.
In brevissimo, dato che queste notizie
le ho ricuperate in dettaglio altrove e Papini odia ogni gossip, Jenny von
Westphalen era una nobildonna tedesca, sposa di Marx contro il volere della
famiglia e che sapeva tener testa a Marx ed al suo amico Engels nelle loro
discussioni. Sopportò da lui molti tradimenti. Marx che a Londra lavorava fino
a notte tarda nello studio. Per esigenze di spazio in una casa con due stanze e
un cucinino, vi dormiva la governante
Helene Demuth, detta Lenchen. Marx
concepì con lei un figlio. Per evitare lo scandalo ne attribuì la paternità
all’amico Engels, consenziente. Il bimbo si chiamò Henry Frederick Demuth e fu
poi affidato ad una coppia di genitori adottivi. Dopo la morte di Marx nel 1883
(solo due anni dopo quella della moglie Jenny cui era comunque affettivamente legatissimo
e da cui aveva avuto sei figli), Helene andò ad abitare nella casa di Engels,
trattata come una di famiglia. Con lui viaggiò e andò in vacanza al mare. Alla
sua morte il People’s Press le
dedicò un articolo dove Engels nell’elogio funebre aveva affermato che non solo
Marx chiedeva ad Helene consigli riguardo questioni di partito ma anche per i
suoi scritti economici e lo stesso accadde a lui. “Il lavoro che sono stato capace di compiere dopo la morte di Marx
è largamente dovuto al sostegno e alla luminosità della sua presenza in casa”.
Helene fu sepolta nella tomba dei
Marx. Il figlio che aveva cambiato il
nome in Frederich Lewis Demuth lavorò come apprendista meccanico, si sposò e fu
assunto come tornitore presso la King’s Cross Branch. Restano le parole di sua figlia, in morte: “Mio
padre ha subito per tutta la vita una grave ingiustizia”.
Per la Storia resta il Manifesto del
Partito Comunista che Marx ed Engels
firmarono, 21 febbraio 1848, e i loro ideologici
Giglio Reduzzi
Giglio
Reduzzi, che in qualche mia precedente recensione ai suoi libri, definii
“civilissimo cittadino del mondo” e “critico di chiarezza cartesiana", è
in queste due foto ad un traguardo importante (i 50 di matrimonio) e proprio il
giorno delle nozze. Qui sotto la raccolta dei suoi scritti di cui mi ha fato
dono: saggi, varie e una raccolta per Religione, in quanto i suoi interessi da
lui stesso definiti riguardano specie la politica e la religione.
Una mucca da mungere
Giglio chiude nel 2018 la sua lunga attività di
saggista e acuto osservatore della nostra attualità con due opere. La prima di
questa che racchiude in forma di diario riflessioni sulla nostra
quotidianità dal 16 novembre 2017 al
sei aprile 2018.
Il primo problema che affronta e che la maggior
parte degli italiani sentono tuttora prioritario è quello dei migranti.
Giglio inizia affermando che in Libia è tornata di
moda la schiavitù che d’altra parte nella penisola arabica è esistita de facto
fino a metà del ‘900. Dopo il patto Minniti/el Saraj non potendo più LUCRARE
sui barconi in Libia si è tornati alla schiavitù. Però, per certa Sinistra, è
tutta colpa nostra perché senza il patto gli scafisti avrebbero continuato il
loro turpe commercio, senza
ripristinare il triste fenomeno dello schiavismo. Se l’invasione che tale molti
italiani l’hanno percepita fosse continuata, l'Italia sempre più in declino
sarebbe diventata un campo profughi e i Premier di turno avrebbero continuato
ad andare a Bruxelles per ricevere pacche di apprezzamento sulle spalle.
Una soluzione c’è - commenta Giglio - dato che da
noi vige la separazione tra Chiesa e Stato. La Chiesa dovrebbe stabilire quante
moschee è disposta a veder sorgere nei suoi territori o quante chiese adibire a
moschee. Lo Stato quanto welfare è disposto a mettere in atto per i migranti
(casa, lavoro, assistenza scolastica e sanitaria ecc.), certo sottraendone una
parte agli italiani. Però, in proposito, il Papa dovrebbe consultare i parroci
e lo Stato i cittadini che reagirebbero con il gesto dell’ombrello e i preti,
pur se con maggior educazione, risponderebbero in modo negativo.
Giglio ha anche l’abitudine di inserire nelle
alette dei suoi libri alcuni pensieri dei suoi scritti e in questo caso inizia
con uno sui sacerdoti: “Ed ecco che dopo i “preti operai” d’Europa ed i
"preti sandinisti" dell'America latina, ora spuntano, invocati dal
Papa in carica, i "preti di strada".
Seguono nel diario altre due riflessioni: “se il
governo sapesse cosa fare prima di pensare allo ius soli, (cioè allungare la
tavola) penserebbe a cosa mettere nel piatto a quelli che già ci sono” e
ancora: "la cittadinanza darla via per poco significa attribuirle scarso
valore”.
Quanto al reddito di cittadinanza per molti di noi
vale il concetto che non si può esser pagati senza lavorare mentre si accetta
anche di lavorare senza compenso ( per imparare) oppure di lavorare sottopagati
che è caso diffuso. Per i musulmani
ricevere l’elemosina (zakat) è un diritto di ogni povero e darla un
dovere per chiunque povero non sia. Quindi già da questo nasce un evidente
ostacola all’integrazione: il cristiano si vergogna di chiedere l’elemosina, il
musulmano la pretende.
M’inserisco con un mio ricordo: “Quando iniziai a
scrivere sulle pagine di Genova de il Giornale (inizio 1983) il
caporedattore mi chiese di scrivere un
articolo sull’accattonaggio che considerava una vergogna (e gli accattoni
visibili erano pochi), ora si sono moltiplicati e talvolta sono anche molesti
nel chiedere. Uno cui feci segno che non gli davo nulla mi disse: "Porca
miseria!", un altro mi ha chiesto una moneta in nome di Allah; forse più
simpatico uno che a Milano fuori da un ristorante dove avevamo festeggiato la
Cresima dell’ultima nipotina, mentre ci scattavamo foto con le nipoti più
grandi, disse ad una: "Mi sono innamorato di te". Poiché questa
ritornò subito dentro al luogo di ristoro, si rivolse a me come niente fosse,
dicendo: "Mi sono innamorato di te". Forse pensava che con la
“vecchia” avrebbe avuto più chances.
Ricordo pure che nel 1965 mi trovai in un albergo a
New York dove mio marito diede una moneta all’aiuto facchino, un nero e questi
la fece rimbalzare sulla mano con evidente disprezzo. Poco dopo lasciando
l’hotel e pensando di aver dato troppo poco, elargì più generosamente ad un
capo portiere (un bianco) e questi non finiva di inchinarsi e ringraziare.
Non solo una volta mi trovai ad un Convegno
organizzato dal CIF per la giornata della donna con convegniste di diversi
Paesi. C’era una sociologa tunisina che affermò grintosa come da noi non fosse
abbastanza considerata, insomma più che esser grata dell’accoglienza “tutto le
era dovuto".
Inserisco ora dal libro di Giglio una lettera con
risposta da Mario Giordano sul nostro governo che mi sembra molto interessante
ed appropriata.
Sempre a proposito di governo la soluzione di
Giglio per il centro-destra sarebbe confluire in una lista unica nominata Lega
Italia in modo da richiamare le diverse componenti e questo anche per evitare
la lenta agonia di Forza Italia. Commenta: “Non avete sempre detto che vi
accingerete e schierarvi separati per colpire uniti?"
In questo modo il Capo dello Stato sarebbe tolto
dall’imbarazzo se sia più importante primeggiare come coalizione piuttosto che
come partito.
Giglio è appassionato di Religione e quindi nei
suoi scritti ha sempre guardato con attenzione
a ciò che succede nella Chiesa. Riporta qui la querelle tra mons. Vigano
e la Curia ed osserva a proposito di Ratzinger che usa una particolare
espressione per niente a favore del suo successore, cioè usa l’allocuzione
“continuità interiore” che c’è tra i
due Papi. Giglio commenta è un classico esempio di aggettivazione che
riduce il peso del sostantivo.
Infine tra i tanti pensieri che ci fanno riflettere
ne metto in risalto uno delle ultime pagine (19 marzo 2018) che riguarda il
fatto di una ragazza madre siciliana gettata in un pozzo dal suo compagno.
Aveva due bambini: uno dal precedente compagno e uno da quello attuale. Il
fatto è in linea con dolorosi fatti di cronaca di questo maggio 2019: bimbi
uccisi dai genitori o dal patrigno.
Il commento è: “A parte ogni altra considerazione
mi pare che bambini ne nascano abbastanza. Peccato che nascano dove e quando
sarebbe bene che non ne nascessero”.
L’arte di Accontentarsi
La seconda opera con cui Giglio chiude nel
2018 la sua lunga attività (più di 30 saggi con Youcanprint,
self-publishing, che gli ha permesso di
svincolarsi dall’arbitrio degli editori) s’intitola L’Arte di accontentarsi.
E’
un suggello all’opera omnia, un’ulteriore firma d’Autore. Non che Giglio non abbia parlato di sé nel
senso dei suoi interessi o delle cose che gli sono state più care: da alcuni
viaggi e incontri nel Mondo alla sua gioia nell’aver avuto una casetta in
Canada da cui si è separato a malincuore perché della sua famiglia non ci
andava più nessuno. Un dispiacere motivato
dalla mentalità là respirata, più cosmopolita, più aperta.
Inizia così questo “Album” cronologico di ricordi
personali che, per la precisione, sembrano foto: “Quando confronto il mio
attuale stile di vita con quello che avevo da piccolo e, ancor più, con quello
che avevano i miei genitori e i miei nonni, mi chiedo come potessimo essere,
non dico felici, ma, tutto sommato, paghi della nostra situazione”.
Ribadisce questa considerazione alla luce di quanto
affermava suo padre: “Nella vita bisogna sempre guardare indietro e ami avanti.
(Cioè badare a chi sta peggio di noi e non a chi sta meglio). Quindi entra in
campo con un suo nobile credo di non dover mai coltivare invidia per chi
sfoggia uno stile di vita superiore al proprio: “Non ho mai abbracciato
ideologie politiche che fossero motivate, in tutto o in parte, dall’odio di
classe”. Ma considera pure che se tutti ragionassero così, cioè l’accontentarsi
di ciò che si ha, verrebbe a mancare quella molla che spinge alcuni a rischiare
tutto in vista di un futuro migliore.
Sentono tale spinta gli imprenditori e, a questo
riguardo, la sua opinione coincide con quella di mio suocero ingegnere che
aveva fondato a Savona con un fratello ingegnere un’azienda che dava lavoro a
più di 100 operai e che definiva gli imprenditori “benefattori dell’umanità” in
quanto capaci di creare lavoro per altri”.
Si addentra quindi nella diversità tra il nostro
Nord e il Sud dove c’è la caccia ad entrare nella Pubblica Amministrazione, a
mettersi a carico dello Stato. “Da noi – ci spiega - era impensabile che un
giovane ingegnere, dopo aver tanto studiato, preferisse entrare nelle Ferrovie
dello Stato piuttosto che alla Dal mine”.
Il suo curriculum lavorativo, dopo la Laurea in
Scienze Politiche, si svolge proprio dalla Dalmine (con ufficio a Milano), alla
Necchi di Pavia, alla Piaggio (Aeronautica) di Genova. Non aveva i due cognomi
che servono alla carriera diplomatica e che lo avrebbero confinato in qualche
sperduto Paese Africano e Scienze politiche gli era sembrato il corso di studi
più adatto per coltivare il suo amore per la Legge non potendo per i divieti di
allora accedere dal Liceo scientifico alla Facoltà di Giurisprudenza. Conclude
pure che la sua fu una scelta vincente perché aveva una preparazione che spaziava dal campo linguistico a quello
del diritto internazionale. E i suoi lavori gli hanno permesso di andare in
tutti e cinque i continenti e di fare due volte il giro del mondo. Ricordando
l’America afferma che s’illude di conoscerla chi è stato a Las Vegas o a New
York mentre l’America profonda si conosce andando solo nei piccoli centri dalle
casette tutte rigorosamente di legno, dove per far visita al vicino bisogna
prendere l’auto perché tanto vicino non è, dove a sera si è immersi nella più totale oscurità per cui sembra più
che naturale possedere un’arma di difesa.
Quanto alla Pubblica Amministrazione conclude:
“Oggi se un’azienda vuol trovare un operaio specializzato fatica a trovarlo
mentre se il Comune vuole un vigile urbano si trova davanti 10mila aspiranti”.
Con il senno di poi deve fare l’ammissione
riportata nella sottostante tabella che spiega la corsa del Sud ad entrare
nella PA
Questa autobiografia dell’Autore parte dalle scuole
elementari, quando da “sfollato” nella casa dei nonni materni a Sotto il Monte,
nel 1944/45 trascorse l’anno che ricorda più volentieri per l’amicizia con i
Roncalli e l’aver potuto mettere nel loro terreno un proprio piccolo orto.
L’autobiografia, che si prolunga a tutti gli studi, non trascura mai l’analisi
attenta dei problemi del mondo di lavoro, della quotidianità, dei sacrifici
degli operai che per lavorare a Milano arrivavano al suo Paese, Ponte S.
Pietro, per prendere il treno: ed erano le 4 del mattino e rincasavano alle 8
di sera vedendo i propri figli che già dormivano.
Giglio, non dimentica amici cari come il defunto
Mario Perico, soprannominato “Campagnolo”
dal nome del cambio che i ciclisti professionisti montavano sulle loro
biciclette e che già lavorava mentre l’Autore studiava. Mario aveva fatto un
patto con un rivenditore locale per versargli una ventina di rate mensili e
così acquistare la desiderata bici e gli amici gli chiedevano sempre - quasi a
torturarlo-: “quanti mesi ti mancano?” Mario si conquistò la bici che allora
era considerata un bene prezioso mentre Giglio non ne aveva una sua e usava
quella della mamma però era orgoglioso di saper usare il kit per rattoppare le
gomme forate cosa allora molto comune dato lo stato delle strade non asfaltate.
E qui l’Autore entra nel discorso dei nipoti pensando al suo Nicola che ebbe la
bici ancor prima di chiederla e più avanti mette questa considerazione: “Il
peggior modo per educare i ragazzi è soddisfare prontamente i loro desideri
ancora prima che chiedano perché essi pensano di poter ottenere tutto nella
vita e, quando non ci riescono, perdono la necessaria serenità incupendosi o
arrabbiandosi”.
Sempre a proposito del nipote Nicola ricorda che un
giorno lo portò su un treno perché lì non aveva mai viaggiato pur avendo preso
aerei e navi.
Un tenero ricordo riguarda anche la moglie. Le scuole medie a Ponte S. Pietro dove
Giglio abitava non esistevano e quindi
andava a Bergamo con il tram perché non
aveva l’età per viaggiare in treno da solo, mentre la futura moglie,
Pierangela, che abitava poco oltre poteva prendeva solo il treno perché il tram
non arrivava fino a là. Il capostazione chiudeva un occhio sul requisito
anagrafico di quella graziosa ragazzina che non aveva l’età.
Giglio ci
parla anche dei suoi hobby derivanti dalla sua passione per il fai da te e che
lo portano a realizzare oggetti, per lo più in legno. “Circa la pittura – dice
– so bene che, non appena sarò passato
a miglior vita, i miei figli si precipiteranno a togliere dalle pareti i dipinti
che vi tengono appesi per compiacermi”: Come scultore conserva un’unica opera
che raffigura il volto di suo nonno Temistocle.
Dopo queste immagini delle sue passioni di cose
eseguite con le mani, il nonno Temistocle come scultore, l’amato Papa con la
fronte poggiata al pastorale, il libro si chiude con l’omaggio a due artisti:
Checco Zalone e Paola Cortellesi. Giglio infatti è uomo di humour: mi piace
chiudere riportando il monologo da lui scelto per la Cortellesi quando si parla di parità di
genere e di conquiste al femminile.
DINO FRAMBATI
QUANDO LA NOTIZIA E’ BUONA
Peonie regalo
di Dino e Marina alla presentazione da parte di Dino de Nel Tempo a Bobbio
Questo libro parla delle
esperienze che Dino ama di più e le associa ad una copertina che ricorda la sua
passione per il volo.
Dino crede nel
volontariato, nel senso cristiano della vita. Ha una certezza che il bene sia
più forte del male e che la maggioranza delle persone sia per bene anche se
tutti possiamo sbagliare, cadere, riprenderci e imparare dagli errori.
L’altra grande passione
di Dino è il giornalismo e ce ne dà notizia così proprio nell’introduzione.
Scrive: “Dopo 40 anni di cronaca nera in cui però ho scritto praticamente su
tutti si settori ed argomenti della vita, ampliando sempre la mia attività di
informatore delle pubblica opinione, cercando cosa ‹‹faceva notizia›› e
aggiungendovi un’attività di opinionista direttore di varie testate e molti
anni da vice presidente dell’Ordine dei giornalisti ligure e quindi in Consulta
Nazionale e membro del Centro Studi per giornali e giornalismo nelle scuole.
Una lunga e formativa evoluzione al termine della quale ho detto che, basta,
ero stufo di nera, economia, politica, cronaca giudiziaria, sindacale e
dintorni. Volevo fare l’inchiestista, trovare cose nuove, scoprire altri
aspetti di un’attività che spazia su tutto e non ha limiti.
“E siccome la vita è
strana, arrivò casualmente e quasi contemporaneamente alla mia voglia di
cambiare la pagine del bene sul ‹‹Corriere Mercantile››, testata genovese
antica e storica (la più vecchia della città) che purtroppo non esiste più.”
Se questa è un prima
panoramica sull’attività del giornalista bisogna però considerare le origini,
la causa prima che è la sua passione, il suo amore per la gente, per capirne i
problemi, essere felice quando gli danno riscontro di esser stati capiti e
apprezzati nel loro impegno e soprattutto di commuoversi interiormente alle vicende
della loto vita.
Il primo assaggio di
questo si trova proprio quando si descrive come cronista di nera: “Ho visto
tanti morti ammazzati, dal terrorismo, da eccessi di velocità, imprudenze,
folli banalità, gelosie, malavita organizzata, fatalità dal lavoro che pure è
fonte di sostentamento, restando cinicamente freddo perché era il mio lavoro di
giornalista”.
Ma un giorno, anni 80,
viene chiamato perché la morte bianca aveva colpito ancora: un incidente a
Sampierdarena, il luogo dove nacque suo padre, dove lui stesso è cresciuto, è
diventato giornalista con ufficio nell’ultracentenaria azienda mobiliera di
famiglia. Arrivato sul luogo il primo particolare che lo colpisce è una scarpa,
perduta dall’operaio durante la disgrazia, e cerchiata dalla polizia in quanto
forse utile all’indagine per accertare responsabilità.
E il cronista “cinico”
pensando che quell’operaio aveva due figli e una moglie, che li aveva salutati
all’alba, magari ancora addormentati, ma dando loro come un appuntamento per la
sera al suo rientro, sentì – per la prima volta – un nodo in gola.
Ecco questa voglia di
umanità a lungo repressa che in questo libro si dispiega rendendo onore alla
buona notizia.
Ma prima ancora c’è nel
libro una dedica molto importante, quella a sua madre che non è più. Chissà
quante critiche gli avrebbe fatto, dopo aver letto con attenzione, come sempre
per tutto ciò che lui scriveva. Dino allora le contestava che le madri in
genere esaltano i figli e lei, invece, no. Lei sollevava la testa, lo guardava
negli occhi e gli diceva:
‹‹Io sono la mamma e le
cose fatte bene sono normali. Io devo vedere i tuoi difetti e ne hai tanti!››
Dino ammette che se ha
fatto qualcosa nella vita lo deve a Lei ed è certo che sua madre ora sarebbe
orgogliosa di questo libro.
Questa particolare
sensibilità dell’uomo e del giornalista si ritrova pure nella pagina d’attacco
del I capitolo dal titolo
‹‹E’ l’esperienza personale che porta
a fare il bene››.
Qui riporto la pagina
perché densa di notizie e dati da ricordare.
delle eccellenze partorite
sotto la Lanterna,
tal Cristoforo Colombo.
Genovese anche se
dovette emigrare per trovare
credito e navi.
Mi piace dare particolar
risalto a ciò che Dino ha scritto di Colombo (da me ricopiato a mano dalla
pagina successiva del libro) perché quando c’è da tirare un affondo lo sa fare
da maestro e qui la sua critica è a quei genovesi del tempo che non capirono la
grandezza del loro compatriota costringendolo come spesso è accaduto a grandi
italiani a trovare fortuna e consensi
all’estero.
Il capitolo successivo
‹‹Sì è Francesca ad operare nel bene››
è un riconoscimento ad
una collega con cui iniziò a collaborare alla pagina del bene del ‹‹Corriere Mercantile››.
Con lei quando il
giornale chiuse ei battenti proseguirono
la bella esperienza di fare informazione con la buona notizia, con una
serie di corsi per giornalisti al Celivo, incentrata sull'indicazione di quando
a fare notizia è quella buona.
Di sé Francesca racconta:
“Ho iniziato a fare volontariato all’età di 16 anni grazie agli Scout. Prima o
poi ci sarei approdata comunque, avendo entrambi i genitori attivi in
Associazioni”.
Né Dino dimentica di
ricordare le parole di Sara Tagliente, conduttrice del tiggì e direttore di
Telegenova che chiudeva i cinque minuti in cui lui parlava così: Una ‹‹ventata
di ottimismo››, di speranza…
Tra le tante associazioni
di volontariato il giornalista parte dalla Gigi Ghirotti, di cui la figura
storica che l’ha guidata negli anni è il prof. Franco Henriquet. Anzi intitola
il capitolo con una sua frase: ‹‹C’è ancora molto da fare quando non c’è più
niente da fare››. Si riferisce al conforto che riceve chi soffre e sa di essere
al termine della vita se è sostenuto da una presenza amica.
E rende onore anche a
colui che ha dato il nome all’Associazione: Gigi Ghirotti, un giornalista,
ultimo di nove figli che partecipò alla seconda guerra mondiale interrompendo
gli studi universitari di Lettere. Volontario negli alpini, diventò partigiano.
Scrisse per importanti testate come Il ‹‹Giornale
di Vicenza››, ‹‹La Stampa››, ‹‹L’Europeo››, morì stroncato da un
linfoma di Hodgkin nel 1974, a 53 anni, dopo aver dato notizia della prossima
fine nella trasmissione Rai Orizzonti della Scienza e della Tecnica.
Parlò di come possa
essere orribile l’esperienza della malattia se sono scarse le risorse
economiche, inadeguata l’assistenza.
Dino non dimentica di
ricordare come i farmaci costosi che si usano per curare il cancro se il malato
muore senza averli consumati vengono usati dalla Ghirotti senza gettarli e
quindi limitando lo spreco.
Quanto alle storie
personali ne cito solo due dal libro di Dino: <<Ah l’Amore, quando la bella notizia è
perfino divertente>>
e <<La
ballerina>>.
<<Notizie
ce ne sono tante, ovunque; basta trovarle. Se non vengono date , la colpa è di
noi giornalisti che non sappiamo trovarle>>,
questa frase era spesso ripetuta da
Luciano Riccomini, grande maestro di giornalismo da lui conosciuto al
Giornale di Montanelli. Riccomini passò poi ad ‹‹Avvenire›› come vice-direttore e vi trovò uno spazio per lui per
scrive sul Porto di Genova, genovesi scalatori di montagne tra le più alte al
mondo, ed un gruppo di milanesi che per le Colombiani avevano acquistato un
leudo per raggiungere l’America come aveva fatto Colombo. Finirono fuori rotta
e si fermarono alle Azzorre.
Da quei giorni Dino
iniziò con ‹‹Avvenire›› un matrimonio
indissolubile e per i 30 anni della sua collaborazione il direttore Marco
Tarquinio gli regalò una targa che campeggia nel suo ufficio.
La divagazione personale
lo porta poi ad introdurre il fatto che da anni presenta o partecipa al
memoriale di Aldo Papasso. Scomparve il 3 marzo 1997 dopo esser stato gran
giornalista, scrittore e poeta. Da allora, la moglie, Fiorette Morand,
originaria della Gauadalupa (Caraibi) si fa sponsor di questo momento di
ricordo. E’ sempre impegnata a creare l’evento in grande, in palcoscenici e
luoghi importanti: è testimone vivente di come altre culture e tradizioni
possano arricchire la nostra.
La storia de La ballerina
racconta invece di una ragazzina che a 9 anni vince la selezione per accedere
alla scuola di ballo della Scala di Milano. Però i suoi genitori si separano
con acredine e il padre accusa la madre di voler imporre alla figlia la frequentazione
della danza.
Invece anche in tribunale
la ragazzina dichiara che non è pressata da nessuno e che vuol fare la
ballerina. Ci riuscirà e frequenta con buoni risultati la scuola di danza e le scuole medie
superiori. Per lei perfino l’allora presidente del Consiglio superiore della
Magistratura, il ministro della Giustizia Orlando si muoverà con una lettera a
Mattarella in difesa dei diritti della ragazzina. La storia aveva avuto grande
impatto mediatico.
E per dimostrare come
possa essere aggrondato e severo Dino quando qualcosa non gli garba (e in
questo caso pur nella nuda cronaca è acceso sostenitore del volere della
giovanissima “ballerina”) chiudo con questa sua immagine.
Se si offende Dino in ciò
in cui crede questo è il suo viso, se vuole sa stangare ma con giusta ragione.
E in questo caso ha più
che ragione ricordando all’inizio la strage di Orlando, il Bataclan, Nizza…
Conclude il video
parlando del volo sua passione
Godetevi il video e una
delle prime foto tratte da esso.
GIANNI ROMOLOTTI
Questa
è la copertina di un libro di successo di Gianni Romolotti e che riflette la
sua amicizia con Achille Campanile.
L'ho divisa in modo che il retro con notizie sull’autore sia più leggibile.
Ricopio
da un mio articolo su il Giornale (pagine
di Genova) per Romolotti che ho conosciuto come autore grazie a Massimiliano
Lussana, mio giovane ma ottimo caporedattore.
<<"Tanto va la gatta che ci lascia lo
zampino", un necrologio di Achille Campanile, alla gavetta di giornalismo,
che lo fece assumere con queste parole del capo:"O è un idiota o un
genio". Era la "geniale idiozia" che Geno Pampaloni individuò
nell'autore di "Tragedie in due battute".
Campanile, a lungo snobbato dalla critica ma
inarrivabile interprete -con umorismo!- del nostro costume. A lui per amarcord
d'amicizia un altro outsider, Gianni
Romolotti, ha dedicato per emulazione i suoi umoristici racconti Campanile. Tanto per dire-scopiazzando il
mio amico Achille (Book Sprint, giugno 2013).
Romolotti
si affermò negli anni sessanta con i Caroselli Perugina e con protagonista
Frank Sinatra; da giornalista esordì alla Gazzetta
di Parma con Baldassarre Molossi. Un inizio niente male ma il piacere di
leggerlo oggi nasce dalla "scoperta" personale dell'uomo-autore e
della sua umanità.>>
Da
quell’articolo riporto ancora:
<<Romolotti
ama scrivere da sempre e vuole scrivere finché avrà respiro. Una
vocazione pur se da pubblicitario ha guadagnato di più.
Lo ritroviamo giovane uomo nel racconto "Levando gli occhi al cielo"
alla morte del padre. Il momento cui le mamme si accorgono di non aver
preparato il figlio. Deve scegliere la bara e per farsi forza va con un amico glottologo e molto colto in omaggio al
padre, uomo colto che l'aveva allevato a Platone,ecc..
La sorpresa, davanti alle casse allineate, è alzando
la testa quando vedono pendere dal soffitto una sfilza di prosciutti.
L'impresario di pompe funebri spiega che il locale, ben umidificato, è il più adatto alla conservazione. Escono, lui
e il glottologo, con un prosciutto sottobraccio: la vita trionfa.>>
Basta questo ricordo per far capire quanto sia
dotato di humour ma nell’autore Romolotti, pur se questa sua caratteristica
rende la lettura sempre piacevole, esistono altri aspetti molto seri.
Parto dagli anni della guerra e della sua fine
quando era ragazzino come la descrive in un breve racconto Il giorno della Liberazione (I suoi brani su diversi argomenti non
superano quasi mai le 2 0 3 pagine: cioè sa risparmiare le parole mettendo
l’essenziale senza far perdere al lettore l’interesse).
Inizia così: “Tra un ammazzamento e l’altro le
giornate passano veloci. A quell’età (cioè la sua di ragazzino nato nel 1936)
basta poco per distrarsi e anche grandi avvenimenti – spesso crudeli – vengono
accettati come fossero pratica quotidiana”. Sono gli anni in cui viveva o dalla
nonna al centro di Reggio Emilia o a San Polo d’Enza da una zia o ancora a
Villa Ospizio. E ricorda pomodori, frutta, oche, conigli d’angora, caprette e
galline.
Ricorda però anche il famigerato “Pippo”, un piccolo
aereo, le cui bombe colpivano a casaccio dove il pilota avvistava qualche luce. Più tardi scoprì che Pippo non era
appannaggio di Reggio, ma una simpatica conoscenza di molte città del Nord
Italia. Però in confronto ai massacranti bombardamenti dei Liberator a Littoria
le sue bombe erano come una canzonetta rispetto alla Forza del Destino.
“Suo padre – precisa Romolotti – doveva stare
nascosto, perché era ‘un padre per bene e quindi anticomunista’.” Segue questo
commento: “Quanto veleno, quante ipocrisie, quante vendette in quella terra che
si professa generosa e godereccia. Ma anche terra cattiva, sanguinaria e irosa
nei momenti tristi…
“Un bel giorno arrivò fragorosa la Liberazione…
Ricorda la marcia dei partigiani nella città, tutti
con un fazzoletto rosso al collo e ricorda donne ‘pluritettute’ che gridavano
strofette di questo tipo: ‘Col mitra e col fucile e con le bombe a mano al traditor fassista ce la farem pagar’.”
Commenta ancora l’autore: “Il senso generale di
queste parole era che tanti vecchi conti bisognava ora pagarli. Crocifiggendo ad esempio
Lorenzo Covoni sottotenente cattolico di 25 anni reo di essersi rifiutato di
sputare sul Crocifisso.
“Loro, i partigiani rossi e solo loro e da soli, avevano vinto la guerra!
Non gli americani, non gli inglesi, i canadesi, gli australiani, i russi, i
francesi, i neozelandesi, i maori, gli stessi italiani per bene.
Gli altri partigiani – quelli cattolici – non avevano diritto di
cittadinanza. Cominciava l’orchestra bene preparata, quella del prendersi
tutto: la vittoria, la resistenza, poi la cultura, la magistratura, il potere
sotterraneo”.
Una
dura constatazione la sua, controcorrente con tanta Storia dei libri di testo
in cui troppo a lungo e troppo spesso
non si è voluto far sapere ai giovani. Romolotti ha voluto ricordare: Littoria
e Reggio Emilia, i terribili anni del Triangolo Rosso, fino alla vittoria della civiltà (son parole sue) cioè le
lezioni del 18 aprile 1948 che ci salvarono dal finire “comunisti
sovietizzati”. Non solo ha anche scritto una bella battuta sulla Dc, cioè
“Democrazia non cristiana”
Un’intervista
che gli fece Stefano Lorenzetto, insignito
del Guinness per le sue “Interviste a tutta pagina” uscì con questo titolo: <<Faceva gli spot
con Frank Sinatra, poi ha fotografato la Madonna a Medjugorje>>.
C’è
infatti un altro grande tema che appassiona Romolotti ancora di più della
verità storica che ha sempre tenuto a
ricordare senza veli ideologici: E’ la
sua religiosità, la Fede.
Ha
scritto un bellissimo testo Medjugorje. E
dopo?
Il libro è introdotto da
una prima parte del vaticanista Andrea Tornielli cui segue una parte centrale
dell’autore stesso intitolata “La Sberla”
riferita all’esperienza che gli ha cambiato la vita: la foto da lui scattata e
riprodotta in copertina del libro, di cui conserva geloso il negativo. Rivela
la figura di Maria sullo sfondo del cielo.
La scattò più
di 30 anni or sono, il primo maggio 1987, andando a Medjugorje per fotografare
il fenomeno del sole roteante.
La terza parte del libro,
che riguarda il “Dopo” questo evento e la domanda che si pose: “Perché proprio
io?”, descrive i molti “Incontri” con i Gruppi di Preghiera al Palatrussardi,
con i pellegrinaggi in luoghi mariani…
L’incontro è stato anche
con i Santi, come la giovane Chiara Badano del Sassello, ora “Beata” e con la
comunità di recupero per tossicodipendenti a Giustenice di Pietra Ligure,
guidata da Suor Elvira e Suor Piera. “Vi si lavora e non si prende metadone
neanche per disintossicarsi”.
“Aborto, Divorzio,
Pornografia, Commercio d’Embrioni, Eutanasia”, sono da lui considerati come
distruttive false libertà.
Ha il culto della nostra
famiglia specchio di quella divina e nel dilagare di palestre consiglia non il
“body building”, ma la costruzione dell’anima cioè il “soul building”.
Sempre di Romolotti ho letto Diario
Inopportuno (tuttora inedito).
Negli anni settanta
organizzò nella sala conferenze di via Quadronno, dove sua figlia studiava
presso le Suore Marcelline, una proiezione che denunciava i pericoli del
divorzio in arrivo: erano gli anni che lui chiama del dannato
ed inutile ’68 dei figli di papà. E commenta: “Le Marcelline come altre
scuole private erano frequentate da
figli di benestanti e come tali rigorosamente agnostici se non dichiaratamente
contro la nostra religione”.
Il Diario prende l’avvio
da una Lettera di S. Paolo che ha scritto: “Testimoniate
la vostra Fede nei momenti opportuni ed anche nei momenti inopportuni”.
All’inizio di questo
testo, che conta circa duecento pagine, racconta di quando fermo ad un semaforo
in viale Papiniano a Milano vede nella vettura al suo fianco una giovane donna
rabbuiata in viso. Le fa vedere un’immaginetta di Maria dicendosi: “O l’accetta
o mi manda a quel paese”.
Lei l’accetta dicendo
grazie e dopo due o tre anni un’amica in Chiesa dopo la S. Messa gli presenta
una signora che è con lei. Questa gli dice: “Certo non si ricorda di me però
tempo fa, ferma ad un semaforo di Viale Papiniano, lei mi regalò una
immaginetta della Madonna. Stavo passando un momentaccio ed anche
quell’immaginetta mi aiutò a venirne fuori”.
E’ la riprova che della
Fede bisogna farsi testimoni, bisogna osare come appunto Romolotti.
Ma per concludere dato
che tra i suoi scritti, quelli di due o tre pagine, si trovano titoli molto
stuzzicanti: “Qui lo dico e qui lo nego”;
“Scarpe grosse e cervello fino”; “Venditore ambulante”, (ecc.) Quest’ultimo è proprio un racconto
cult per i suoi calembours divertentissimi. Un fuoco d’artificio di giochi di
parole a partire dal cliente che chiede al venditore: “Scusi ma lei ambula o
deambula?” e in un crescendo di equivoci per accostamenti di termini, questi
esasperato conclude: -Ma scompaia dalla mia vista e deambuli velocemente o sarò costretto a chiamare l’ambulanza che
finalmente la porterà al più vicino ambulatorio-
-E se mi limitassi ad
ambulare anziché deambulare, ritiene che mi ricoverino egualmente o faranno
storie?
-Lei è infido e bivalente,
è riuscito a mettermi nel pallone, faccia come vuole: deambuli, ambuli e
saltelli ma anziché recarsi in un ambulatorio si faccia portare in un
cenotafio. Ma anche nella nuda terra va bene.”
Dato che ho concluso una
recensione a L’Arte di accontentarsi
di Giglio Reduzzi (riportata in queste pagine) con un divertente monologo di
Paola Cortellesi (dedicato alla donna
troppo spesso considerata una “mignotta”), segnalo ciò che scrive
Romolotti con titolo “Quella donna è una
poco di buono”.
<<Ditemi sinceramente
se ha senso compiuto questo gioco di parole e chi l’ha inventato. Sicuramente -
l’inventore - o miope o ipermetrope o scemo. Un pessimista nato,
uno sconfortato depresso. O forse un vecchio laido ormai agli estremi che deve
limitarsi a leggere il menù, ma non più a desinare?
In genere – soprattutto le donne - ricorrono a questa sentenza per riferirsi
ad una donna dai facili costumi. Ipocrisia farisaica. Ma se - come dite -
questa signora non si comporta bene e mostra le sue grazie e volentieri ne fa
partecipi plotoni affiancati di pretendenti, significa che questa signora è
avvenente.
Insomma è tanto di buono,
altro che poco.
Altra cosa se stiamo
parlando di una racchia, in genere
definita “un tipo”. Allora la frase ha senso. E farà piacere alla racchia:
”Vedete? Un poco di buono ce l’ho. Dunque, avanti plotoni, avanzate verso di
me”.>>
Impagabile umorismo di un uomo serio che non parla mai a caso
ma che si diverte ad impareggiabili acrobazie linguistiche.
Ho recensito Romolotti grazie a Massimiliano Lussana, mio
caporedattore alle pagine di Genova de il Giornale. Giovane, colto, sensibile,
intelligente, umano e che ha saputo con queste pagine essere punto di
aggregazione di una Genova perbene.
Nel mio precedente Sito: http://mlbressani.wixsite.com alla
pagina 8 (Religione) di Recensioni e non solo c’è la mia recensione a Medjugorje. E dopo?
Oliver Sachs
Il
fiume della coscienza
Oliver Sachs
è uno degli autori che amo di più in quanto i suoi libri mi sono stati di aiuto
a capire malattie come il Morbo di Parkinson di cui soffrì per 25 anni la mia
amatissima mamma.
Mamma nella
foto dell’ottobre 1934 alla Festa dell'Uva a Bobbio nel costume tradizionale:
aveva 19 anni e quel giorno conobbe mio padre, distaccato da Trieste
all’Ufficio delle Imposte che le comprò un intero cestino d’uva.
Teresa Wendler e Marcella
Rossi Patrone
Questa iniziativa di una guida turistica in inglese e italiano è molto
intelligente perché la passeggiata di Nervi (definita la “più bella al mondo”)
continua ad essere molto frequentata da stranieri. Passandovi si sente parlare
in tante lingue quasi più che in italiano.
Le due autrici hanno come comune denominatore cultura e passione di
divulgazione ed un’amicizia che si è cementata da quando Teresa, anglo tedesca,
vive a Genova dato che Marcella vive a Nervi.
Teresa ha vissuto a Roma dove ha lavorato alla FAO. Ora, a Genova, lavora
presso aziende multinazionali e come traduttrice freelance.
Marcella, genovese, laureata in storia sociale della Liguria, ha
pubblicato diversi testi, tra cui Nervi,
S. Ilario, Quinto ieri e oggi con Pietro Risso.
Risso è la persona che di Nervi sa tutto in quanto non solo vi ha sempre
vissuto ma ha sempre avuto la curiosità di capirne le necessità. Ricorda quando
ai Parchi di Nervi c’era un'area delimitata a zoo dove si ammirava uno
splendido leone.
L’episodio che racconta e che a me piace tanto è di quando una signora
straniera ospite in uno degli alberghi di Viale delle Palme aveva perso un
brillante e Risso lo ricuperò dallo scarico del lavandino dove era finito e non
lo tenne per sé (altri lo avrebbe fatto) ma lo diede all’ospite che potete
immaginare come ne fu felice.
(Pietro Risso ad
Euroflora del 2017 a Nervi)
Nervi è sempre stata meta di stranieri e al capitolo 36 della intitolato
“La Riviera di Genova", se ne ha
un resoconto in dati.
“Secondo i dati del Touring Club (come vi è scritto) nel 1936 Nervi ospitò 11.446 turisti:5.035
stranieri e 6.411 italiani. Nel 1938 (quindi in soli due anni) aumentarono a
19.211: 9.267 stranieri e 9.944 italiani.
Al capitolo 38, intitolato il "Boom” si racconta che Nervi uscì
intatta dai bombardamenti delle guerra ed accolse i profughi bellici.
La grande ripresa avvenne nel 1949 con gli innovativi spettacoli teatrali
allestiti nei Parchi: dapprima la prosa, poi il balletto, i concerti, il
cinema. Dal 1955 al 1992 i Parchi furono il primo e l’unico teatro del Festival
Internazionale del Balletto.
Ora inserisco alcune foto tratte dalla pubblicazione: la Madonna che si
vede sopra l’altare maggiore dell’Assunta di Caprafico, chiesa che nacque
dall'Oratorio della Confraternita dei Bianchi, associazione di laici nata nel
Medioevo per praticare la carità cristiana (in pratica un volontariato ante
litteram). Aggiungo qualche notizia: l’immagine è in una pala in legno ed è la
più antica effigie della Madonna che abbia avuto culto in Nervi.
La Confraternita dei Bianchi venne fondata in Nervi nel 1441 da S.
Bernardino da Siena. In Liguria era vivo il ricordo del movimento dei Bianchi
che nel 1339 in turbe oranti provenienti dalla Provenza l’avevano attraversata
per recarsi a Roma per ottenere il Gran Perdono indetto da Papa Bonifazio IX.
La Confraternita dei Bianchi era di intrepidi navigatori e pescatori,
quella dei Turchini (nata nel 1638, nella zona della parrocchiale di San Siro)
era di contadini.
Il caprafico è nome del fico selvatico così si dice nella Breve Storia,
ma se avessero avuto più spazio (dato che una guida ha come requisito
principale di essere agile se no chi legge non la leggerebbe) la leggenda narra
come segue dallo storico testo di Alfredo Gaione Nervi, Sant’Ilario Ligure e
Quinto al mare stampato il 25 gennaio 1956 con la prefazione di Virgilio
Brocchi cui è intitolata la Biblioteca Nerviese e dove lo si può reperire.
L’antefatto è che nel XV secolo la popolazione del luogo riuscì a mettere
insieme tanto denaro per costruire un proprio Oratorio, ma nacque una disputa
per il luogo: allora durante una discussione molto accesa si decise di salvare
“capra e cavoli” affidando letteralmente la scelta ad una capra.
(Dal Gajone):
Quindi inserisco la foto di fiori di ‹‹datura››, pianta velenosa ma di
grande bellezza come spesso sono in natura fiori, cespugli, alberelli non
commestibili, pena intossicazione o morte.
Sono come la mela di Eva per Adamo o quella di Biancaneve: se ci pensate
più sono belle più non c’è da fidarsi: sono dark lady del mondo vegetale. A
Nervi questi fiori si trovano ai parchi (all’uscita in passeggiata dal Roseto e
in via Ghirardelli Pescetto. Ora ne vendono qualche grande vaso alcuni fioristi
e nella strada della Val Trebbia per Bobbio era una gioia vedere a Isola due
grandi dature fiorite davanti ad una casa, ma morta la vecchietta che ne aveva
cura chi ha avuto in eredità ha subito rimosso o gettato o portato altrove.
Infine metto questo caratteristico Monumento al subacqueo, un bronzo
opera del grande scultore genovese Guido Galletti. A Nervi nacque nel 1954 il
Centro Subacqueo Mediterraneo.
Poiché la Breve Storia di Nervi è corredata anche da belle foto d’epoca
ne inserisco una di un’étoile dei Balletti che nella posa sembra richiamare al
contrario il Subacqueo.
La strada della marina, un sentiero militare costiero che univa la baia
di Nervi a quella di Capoluogo, nel 1862 fu trasformata dal Marchese Gaetano
Gropallo, eletto sindaco in quell’anno in passeggiata a mare.
Lungo il sentiero militare nel XVI secolo erano stati costruiti il
Castello e La Torre (detta Torre del Fieno perché, dopo averlo bagnato, lo si
bruciava per avvertire gli abitanti che navi saracene erano in vista): erano
stati appunto costruiti per difesa.
Il Castello oggi è il simbolo più conosciuto di Nervi: vi impazzano
scuole di danza, vi si tengono Mostre e Conferenze. Ci sono anziani (Nervi è
un luogo rifugio di pensionati, però abbastanza abbienti perché il costo della
vita non è ai livelli di altre mete scelte da questa fascia di persone) che
vi disputano accese partite a carte.
E con questo accenno all’età più che matura dei nerviesi d'oggi dato che
sono un po' un'archivista e come m'insegnava Gianfranco Bianchi con cui
discussi la tesi alla prima scuola di perfezionamento in SSCS (Comunicazioni
Sociali) dell’Università Cattolica, mi piace inserire un articolo che è un gioiellino
sull'argomento. E' di un maestro bobbiese che non è più, valido collaboratore
del giornale diocesano La Trebbia.
Di Walter Cordani da La Trebbia
Non solo, dato che se in qualche modo torno con il pensiero a Bobbio, città
della mia mamma, dove da bambina avevo amici e trascorrevo parte della vacanze
estive mi piace inserire anche un articolo scritto per un bobbiese, da tempo
residente a Milano, che era stato compagno a scuola di mia zia Pina e che mi
cercò per affidarmi questi suoi ricordi.
Pietro Tacchini, Il testimone: Gli Angeli esistono.
“Per i primi giorni niente mangiare, fame
su fame”, è il primo ricordo del geometra Pietro Tacchini sorpreso a Pola l’8
settembre 1943. Oggi ha 86 anni, vive nel piacentino, è appassionato di libri
di storia, in particolare di quelli di Giampaolo Pansa. Allora era giovane
ufficiale del 57° Raggruppamento di Artiglieria. Il 10 settembre, preso
prigioniero dai tedeschi con il suo Reparto, fu avviato alla Caserma del
Deposito Marittimo di Pola trasformato per l’occasione in campo di
concentramento provvisorio. <<Così incolonnati – racconta – attraversiamo
le strade di Pola dove la popolazione ci rivolge frasi
d’incoraggiamento>>.
Una conferma viene da un libro di Lino
Vivoda Bruno Artusi e gli esuli da Pola (editrice PACE, Cremona) dove si
ricorda che <<in tutta la Marina rimase noto il generoso comportamento
delle donne di Pola durante l’8 settembre 1943. Allora quasi 45mila soldati
italiani, della guarnigione della piazzaforte militare o confluiti in fuga
dalla Croazia, erano concentrati nelle Caserme, prigionieri di poche centinaia
di militari tedeschi che sparavano in continuazione per impedire fughe. Per
alcuni giorni senza cibo i prigionieri attesero i vagoni che li avrebbero trasferiti
nei Lager della Germania e, sfidando le
sentinelle tedesche, le donne di Pola portarono pane nero e polenta, dividendo
le scarse razioni di guerra con ‘quei poveri fioi che mori de fame’. Quando
incominciarono a partire i treni, con i vagoni merci stracarichi di prigionieri
che lanciavano bigliettini con gli indirizzi, partirono da Pola anche cartoline
dirette agli indirizzi recuperati con la semplice scritta ‘Portato dai tedeschi
in Germania’>>.
Sempre da quel libro, in riferimento al
Diktat del 1947 che aveva assegnato Pola, compattamente italiana, senza alcuna
possibilità di esprimere la libera volontà di scelta, alla Jugoslavia alla
quale non era mai appartenuta nel corso della propria bimillenaria storia:
<<Trentamila cittadini scelsero l’Italia, restarono 4mila abitanti del
suburbio imbevuti di una propaganda che prometteva benessere sociale con
l’instaurazione del comunismo. Si scontrarono presto con la realtà del
nazionalismo jugoslavo. Oltre 2mila, fruendo di opzioni o con le fughe,
abbandonarono la città snaturata dall’immissione di decine di migliaia di
montenegrini, croati, bosniaci, serbi ortodossi o musulmani>>.
Pietro Tacchini provò quell’esperienza
della fame che resta una delle più traumatiche per ciascuno cui sia capitata.
<<Per noi prigionieri, diverse migliaia, non c’è per diversi giorni né
cibo né possibilità di ricovero, siamo costretti a vegetare all’aperto.
Convinto da tristi episodi di violenza sia contro di noi che contro i civili,
specialmente le donne, maturo l’idea di fuggire. Per progettare come, un giorno
con altri commilitoni mi porto sul retro della caserma chiuso da una rete e
guardato da sentinelle molto tolleranti con noi (erano polacchi incorporati
nell’esercito tedesco). Qui mi occorse un episodio commovente; verso di noi
vengono due signore: la più anziana veste con eleganza e la sua accompagnatrice
porta due borse delle spesa. Avvicinatesi, l’anziana mi chiede se conosco il
tenente..., alla mia risposta negativa chiede se me ne posso interessare. Corro
al campo dove apprendo che è partito da qualche ora con il suo Reparto e quando
glielo riferii la signora scoppiò a piangere. Mi disse di chiamarsi
Franceschini, di risiedere a Pola, di avere un’azienda che trattava legnami e
di avere un figlio giovane ufficiale a Trieste. Per quel tenente amico del
figlio aveva portato alimenti vari che mi lasciò, venendo poi a trovarmi ogni
giorno. Dal comportamento e dal suo sguardo capii il valore della vita e
l’immenso amore di una madre. Non ho mai dimenticato questo Angelo, come pure
ricordo sempre la generosa gente istriana, spinta dal suo sentimento
d’italianità ad abbandonare tutto per unirsi all’Italia>>.
Dopo il 20 settembre il Reparto di Tacchini
fu imbarcato sulla motonave Vulcania. A Porto Marghera li attendeva sulla banchina un lunghissimo treno di carri bestiame.
Appena discesi dovevano passare davanti a tedeschi armati e ad una pattuglia di
giovani militi della nuova repubblica di Salò e fu subito loro richiesto se
intendevano aderirvi. Alla risposta negativa, quasi totale, un energumeno,
assestando a ciascuno una bastonata sulla schiena, li fece salire su un carro
bestiame.
<<Con il tenente Giovanni Molteni, mi
pare che suo padre fosse titolare della Ditta “La Piombifera” di Genova, ci
sistemiamo vicino ad uno di quei piccoli finestrini posti appena sotto il
soffitto e chiusi all’interno da una grata e da una serranda in legno.
Progettiamo insieme la fuga: sarei uscito io per primo dal finestrino e
bisognava farlo di piedi e poi, spenzolando, puntare le gambe contro la fiancata
del treno per spingersi lontano nel salto ed evitare il risucchio. Molteni mi
avrebbe seguito, dovevamo muoverci l’uno verso l’altro per ritrovarci.
Il salto avviene passato il Tagliamento,
poco prima di Codroipo, in un momento in cui i tedeschi non illuminavano il
convoglio con i fari e di quando in quando sparando per scoraggiare i tentativi
di fuga. Svengo per l’impatto della caduta e riprendo coscienza con la pioggia
che mi batte sul volto, (di Molteni saprò solo a fine guerra che era stato internato
in Germania). Rinvenendo mi picchia sul volto anche la luce di una
lanterna; mi ha trovato un casellante della linea ferroviaria di Codroipo, ‘il
mio secondo Angelo’. Si chiamava Dangela, nome in sintonia con il suo ruolo in
quel frangente: mi ospitò a casa svegliando la moglie e le loro due bimbe, mi
curò mettendo a repentaglio la sua e la loro incolumità. Infine mi procurò una
tessera da ferroviere per viaggiare sul locomotore fino a Milano-Lambrate.
Ma all’arrivo sul marciapiede c’è una pattuglia di tedeschi e una di
repubblichini. Sono sgomento per tema di essere arrestato data l’evidenza del
mio stato fisico. Un’elegante signorina, il terzo Angelo, mi si avvicina, mi
abbraccia sussurrandomi di far finta che siamo parenti, mi scorta sottobraccio
fino ad un bar. Il barista mi nasconde in uno stanzino del retrobottega,
raccomandandomi di non farmi sentire e torna verso le 16 per accompagnarmi,
lungo un intricato percorso, su una banchina ferroviaria. Pochi minuti dopo
salgo su una carrozza indicatami dal capotreno suo amico. Viaggio ottimo che mi
porta a Piacenza e a casa dove mio padre credeva di non rivedermi più>>.
Maria Luisa Bressani
GINO ARCIDIACONO
Artista che vive a Nervi
Prima di raccontare di Gino Arcidiacono, mi piace
inserire l'immagine di due quadri di Rubaldo Merello, che con i suoi azzurri ha
saputo far risplendere la bellezza del nostro Mar Ligure della Riviera di
Levante.
Questi quadri: Paesaggio e S. Fruttuoso si trovano
alla GAM di Nervi dove tutte le opere del grande maestro sono confinate in una
stanzetta cosa che rappresentava un vero dispiacere per quell’ottimo critico
d'arte che è stato Germano Beringheli. Per Merello avrebbe voluto uno spazio
molto maggiore e proprio all’Ingresso del Museo.
E’ indubbio che Gino Arcidiacono ha il dono di saper
riproporre azzurri e trasparenze del nostro mare, proprio la trasparenza
dell’acqua marina che da noi si colora in mille sfumature per gli scogli
sottostanti e tutto il verde (pini marittimi, cespugli) che vi si proietta
sopra. Ora ve lo faccio toccar con mano: potete ammirare il quadro che ha
scelto per la copertina di un suo dépliant pubblicitario ma anche i
“nostri" cactus della Passeggiata a mare di Nervi, come pure le ginestre
che talvolta su questo si affacciano da qualche roccia.
Inserisco per concludere anche il retro della
copertina del dépliant perché vi trovate notizie sull'autore.
Ma prima di inserire il retro di copertina vi voglio
anche segnalare che Arcidiacono e la sua gentile signora spesso sostano in un
punto della passeggiata Anita Garibaldi vicino a quello che è detto l'Arco
dell'eco. E lì Arcidiacono ed un altro "volontario" si danno a pulire
le aiole circostanti da quello scempio di frequentatori incivili: bottigliette
di plastica abbandonate, cartacce bisunte di focaccia ecc. Come non si riesce a
capire che la bellezza dei nostri luoghi va preservata pur se nessuno vi darà
una multa?
L’altro volontario è mio marito e dovreste
ammirarli: uno porta i grandi sacchi neri della spazzatura, l’altro se vede che
non sono passati coloro che raccolgono la spazzatura li mette dove siano ben
visibili senza però deturpare la vista dei turisti che in questo periodo
dell’anno sono tanti. La passeggiata di Nervi da più di uno è stata definita la
più bella al mondo.