INDICE

1)    Clara Rubbi Longo, I Rubbi - Storia di una Famiglia (2017, Ecig)

2)    Paolo Antognetti, Il passato ritorna (2019, Jaimar Editore)

3)    Claudio Papini, Marx 1968 – IV – Filosofia e ideologia in Marx (De Ferrari Editore)

4)    Giglio Reduzzi, Rudimenti di Economia (autopubblicato)

5)    Claudio Papini, -Traduzione e introduzione de Daniel Massé,  L’Apocalisse e il Regno di Dio -

                       - L’Apocalisse, unico vangelo cristiano nel II secolo, Apuleio, Luciano. (De Ferrari Editore)

6)    Paolo Rumiz, Il filo infinito - Viaggio tra i monasteri alle radici d’Europa (2019, La Repubblica)

7)    Monica Bulay, Mostra al Ducale di Genova (2008), Intervista di Maria Luisa Bressani 

8)    Guido Barbazza, Il Genovese Volante, (2020 Il Canneto Editore)

-         Rewind  (2012, De Ferrari)

-         Genova e Trieste

9) Il cardinale Giuseppe Siri e la Storia di Genova, in Tesi di Maria Luisa Bressani per la SSCS (1993/94)            

 

 

 

                                            Clara Rubbi Longo

 

 

                                           

 

 

In questo suo ventiquattresimo libro “I Rubbi” (Ecig Edizioni), storia della sua famiglia, ci sono parole molto significative che la  mamma dell'Autrice, Ninetta Pecorella sposa di Bruno Rubbi, disse a lei, la primogenita delle famiglia. Non voleva che l’aiutasse in cucina, né che imparasse a cucire lei che sapeva fare autentici capolavori con uncinetto, ago e filo, e una volta le disse: “Clara non devi far altro che quello per cui sei nata, ‘leggere, studiare, scrivere’”.

Parole tanto più importanti in quel tempo se suo nonno materno, il commendatore Cosimo, affermava: “Le donne troppo istruite non trovano marito. Non fatela studiare”. E suo padre non era da meno: “Al massimo potrà fare la maestra, se proprio vuole studiare”. Così l’intelligente mamma Ninetta la iscrisse al Liceo-Ginnasio Cristoforo Colombo, falsificando la firma paterna che allora era richiesta e quindi indispensabile.

Clara Rubbi ha conseguito due lauree, per molti anni è stata docente di lettere in vari Licei della città, critico teatrale, iscritta all’Ordine dei giornalisti della Liguria, presidente del Lyceum Club di Genova e insignita nel 2013 dell’onorificenza di “Commendatore al merito della Repubblica Italiana”.

Come scrittrice ha avuto moltissimi premi: il Bancarella, il Bancarellino, il Premio della Regione Liguria, il Premio Carrara.

La foto seguente testimonia una di queste premiazioni.

 

 

                       

Foto tanto più importante perché il primo da destra è Giuseppe Benelli che ha firmato l’Introduzione al libro. In quarta di copertina Clara ha inserito queste parole del Professore: “Ad una certa età il bisogno di ‘consegnare’ il proprio mondo affettivo si fa più impellente, quasi ci fosse la necessità di segnare sulla carta figure che hanno accompagnato  e determinato la nostra vita".

Dall’Introduzione  di Benelli, che secondo me è impareggiabile critico per sensibilità e cultura, mi ha colpito questo giudizio sulla narrazione di Clara: “Con incantevole levità racconta il mondo dei suoi affetti, i riti familiari, l’amore e la morte, quasi fossero l’alternarsi delle stagioni”. 

Il microcosmo dell’autrice si allarga attraverso i personaggi, la madre che ho già ricordato ma anche la suocera, donna Ida, al cui corteo funebre, in segno di rispetto e affetto, i negozianti abbassano a metà le serrande dei negozi. Su tutti nella prima parte del libro svetta il ritratto del padre. Figlio di contadini, orfano a otto anni, un uomo che si fa da sé, biondo e bello e con gli occhi azzurri. Così determinato a sposare la sua Antonietta (Ninetta) che per ottenerne la  mano dal severo suocero Cosimo gli fornirà la storia di famiglia, avuta tramite l’Araldica di Firenze e raccolta in un volume pagato salatamene.  Anzi Bruno nel primo colloquio con lui (quando ancora non aveva commissionato la ricerca sui suoi avi) gli dirà di sapere per certo che a Budapest esiste un grande libro con i nomi delle famiglie nobili di tutta Europa, posto su un leggìo in piazza, nella parte alta della città.

In breve la storia di famiglia risale al 2019 quando i Rubbi erano già presenti a Bergamo. Nel 1552 la famiglia fu aggregata al Consiglio dei Nobili che governavano la città. Tra i discendenti don Antonio Rubbi, morto in fama di santo (interessantissima la ricerca storica che lo riguarda) e un raffinato letterato Andrea Rubbi, professore di teologia e poeta vissuta tra Sette/Ottocento, canonico di Santa Maria Maggiore. A Venezia esistevano altri nobili di nome Rubbi, altri cardinali a Bologna…

Però, dopo aver consultato il libro dell’Araldica, Bruno fa uno strano sogno: vede la sua Ninetta in abito da sposa ma si trova anche a duellare con un alter ego nella salita che lo porta al castello di famiglia perché gli piovono addosso sassi da tutte le parti. A duellare sono il Bruno popolano, ribelle al potere del conte (e quindi tra i lanciatori di sassi) e il Bruno nobile, il conte che voleva veder morto il figlio del popolo… Bruno sarà antifascista convinto. Una volta cercò di salvare un impiegato dell’Ansaldo che abitava nel suo stesso Palazzo in via Ambrogio Spinola da due fascisti in borghese venuti a prelevarlo. Non ci riuscì e quell’uomo, Salvatore, figura nell’elenco dei Martiri del Turchino.

Torno alla sapiente Introduzione di Benelli quando cita, da subito, parole di Shakespeare: “L'amore non /muta con le sue brevi ore e settimane/ l’amore resiste fino alla soglia del Giudizio”. Commenta il Professore: “Come a dire che i soli amori che contano sono quelli infiniti, quelli che tendono un ponte tra il tempo e l’eternità". E se Clara ha avuto l'esempio dell’amore dei genitori, Bruno e Ninetta, a sua volta avrà un amore saldo, durato tutta la vita di sposi. A 15 anni al Liceo-Ginnasio Colombo s’innamora del suo professore Vincenzo Longo e se si dice che le figlie padrizzano questi rassomiglia a suo padre perché come lui è biondo, azzurro d’occhi e alto. Anche da parte del Professore si sviluppa l’amore, ma lo manifesterà solo dopo il conseguimento da parte di Clara della prima laurea, quando sarà lui ad accompagnarla nel cammino per la seconda.

Il finale del libro è proprio tutto dedicato al marito Vincenzo, morto d'infarto la sera del 2 gennaio 2009. Da parte di lui restano per lei una dolce poesia e le parole di questa lettera che un po’ la riassumono: "Sei stata della mia vita l'Angelo custode in terra, correggendo ogni giorno le mie più vistose pigrizie, dando ispirazione e nutrimento a quello che c'era in me di buono".

                          

 

                                 

                                       (Il Prof. Vincenzo Longo alla sua scrivania)

Clara è convinta - (ed ha raccolto testimonianze al riguardo e approfondito l’argomento) che al termine della vita ci vengano incontro i nostri cari per  guidarci verso la luce. Così,  a sua volta, chiude il suo racconto con parole rivolte al marito: “Amore mio ritorna da me, vieni ancora ad accompagnarmi per le strade della città che percorro da sola”.

Questa solitudine pur se riempita con tante attività (il Lyceum, lo scriver libri interessanti, l'essere riuscita a far istituire un “Premio Vincenzo Longo” e l’aver ottenuta per lui l’intitolazione della scalinata che, guardando di fronte il Liceo D’Oria, è sulla sua destra) mi ha riportato alla mente la poesia che Natalia Ginzburg dedicò in morte al marito Leone:

                              "Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,

                                 ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.

                                              Ma era l’ultima volta.

                                              E le mani eran quelle

                                 Che spezzavano il pane e versavano il vino...

                           Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo

                                   A guardare il suo viso per l'ultima volta.

                                Se cammini per strada nessuno ti è accanto

                                  Se hai paura nessuno ti prende la mano

                                   E non è tua la strada, non è tua la città”.

                      E’il senso alto di una comunione di spirito e cuore tra due persone.

 

 

Un aneddoto: Al Lyceum prima del Natale 2019 c’è stata la presentazione del libro di Clara Rubbi da parte di Elisabetta di Palo.

La presentatrice, cara amica della scrittrice, le ha chiesto perché non abbia inserito in questa storia di famiglia anche alcuni episodi divertenti di cui lei era al corrente.

Ne cito due per farvi sorridere.

Al Liceo-Ginnasio Colombo dove Clara s’innamorò del Professore Vincenzo Longo che poi diventò suo marito c’era un collega di questo, il Professor Tarditi un po’ tanto sordo.

1) Un giorno ad un allievo che aveva chiesto di andare in bagno aveva fatto segno di sì con la mano ed un altro, subito dopo, dal fondo della classe, gli chiese: “Professore posso andare a letto con sua moglie?” (era la goliardia nascente in quegli anni lontani che poi ebbe specie a Genova divertenti sviluppi: qualcuno iscritto all'Università non studiava ma pensava solo alla rappresentazione che avveniva ogni anno  nei pubblici teatri e si chiamava Baistrocchi). E il Tarditi (che forse aveva anche sentito ma intelligentemente fece finta di niente): “Aspetti che c'è già un altro" (e alludeva al poter andare in bagno).

2) Secondo episodio raccontato da Clara stessa.

Nel libro un capitoletto è intitolato “Attenti alle compagne!". Il padre di Clara infatti era comunista e partecipava agli incontri serali che il Partito organizzava per catechizzare gli iscritti e le loro famiglie.  IL padre Bruno allora sulla quarantina era rimasto magro bello fiero e le “compagne" se lo mangiavano con gli occhi. In quelle interminabili riunioni di Partito si parlava anche di “amore libero" e per le donne del “diritto a gestire il proprio sesso”. Ninetta, saggia mamma di Clara, lo accompagnava sempre costretta a sorbirsi quelle interminabili riunioni pur di non lasciarlo solo in balia delle compagne che se lo prendevano –disinvolte- sottobraccio.

Noi in Italia vicinissimi al Vaticano, siamo cresciuti con un particolar riguardo al culto della famiglia, della religione, del timor di Dio, e pur se oggi i partiti hanno questioni più urgenti da dirimere, possiamo chiederci se “la conquista dei diritti" non sia stata spesso una decadenza di valori cristiani. Penso a Nilde Jotti, amante di Palmiro Togliatti che non lasciò mai la moglie e questa sopportava il peso della loro figlia handicappata, penso alle famiglie arcobaleno, ai gay pride, alla pedofilia che ha rovinato ragazzini innocenti, penso a Bibbiano e alla bambina strappata ai genitori per darla ad una coppia di lesbiche. Vi sembrano diritti “civili?".

Sono contenta per me stessa di pensarla diversamente e di scandalizzarmi  per costumi troppo liberi pur se mai ho discriminato. Amo per le fanciulle in fiore quel concetto del dolce Stil Novo, della donna angelicata, credo che mai e poi mai si debba dar scandalo ad un bambino o rovinare la sua innocenza. E questo non vuol dire discriminare.

 

 

                                              Paolo Antognetti

 

 

                                     

 

 

Paolo Antognetti, appena laureato in Ingegneria, alla Facoltà di Genova, stava per essere cooptato nella nascente Silicon Valley dove si cercavano i migliori cervelli, ma preferì seguire la carriera universitaria in Italia. Più tardi si trasferì in Svizzera dove divenne Imprenditore.

Figlio unico ha voluto quattro figli e, per ora,  ha un nipote.

Ama scrivere e ritiene che sia stato Piero Raimondi, suo professore di Lettere al D’Oria di Genova, ad inoculargli questo “germe” o meglio “seme”, perché fecondo di frutti.

I frutti: “L’arte di vivere a lungo", Ed. Mediterranee (1966), e poi con Jaimar editore ha pubblicato “Le radici del futuro” (2014), “L'isola sacra" (2017), “Matrimonio nel Deserto” (2019).

Da ultimo – per ora - e sempre con Jaimar “Il passato ritorna" (2019), un thriller moderno, in cui il giallo si è più che mai noir.

Di alcuni giudizi, riportati da Antognetti all’interno di copertina, ne scelgo uno molto conotativo: “I temi portanti de ‘Il passato ritorna’  sono una summa dei problemi con cui la razza umana si trova a confrontarsi da migliaia di anni: potere, sesso, denaro.”

A me è sembrato folgorante  il personaggio Jasmina, “dal fascino orientale, dagli occhi scuri tipo mille e una notte”. Queste le parole con cui la ricorda l’onorevole Enrico Giannini, il politico su cui la ventiquattrenne di Marrakesh, emigrata in Italia da quando aveva tre anni, ha svolto la sua tesi di laurea in Scienze Politiche.

Una Jasmina “fiammeggiante”, non solo perché è bella ma perché ha continuato gli studi all'Università (e suo padre non ne era per niente convinto) e con la laurea  si era piazzata in quel “trenta percento”  di italiani con diploma universitario.

E’ fidanzata con Michele, compagno di studi, e la sera della laurea con altri laureati si ritrovano tutti al lago per festeggiare. Quando Jasmina vuol tornare a casa il fidanzato non l’accompagna, tanto più che l’auto della ragazza è in un posteggio vicino. Lui si ferma ancora con gli amici forse anche per consolare l'amico dall’infanzia Alessio, che ha mancato il diploma. Non è riuscito a laurearsi e lo sente come un fallimento.

Lei, Jasmina, si addentra nel breve percorso attraverso il bosco per raggiungere il parcheggio, ma una voce, nel buio, le chiede “Scusi signorina, avrebbe mica una sigaretta?”

Il racconto si fa agghiacciante: la paura di Jasmina diventa terrore, pur se vuol ostentare coraggio, la sua corsa disperata, l’altro che l’agguanta, lo stupro. Lei, salva per miracolo, non camminerà più, rimane sfigurata e le danno una pensione d’invalidità. Lei non ha voluto tener legato a sé il fidanzato, ma anni dopo gli scrive una lettera. Lo fa quando capisce di non poterne più di una vita in cui l’unica consolazione sono quei “vecchi quaderni di scuola in cui scriveva poesie” e che mai ha buttato. Lo stupratore le ha portato via la vita e lei ha cercato di risollevarsi senza riuscirci ritornando con il pensiero sempre al prima, quando aveva il mondo davanti.

Nell’ultima lettera a Michele, anni dopo il fatto, ricorda: “… quando uscivo di casa con mio padre che spingeva la mia carrozzina ero sempre e comunque quella ‘puttanella’ di studentessa…” Gli dice anche: “Per non parlare poi della pietà, la cosa più difficile per me da accettare”. Ma la giovane marocchina non ce l’ha fatta più quando nel 2011 è intervenuta la prescrizione per il suo stupro. E non ha visto la giustizia realizzarsi, non ha mai saputo chi le aveva fatto quel male così grande che è perfino considerato “crimine di guerra" (pensate alle marocchinate… e ciò è stata storia, la nostra storia!).

Questa è stata la sventurata ma splendida Jasmina!

Quel primo capitolo con la sua fuga disperata mi ha fatto pensare che Paolo Antognetti, mio compagno di liceo, sempre ricco d’aplomb, sempre intelligente e studioso, sia diventato un bieco killer tanto è realistico il suo racconto, anzi un killer seriale perché c’è nel libro un altro episodio di violenza su una giovane ragazza.

Invece è quell’arte di narrare che si matura scrivendo, un dono ricevuto ma da far risplendere.

Il libro è affollato di personaggi: Il padre di Jasmina, un islamico che non ha mai approvato la vita da normale studentessa occidentale della figlia; il mancato laureato, Alessio Vinci, poi presentatore Tv, noto ed amato tanto da voler fare il salto in politica. Così esordisce come candidato alla guida della Regione Lombardia: “Amici, sono profondamente convinto che se Panorama mi ha classificato negli ultimi due anni di fila tra le top-cinque personalità preferite dai lettori del Nord Italia, vuol dire che so parlare alla gente, che so capirla, e penso che a sua volta la gente mi capisce molto bene, perché uso il loro linguaggio. A tutti quelli che mi accusano di facile populismo, pongo questa semplice domanda: Non è forse populismo la volontà di capire il popolo, i suoi desideri, le sue paure?”

Parole che ho messo in corsivo per far risaltare come questo noir sia un libro di attualità: ho segnalato solo uno spunto, ma incontriamo “la macchina del fango”, le "fake news", la “prescrizione", il “problema dei migranti", l' “odio razziale", la "Ghb o droga dello stupro", il dramma della tossicodipendenza. Tutti temi d’attualità come nel libro s’incontrano cenni alle vicende della stimata Casa Editrice Hoepli o si nominano nostri vini pregiati dal Brunello di Montalcino, annata 2009, al Prosecco…

Con sapiente arte del narrare il racconto alterna capitoli, che riguardano il momento antico dello stupro con inizio delle indagini, a capitoli di un tempo molto posteriore: uno scandalo per pedofilia montato per stroncare la carriera politica di Alessio, la ripresa delle indagini. E c’è un personaggio pulito: il commissario Mori che indaga fin dall’inizio ma che deve smettere perché ordini superiori gli tolgono l’indagine. Ha però la soddisfazione di vedere il caso risolto vent’anni dopo, anche se non da lui. Illuminanti del suo carattere queste sue parole di quando voleva proseguire l’inchiesta contro il parere dei suoi capi: “Ho un giuramento da rispettare, la mia parola vale pur qualcosa, se anche la Polizia mi sembra aver perso l’onore, non intendo svendere il mio”.

Quanto alla politica, a fronte di tanti nostri scoramenti di elettori, appare significativo il duro giudizio dello scrittore ed Ingegnere-Professore-Imprenditore (qualifiche che gli danno titolo per parlare con ragione): “C’è un altro lavoro che premia altrettanto l’imbecillità, che permette  a un cretinetto qualsiasi di diventare un capo basta che sappia affascinare le persone?” Parole messe in bocca all’onorevole Giannini, quello su cui Jasmina aveva scritto la sua tesi e con cui aveva anche avuto una breve relazione, per cui un tempo era stato il maggior sospetto dell’indagine del commissario Mori.

Tanti i personaggi abbietti di questo noir ma vale una considerazione più generale: “L’incredibile banalità del male può stravolgere e distruggere vite”.

Il lettore che voglia meglio documentarsi può farlo sul sito www.antognetti.it

Ancora una piccola notazione sulla copertina: questa immagine misteriosa piace così tanto ad Antognetti che vorrebbe metterla come cover - quasi sigla personale - nel ripubblicare i quattro romanzi che ha edito con Jaimar.

 

(Di Antognetti ho già recensito L’Isola sacra (v. la pagina Gemme ritrovate di www.marialuisabressani.it)

 

 

 

                                                           CLAUDIO PAPINI                                    

 

                                                                

 

 

Questo quarto libro del professor Claudio Papini dedicato a Marx  inizia con una carrellata di filosofi contemporanei a Marx o che lo precedettero e gli furono di ispirazione o di sua critica  ed è tutto imperniato su ciò che distingue ideologia da filosofia.

Cerco di ricostruire il filo logico del discorso del professore e pur se un tempo si criticava – giustamente – che le recensioni fossero più un assolo personale di chi scriveva su un libro e  si pavoneggiava, spesso non riportando che in minima parte ciò che nel libro c’era davvero, ora non vorrei incorrere nell’errore contrario: ciò che scrive e pensa il prof. Papini è così esatto e a largo raggio nel tempo che vorrei citare solo parole sue. In pratica il mio sunteggiare il suo testo Marx 1968 IV - Filosofia e ideologia in Marx (De Ferrari,Genova,2019) rischierebbe di diventare un esercizio di copiatura o "un fare pedissequamente le bucce" a ciò che ha scritto, ma ci provo perché stimola la mia intelligenza ormai messa troppo a riposo.

Parto da una riflessione di Hegel dato che ad ogni capitolo del libro come nei precedenti tre dedicati a Marx, Papini inserisce sempre qualche citazione illuminante per ciò che sta per dirci

Da Hegel, dunque: “Se la riflessione… riguarda il presente come cosa vana,essa si ritrova nel vuoto e poiché soltanto nel presente v’è la realtà, essa è soltanto vanità. La filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l’idea”.

Un punto mi pare fondamentale nelle tematiche marxiane messe in luce da Papini: “La cosiddetta ricerca della verità è porsi sul piano intellettuale nella Libertà”.

(E noi siamo stati allevati scolasticamente a concetti come questo: “Libertà ch'è si cara come sa chi per lei vita rifiuta…”).

Ma l’esercizio intellettuale della libertà ha sempre un presupposto: “Una situazione di Libertà politica cioè l’esistenza di una società almeno policentrica”. Concetto questo che ci è arrivato attraverso "i classici", quelli che ci fanno studiare da sempre nel nostro ordinamento scolastico ma anche quelli di altri Paesi che inseguiamo per capire un po’ di più di noi e dell’essere.

A questi primi concetti, libertà e libertà politica, si affianca inevitabilmente quello di Dittatura perché è “essa che – pur nel disagio morale che comporta – garantisce una specifica omogeneità. Nella dittatura il partito e lo Stato sono connessi in un dominio burocratico ed ideologico”, e  queste sono tutte osservazioni di Papini.

Però questo altro concetto fondante che viene introdotto, lo Stato, viene diversamente interpretato: 1) un marxista come Lenin vorrebbe eliminarlo in quanto espressione degli interessi della borghesia; 2) Stalin invece lo considera la migliore celebrazione della statualità socialista.

Se si passa alla Verifica - cioè a ciò che interessa la vita della gente - si arriva al concetto di Mercato.

Il Mercato borghese è espressione di libera concorrenza, il Mercato socialista è frutto di un alto grado di pianificazione autoritaria.

Lo Stato - tornando ad Hegel - è un prodotto delle Società giunte ad un determinato grado di sviluppo.

La Chiesa si pone come contraltare allo Stato: è una scelta istituzionale che “solo dopo un lungo processo storico è venuta rarefacendo le attitudini specificamente politiche senza mai abbandonarle del tutto”.

Tra Stato e Chiesa l'Universale Borghese in Italia è sempre stato una realtà presente ma incompiuta e se facciamo riferimento al "nostro" Pirandello (nostro per modo di dire dato che la sua fama e i suoi scritti hanno travalicato i confini) per lui "i conservatori e i borghesi" sono i veri personaggi in cerca d'autore.

Dopo questa apparente divagazione che in realtà è stato un allargare la sua osservazione a tutto campo, a 360°, Papini ritorna al compito della Filosofia che è non tanto dire la Verità quanto tornare ad essere la Verità. E qui l'Autore rivela tutto il suo “poetico" idealismo.

C’è anche un altro rapporto da lui considerato, quello fra uomo e natura, infatti leggere un libro di Papini è come essere trasportati in un viaggio di scoperta di noi e dell’esistere.

Desidero però rilevare un altro aspetto che rende molto interessante Claudio Papini: la sua “critica”.

Infatti critica Marx quando “questi scalza il primato della coscienza per trasferirlo ad un fare strumentale guidato preliminarmente da un modello ideale di ciò che si vuole realizzare”. “L’uomo è l’animale che fabbrica utensili”, dice Marx, ma  Papini osserva: “Siamo di fronte  ad una riduzione ingiustificata di quella che è la dimensione culturale in tutti i suoi aspetti per l’uomo e del principio che la fonda, cioè la produzione di utensili per il lavoro. L’organizzazione della produzione non è che una parte dell’attività mentale e pratica; anzi viene a porsi  come  un momento discriminante visto che anche le società animali organizzano la loro autoconservazione e si servono di utensili seppur rozzi”.

In nota (n.115, p.100) cita Mumford, categorico nel negare l’importanza primaria degli utensili, anzi Papini afferma ancora: “Considerare l’uomo un animale che si serve di utensili significa trascurare i capitoli più importanti della storia umana…l’uomo è soprattutto un animale produttore di pensiero”.

Si serve ancora di parole di Mumford sul concetto del termine greco tέχνη “che non distingue tra  la produzione industriale e le arti belle e simboliche; e per quasi tutta la storia dell’uomo  questi due aspetti furono inseparabili, rispettando l’uno le condizioni e le funzioni oggettive, rispondendo l’altro a necessità soggettive” (v. Il mito della macchina di Mumford a p. 21).

Cita Marx nel suo rapporto con Hegel quando dice (I capitolo del Capitale): “I modesti, presuntuosi e mediocri epigoni che dominano la Germania trattano Hegel come un cane morto”.  E continua in questa sua appassionata difesa di concetti in cui crede, tessendo rapporti tra la società borghese, le sue contraddizioni, da cui consegue una filosofia  della storia per arrivare al concetto di Lavoro, che come già precedentemente quello di Mercato, è cosa che interessa gli uomini tutti, cioè ogni Società. 

Di Marx accoglie queste parole: “Il mio punto di vista che concepisce lo sviluppo della formazione economica delle società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi”.

Tralasciando Marx, oggetto e soggetto di questo studio di Papini, voglio anche ricordare per il suo brillante spirito di critica queste sue parole a proposito di Mussolini, su cui tuttora si dibatte e sempre – purtroppo! – per fazioni ideologiche.

 “Vilfredo Pareto (nel suo ultimo articolo scritto su Gerarchia-luglio 1923) aveva invitato Mussolini a non gettare l’Italia nella spire del Vaticano, e questo avevano già detto con accenti diversi nel periodo in cui erano avviate le trattative che portarono alla firma dei Patti lateranensi (11 febbraio 1929) sia Croce che Gentile, Giolitti, Julius Evola.

Come è noto il Duce dell’Italia fascista fece ben diversamente. Difficile condividere la sua scelta, ma nello steso tempo difficile, politicamente, dargli torto. E’ evidente che anch’egli, nonostante la rivoluzione fascista, anch’egli avvertiva debolezze intrinseche nell’assetto etico-politico del Paese e ricorreva  al supporto ecclesiastico, coinvolgendo la Chiesa (destinata a rivelarsi un collante meno forte di quel che egli immaginava, viste le contraddizioni intrinseche all’istituzione ecclesiastica).

Un bel libro, questo del professor Papini, che purtroppo ho percorso a “colpi d’accetta”, ma su cui è bene meditare.

Sembra di uscirne migliori nel senso che aiuta a capire fatti della storia e persone controverse (e sempre per opposte fazioni) come Marx o anche Mussolini.

 

 

(Mi piace ora inserire questo saggio sull’Economia perché dopo Marx e la discussione su Stato, Mercato ecc., a tanti anni di distanza, nel nostro tempo, queste considerazioni rappresentano molto bene la modifica di tanti concetti.

Poi al Saggio farò seguire un mio breve commento)

 

 

 

                                                          Giglio Reduzzi

 

                                                   RUDIMENTI  DI ECONOMIA

 

                                                 (Auto-pubblicato nel gennaio del 2020

                                                 nella speranza che qualcuno lo legga)

 

Se mai i miei nipoti mi chiedessero di spiegare loro cos’è l’economia (cosa che si guardano bene dal fare), mi sforzerei di usare un linguaggio semplice e parlerei loro nei seguenti termini:

1. l’economia è l’arte di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.

2. Allo Stato compete fare le cose che, richiedendo un grande impegno organizzativo e finanziario, il singolo non può fare. Tipo strade, scuole, prigioni ed ospedali.

3. Perché lo Stato possa fare quelle cose è necessario che i cittadini gli diano i mezzi per realizzarle.

Ciascuno nei limiti delle proprie possibilità. Questi “mezzi” si chiamano imposte e/o tasse.

4. Evadere le tasse è un crimine. Salvo che un cittadino rinunci in partenza ad usufruire dei servizi forniti dallo Stato.

Cosa che può fare solo espatriando. Una volta per sempre. Non che faccia dentro e fuori secondo la convenienza.

5. Perché al punto 3 si dice che ciascun cittadino deve pagare le tasse “nei limiti delle proprie possibilità?

Semplice: perché la ricchezza si trova distribuita tra i cittadini in modo diseguale.

Poveri e ricchi sono sempre esistiti. Nessuno è mai riuscito ad abolire del tutto la povertà.

6. Tentare di ridurre le distanze tra ricchi e poveri costituisce l’assillo costante dei partiti politici cosiddetti di sinistra (comunisti, socialisti, ecc.), mentre i partiti di destra sono più interessati a creare ricchezza.

7. Questa può essere creata solo da aziende che nascono dalla libera iniziativa dei singoli cittadini o piccoli gruppi dei medesimi.

8. Lo Stato deve limitarsi a creare le condizioni perché queste iniziative crescano e prosperino.

Non può occuparsene direttamente, perché i servizi in cui è impegnato, oltre ad essere di grandi dimensioni, sono generalmente slegati dalle leggi dell’economia, in quanto rivolti più al fine (per esempio assicurare la salute dei cittadini) che ai mezzi utilizzati per raggiungerlo.

Dunque, in questo caso, lo scopo deve essere conseguito a qualunque costo, mentre, come abbiamo visto, l’economia prevede che il fine venga raggiunto con il minimo sforzo.

9. Quali sono le condizioni che lo Stato deve garantire al cittadino, italiano o straniero, che desidera impiantare una fabbrica in Italia?

Le condizioni sono che gli vengano garantiti:

        a) Il libero accesso alle infrastrutture esistenti, eventualmente migliorandole,

        b) La libertà d’impresa (cioè la libertà di scegliere a suo piacimento il miglior modo di combinare materie prime e manodopera),

        c) Una struttura statale non ostile (meglio se amica). In particolare, un giusto e rapido processo nell’eventualità  che

            l’imprenditore incappi in una lite giudiziaria,

         d) Un’equa tassazione dei profitti nascenti dalla sua iniziativa.

Si tratta, come è facile vedere, di condizioni minime che, se mancano, rendono l’impresa impossibile.

Specie se a mancare ce n’è più di una.

Prendiamo, per esempio, il requisito della libertà d’impresa.

Se ad un imprenditore viene imposto di assumere 10 lavoratori, in luogo dei 5 che lui aveva stimato essergli necessari (magari suggerendogli anche i nomi), è chiaro che lui desisterà dal suo progetto produttivo.

E’ per questa ragione che gli imprenditori stanno alla larga dalle aree a forte presenza mafiosa.

Se queste sono le regole, allora possiamo passare ad analizzare la situazione italiana.

La situazione italiana

Come tutti sanno, stiamo attraversando un momentaccio. E non solo in campo economico.

Ma, rimanendo in questo settore, notiamo che è iniziato da tempo un processo di de-industrializzazione.

Nel senso che le aziende, comprese le più note, o chiudono o delocalizzano. Cioè vanno altrove. Le ragioni?

Evidentemente sono venute meno alcune delle condizioni che abbiamo ritenuto essenziali per uno sviluppo positivo dell’economia.

Questo processo di de-industrializzazione ci colpisce particolarmente per il fatto che esso si sta verificando molto rapidamente ed è in contraddizione con il processo inverso che avevamo sperimentato nell’immediato dopoguerra (anni ’40 e ’50).

Allora l’Italia era ridotta ad un cumulo di macerie e tutti avvertirono la necessità di ricostruire il Paese.

Si fecero un sacco di infrastrutture e si crearono un gran numero di aziende.

Si parlò addirittura di miracolo economico, anche se avrei qualche esitazione a definirlo tale, per il fatto che:

            a) A protezione delle aziende italiane, il governo aveva creato una fitta rete di barriere doganali che rendeva economicamente vantaggioso il made in Italy anche se prodotto a costi maggiori. (Non a caso, quando fu tolto lo scudo dei dazi doganali, molte aziende andarono a gambe all’aria);

        b) Non esisteva alcuna sensibilità ambientale, per cui si produceva senza riguardo all’inquinamento che si provocava

        (cementifici, acciaierie, industrie chimiche);

        c) Nel lodevole intento di assicurare un impiego (e quindi un reddito) a tutti, lo Stato non esitò a sconfinare in terreni che non gli

        erano propri (fino a produrre panettoni) e, soprattutto, a gonfiare oltre misura i suoi organici.

Ora, come dicevo prima, è iniziato un periodo di de-industrializzazione.

Alcune aziende chiudono ed altre delocalizzano.

Le ragioni sono sotto gli occhi di tutti: i dazi sono spariti ed è aumentata la sensibilità ecologica.

Cioè sono mutate le condizioni “al contorno” in cui si era sviluppato il cosiddetto miracolo economico.

Tra le aziende che hanno chiuso ci sono aziende, come la Necchi e l’Olivetti, che costituivano il fiore all’occhiello dell’industria italiana.

Tra quelle che hanno delocalizzato c’è addirittura la Fiat che era considerata il simbolo dell’industria meccanica italiana.

Ma l’elenco è lunghissimo e comprende anche il tipo di aziende considerato il più indicativo della creatività italiana, cioè l’alta moda.

Il fenomeno riguarda, a maggior ragione, le imprese tuttora amministrate dallo Stato, o che sono state privatizzate solo de iure,

avendo continuato ad essere gestite con criteri anti-economici.

Perché, in questo caso, oltre alle condizioni “al contorno”, vengono ritenute superate anche quelle relative al tipo di gestione.

In questa categoria ricadono le aziende di cui maggiormente si parla oggi: l’Alitalia e l’ArcelorMittal (ex Ilva).

E’ del tutto evidente che specialmente la prima ha sempre operato con criteri anti-economici e difatti sono anni che lo Stato la tiene in vita artificialmente iniettando ogni anno i fondi necessari ad impedirne il fallimento.

Purtroppo nel caso dell’Alitalia si è particolarmente restii a lasciarla fallire per il fatto che essa è vista più come un vessillo nazionale che un’azienda.

Inoltre, ad aggravare la situazione, ci pensa anche il personale dipendente che, anziché aiutare l’impresa per cui lavora, come avviene in America, contribuisce ad affossarla con continui inutili scioperi.

Cioè con la peggior arma possibile, perché mette in luce, contemporaneamente, l’indifferenza che gli operatori provano sia per i gravi disagi che procurano agli incolpevoli passeggeri che il danno economico che causano alla loro stessa società.

E’ evidente che, così facendo, essi dimostrano di essere ancora succubi degli insegnamenti del vecchio partito comunista, secondo cui il datore di lavoro è il nemico da abbattere, altro che l’amico da aiutare!

La gestione fallimentare dell’Alitalia si manifesta nel fatto che essa è largamente sovradimensionata per numero di dipendenti.

Non è un caso che, ogni volta che si presenta un potenziale compratore, egli imponga come prerequisito una drastica riduzione del personale occupato.

Né serve che l’azienda venga ceduta a quel compratore che, per ingenuità o generosità, prometta il minor numero di licenziamenti, perché prima o poi la cattiva gestione verrà a galla. Quod differtur non aufertur.

Per maggiori informazioni sul caso Alitalia, consiglio la lettura del mio saggio:

https://documentcloud.adobe.com/link/track?uri=urn%3Aaaid%3Ascds%3AUS%3A9d09d1b9-014a-4399-8cf4-8b648b560315

Circa l’ArcelorMittal, la partita è ancora in corso, ma temo che il sig. Mittal, acquistando questo vecchio carrozzone statale, abbia fatto lo stesso errore che già fece il sig. Riva e che ora ne sia amaramente pentito.

Infatti in questo momento egli si trova a combattere contemporaneamente contro i sindacati, il governo e la magistratura.

Che, per giunta, fanno richieste diverse l’una dall’altra.

C’è persino chi gli chiede di spegnere un forno e chi gli suggerisce di guardarsi bene dal farlo!

Alla faccia della libertà d’impresa.

 

 

                                           Commento di Maria Luisa Bressani

                                                 al PDF di Giglio Reduzzi:

                                                  Rudimenti di Economia.

 

Quando scrivo di Giglio Reduzzi rimarco sempre la sua “chiarezza cartesiana” d’esporre che facilita la comprensione del lettore anche per argomenti difficili per i non addetti come l’Economia.

Parto dalla contrapposizione poveri e ricchi che osserva Reduzzi sono sempre esistiti ma per cui i partiti comunisti e socialisti si affannano per ridurne la distanza, mentre i partiti di destra sono più interessati a creare ricchezza.

Vengo subito al concetto di Stato in quanto nel libro precedente di Claudio Papini su Marx, il Professore per l’appunto discute (nell’ottica del tempo di Marx) della sua funzione e secondo Reduzzi la ricchezza può essere creata solo da Aziende (libera iniziativa di cittadini o di gruppi) mentre allo Stato spetta creare condizioni di crescita.

Ma cosa deve fare lo Stato a tal fine? Secondo Reduzzi deve assicurare: libero accesso alle infrastrutture; Libertà d’Impresa; assicurare  “giusto e rapido processo” se l’imprenditore incappa in lite giudiziaria; equa tassazione dei profitti dell’Impresa.

Anzi, se l’Impresa viene obbligata ad assumere una manodopera che non ritiene adatta o  ad assumerne il doppio di quanto le occorre (metti 10 operai al posto dei 5 ritenuti necessari) si annusa “odor di mafia". Ammonisce Reduzzi: “Alla larga da aree a forte pressione mafiosa).

L’Autore si sofferma in particolare su Alitalia e ArcelorMittal (ex Ilva di Taranto): sulla nostra compagnia di bandiera ha scritto un saggio di cui fornisce il link (e l’ho riportato) per poterlo visionare. Sottolinea come da anni lo Stato le inietta fondi necessari ad impedire il fallimento (è quindi una privatizzazione solo “de iure”) ed inoltre il personale  contribuisce ad affossarla con “continui ed inutili scioperi", che fanno venire in mente gli “insegnamenti del vecchio partito comunista per cui il datore di lavoro era il nemico da abbattere”.

Suo lapidario commento in latino: "Quod differtur non aufertur", che spiega perché l'Alitalia -problema differito- non torni a crescere.

Quanto all’ArcelorMittal compatisce il sig. Mittal che, acquistando questo vecchio carrozzone statale, ha fatto l'errore di Riva con Alitalia, e si trova a combattere con la Trimurti: “sindacati, governo, magistratura”!

Siamo così alle comiche finali dato che Reduzzi con i consueto senso of humour chiude il saggio riferendosi così al sig. Mittal: "C'è chi della Trimurti gli chiede di spegnere un forno e chi gli suggerisce di guardarsi bene dal farlo.

Capisco che ho ripetuto frasi e concetti di Reduzzi, condensando stile Bignami, e mi fermo per non superare in lunghezza chi come l’Autore ha scritto nove paginette, chiare ed esaustive.

 

 

 

                                                                  CLAUDIO PAPINI

 

                                                              

 

 

Per commentare questo arduo libro di Claudio Papini, ma che interessa i tanti perché fa riflettere sull’origine della nostra religione e quale è il nostro cammino di uomini, parto dall’Epilogo, cioè dal suo finale e da queste parole del Professore che sono come una meta da raggiungere. (E virgoletto all’inizio le frasi del Professore, quelle che riporto integralmente pur se tolte dal contesto, di qui la necessità di leggere il libro in modo autonomo e riflettendo parola per parola).

“La libertà di pensiero, questa nobiltà infinita dell’uomo è stata decretata come diritto imperscrittibile della persona umana  dall’Ellenismo malgrado il ‘veto’ della Chiesa.

“L’ideale dell’Ellenismo è il Saggio che si eleva alla contemplazione della Verità, aiutandosi con la Scienza e con l’esercizio della ragione e fa beneficiare l’uomo delle sue utili scoperte, mentre l’Ebreo non ha inventato nulla di utile alla vita e il Cristianesimo nemmeno, [lo si legge ancora nella risposta ad Apione – grammatico e sofista commentatore di Omero-, egiziano di età ellenistica noto per la sua avversione agli Ebrei e al giudaismo, vissuto nella  metà del I secolo]. 

“Il Cristianesimo è e resta, molto ‘umanamente’, per la scienza e la ragione, che non saprebbero inchinarsi dinnanzi all’articolo di fede, né di compromettersi con le esigenze delle debolezze  e delle superstizioni secolari, un prodotto storico che mi piace studiare, in quanto tale, senza favore, come senza collera, per il solo amore della verità, - e per qualche fine più nobile che  dirò come giustificazione della mia opera”.

Anche questa chiusa, “il fine più nobile” , che l’autore non ci rivela subito pur se siamo alla fine della sua opera, c’incuriosisce come ci trovassimo nella lettura di un giallo in cui scoprire il meccanismo, cioè cosa ha motivato la narrazione dell’autore (e sappiamo che la giallistica ha predominato nei gusti dei lettori di fine Ottocento, nel Novecento e fino ad ora,  anno 2020).

Nell’Epilogo Papini cita Camille Jullian, l’accademico che scrisse: “Se noi siamo cristiani, se occorre a tenere a questo nome come ad una formula di salvezza, è perché esso rappresenta tutto ciò che i sogni galilei hanno messo nella coscienza umana, tutte le lezioni che le filosofie antiche ci hanno lasciato”.

Ma a proposito dei sogni galilei Papini ci ricorda che la Giudea fu a fuoco e sangue per 150 anni sotto Augusto, Tiberio, Nerone, Vespasiano, Domiziano, Adriano.

“Sogni galilei? Niente di più falso - dice il Professore -  vedete la Storia”. Anzi individua due insiemi critico-storici:

1)     “il corpo delle nozioni ebraiche del Messia, le nozioni agnostiche dell’Eone Gesù (gli Eoni in molti sistemi gnostici rappresentano le varie emanazioni del Dio e Cristo prese  la forma della creatura umana Gesù per insegnare all’umanità), la nozione che s’incorpora -da un tempo ad un altro- nel Cristo, le nozioni dell’incarnazione,  la teoria del Cristo Redentore di San Paolo, la catechesi apostolica passata nei riti sacramentali dai misteri pagani;

2)     “il corpo delle grandi scuole filosofiche della Grecia, di Roma, con i nomi di Pitagora, Palatone, gli Stoici, Aristotele,Epicuro, Lucrezio, Cicerone, Seneca.

“Il cristianesimo non è che una giustapposizione di questi due elementi: l’uno venuto dal giudaismo e facile da identificare, l’altro greco-latino che si può designare con il nome di Ellenismo.

“E’ l’Apocalisse che porta a compimento la Thora, che realizza il dominio di Israele sul mondo con la distruzione delle nazioni, l’Ellenismo invece non è che un rivestimento superficiale, come un intonaco di malta sulle mura, come una carta da parati sulle pareti dei vani. E malgrado l’appoggio dei Barbari, dopo la caduta dell’Impero romano, mai la Chiesa nell’universale smarrimento e nell’anarchia dei tempi, avrebbe potuto fare una propaganda religiosa se non avesse impugnato, con le mani del suo dio Gesù inventato, avendo già rinnegato il suo Cristo ebraico, il lucignolo acceso alla fiamma dell’Ellenismo".

Questo testo di Claudio Papini sull'Apocalisse è del 2017, cioè arriva cinque anni dopo l'inizio della Collana "Amici del libero pensiero" da lui diretta per De Ferrari Editore e che inizia con un suo libro su Daniel Massé e gli enigmi del Cristianesimo. Nella collana ne seguono altri cinque sempre dedicati a Massé. Le mie sono piccole notizie ma per far capire come negli anni l’interesse del Professore per il Cristianesimo e i suoi rapporti con l’antica Roma si sia sempre più approfondito.

Questo testo riporta nell’introduzione parole di Luois Rougier da Celse Contre les Chrétiens  - reaction païenne sous l’empire romain (1926). Per  Rougier “tra le malattie interne dell’impero romano  al primo posto è la nuova fede, il Cristianesimo”, perché entrò in conflitto con una civiltà politeista che conciliava diversi culti. Nell’Impero erano tutti considerati dal popolo come ugualmente veri, dal filosofo come ugualmente falsi e dal magistrato come ugualmente utili. La tolleranza romana manteneva la concordia.

Per la cronaca Rougier, nato a Lione, dopo aver conseguito la laurea in filosofia insegnò anche a Roma tre  il 1920 e il ’24, e sono quasi commoventi queste sue parole citate da Papini: “Dividevo il mio tempo tra l’insegnamento, la visita di Roma e la biblioteca della École de Rome a Palazzo Farnese. Andare alla scoperta in una nuova biblioteca è uno dei regali dell’esistenza”. All’École Rougier scoprì un testo di Aubè, La Storia delle persecuzioni della Chiesa, la polemica alla fine del II secolo, che includeva un saggio di ricostruzione e traduzione del Discorso di Celso.

Continua Rougier: “I cristiani con il rifiuto delle magistrature politiche e del servizio militare, dovuto al timore dell’idolatria, facendo secessione, fomentavano un immenso sciopero in tutto l’Impero nel momento in cui i Parti e i Barbari premevano alle frontiere”.

Claudio Papini si pone la domanda se ciò sia sufficiente a spiegare lo scontro Cristianesimo/Impero romano e risponde che “no!”, considerando che gli Ebrei sono andati avanti a combattere con i romani per 130 anni, a partire dalla legge del Censimento, sotto Augusto imperatore fino all’ultima rivolta di Bar-Kocheba quando l’imperatore Adriano “cancellò la loro terra dalle carte geografiche, facendo passare l’aratro sopra le rovine di Gerusalemme, la loro città santa, disperdendone ulteriormente la popolazione (commenta infatti il professore che il fenomeno della diaspora è ben più antico) e vietando agli Ebrei di risiedervi”.

E ancora mettete a mente questa considerazione riferita a quei tempi lontani: “Il paganesimo non era mai ufficialmente morto, ma è evidente il sopravvenire progressivamente preponderante del Cristianesimo al punto che nel 380 l’imperatore Teodosio con l’editto di Tessalonica imponeva a tutti di seguire la religione data ai Romani dal divino apostolo Pietro”. Però Celso nel suo Discorso di Verità aveva messo in rilievo come la radice delle due dottrine, la cristiana figlia dell’altra, l’ebraica fosse la Ribellione.

Prima di tornare attraverso Papini al suo discorso iniziale che comprende Mosè, Giuda di Gamala che guidò la rivolta contro la legge che istituiva il censimento e che fu detta cristiana (v. p.12),e  il Cristo, inserisco ora una mia umile critica.

E’ logico -secondo me- non poter trasporre fatti antichi nell’attualità moderna e quindi trasportare dall'antico all’oggi una critica ad Israele come volesse dominare tuttora il mondo e soggiogare le nazioni. Avanzo questa mia considerazione sue due basi:

1)      l’aver frequentato attentamente da giornalista l’Apai, Associazione per l'amicizia italo-israeliana fondata da Franco Bovio (vice-presidente Carige e uomo di nobile sentire che molto fece culturalmente per Genova) ed aver toccato con mano attraverso conferenze quante fake news dilagassero -una ventina di anni or sono- da parte palestinese contro Israele pur facendo allora tanti, tanti proseliti italiani;

2)      e – fatto principale per me – l’aver avuto al ginnasio del D’Oria di Genova un’insegnante ebrea Gina De Benedetti (il cui nome Regina - Gina ne era solo il diminutivo – mi è sempre sembrato rivelatore della sua grandezza d’animo).

Scrive infatti Papini (sempre nell’Epilogo): “Il Giudaismo, scontento del Cosmo e del mondo che pure il suo dio Iahweh avrebbe creato per lui, non ha sognato che distruggerlo  il mondo perché non ha tenuto in nessun conto la vita umana, facendo appello senza gloria “al gran giorno della collera di Iahweh: perisca il mondo affinché Israele regni su tutta la terra giudaizzata!”, questo augurio giudaico-cristiano non è che lo scenario drammatico dell’Apocalisse cristiana del Giovanni-Cristo (anche per capire questo accostamento bisogna rifarsi alla parte iniziale del libro di Papini e mi scuso  se ho preferito correre alle conclusioni).

“Le logomachie ideologiche dell’anarchia rivoluzionaria non hanno fatto che trasporre sul piano internazionale universale e politico dal punto di vista ebraico al piano sociale moderno la rivendicazione di Israele. E verrà – secondo loro – un’era nuova in cui, con un’esatta ed uguale ripartizione di beni – non diciamo nulla dell’ineguaglianza della passione al lavoro e della valentia nel produrre (notate, per favore!, come Papini con queste parole non si astenga dalla sua critica puntuale e tagliente)– le iniquità spariranno e la giustizia con una G maiuscola regnerà. Perisca il mondo piuttosto che l’ingiustizia sia! (Non vi sembra di sentire qualcosa a questo riguardo del nostro reddito di cittadinanza?, pur inventato per soccorrere tanti casi di vera povertà?)

Storicamente è a Roma che si deve l’organizzazione amministrativa e giuridica dell’umanità civilizzata, la pratica della tolleranza e la dedizione attiva di tutti i cittadini alla cosa pubblica, ma l’Ellenismo è ciò che è umano e nulla di umano gli è estraneo.

L’Ellenismo ha proclamato l’armonia del Cosmo e l’eccellenza della vita umana glorificata dalla Saggezza e dall’eroismo. Ha fondato la civiltà razionale, basta sulla scienza e sulla preminenza delle élites.

Ed ora, io, Maria Luisa Bressani, ricordo parole della mia antica insegnante.

“Ho avuto al ginnasio del D’Oria di Genova una professoressa ebrea Gina De Benedetti, direttrice della scuola ebraica prima della guerra e che in tempo di guerra, pur giovane, si ritrovò da sera a mattina i capelli tutti bianchi. Le volli tanto bene da chiamarla perfino ‘mamma' nel senso ariostesco del termine quando disse di Gregorio da Spoleto “mi fu più che padre… perché lo aveva aperto alla vita dello spirito”.

A una mia domanda a Gina sul perché gli Ebrei nel mondo fossero in ruoli dominanti per cultura e se esistesse una sorta di supremazia intellettuale degli Ebrei, mi rispose che ciò era dovuto al loro metodo d’insegnamento.

Ai loro bimbi a tre  anni s’insegnava a leggere e questo apprendimento avveniva sui testi sacri, libri utili alla vita e alla comprensione di questa e del nostro compito in essa.

Ho poi ritrovato lo stesso metodo ad opera di un americano Glenn Doman:  Insegnare a leggere a tre anni (metodo che in realtà egli sviluppò per curare i bambini cerebrolesi). Ritengo che l’apprendimento quanto più precoce è, tanto più utile sia, però bisogna anche saperlo fare. Per insegnare non basta voler applicare un metodo, bisogna capire come rapportarlo alla mentalità di chi dovrebbe imparare. Lo splendido motto di Glenn Doman era: “I bambini possono vogliono e devono imparare a leggere”.

Torno al libro di Papini e per chiarire meglio di cosa si tratta ne elenco i titoli dei capitoli. Cap. I- Il regno di Mille anni e l'avvento del Cristo; Cap. II - L'Asino d'oro di Apuleio; Cap. III - Luciano di Samosata e il Cristianesimo, Cap. IV - Filopatride o l'uomo che s'istruisce. Infine l'Epilogo: Ellenismo, Giudaismo, Cristianesimo.

Sono partita dall’Epilogo, le conclusioni nel campo delle idee, ma poiché queste da sempre camminano sulle gambe degli uomini, il discorso di Papini si fa più che mai interessante con l’incarnazione delle idee stesse in persone note al nostro immaginario ma che forse non abbiamo capito appieno.

Ecco dunque Mosè ma prima bisogna annotare una frase di Freud sul popolo d’Israele da L’uomo Mosè e la religione monotesistica (1934/38): “…di tutti i popoli che nell’antichità hanno abitato intorno al bacino mediterraneo, il popolo ebraico è all’incirca l’unico che esiste ancor oggi  di nome e anche in sostanza”. E l’uomo Mosè, non di origine ebraica bensì egizia, anzi un seguace della svolta religiosa imposta all’Egitto da Amenofi IV (=Ekhanatòn) che lottò contro il politeismo del suo popolo facendo coincidere il culto di Atòn con quello del Sole, Mosè appunto (secondo lo storico Papini) accrebbe la presunzione degli Ebrei, assicurandoli che erano il popolo eletto da Dio. Mosè, l’egiziano, è anche “padre” come il dio che predica, un dio unico di cui non fare immagini.

A questo punto s’innesta il discorso sull’indole dei popoli.

“I Greci ricercarono l’armonia tra spirito e corpo, mentre gli Ebrei scelsero decisamente lo spirito.

Ma secondo una parte marginale della tradizione ebraica Mosè finì ucciso; concezione che per altro si ritrova in Freud in  Totem e tabù: l’uccisione del padre, signore assoluto di uno dei gruppi umani in cui s’articolò l’orda originaria; la sua uccisione da parte dei figli coalizzati e il divoramento del suo corpo da parte di tutti i membri della tribù.

“Un evento così traumatico che portò al concetto di “peccato originale”.

“Non a caso,  Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa, lo ricondusse alle prime fonti storiche, coniando la definizione “peccato originale” perché questo delitto meritevole di morte (s’introduce legato al peccato anche il concetto di morte) era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato.

“Non solo che il redentore, Cristo, si fosse sacrificato senza colpa, era una deformazione tendenziosa: “Come può, chi è innocente dell’assassinio, prendere su di sé la colpa degli assassini, consentendo di essere ucciso?”

Ma questa è proprio l’origine dell’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide, il vero fondamento della “colpa tragica” (del dramma s’intende): l’eroe e il coro della tragedia greca raffigurano questo stesso "eroe ribelle e la banda dei fratelli" e non è senza significato che nel Medioevo il teatro torni a rivivere con la rappresentazione della Passione del Cristo.

“Ne consegue pure che il Giudaismo era stata una religione del Padre, il Cristianesimo diventò una religione del Figlio; non solo per alcuni aspetti la nuova religione significò un regresso di civiltà rispetto alla più antica, l’ebraica, e la religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo, e ripristinò perfino la grande divinità materna (Maria), trovando spazio per collocare molte figure divine del politeismo. Anzi, il trionfo del Cristianesimo  fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul sul dio di Ekhanatòn dopo 1500 anni. “Eppure -e qui arriva il commento di Papini-il cristianesimo fu un progresso e da allora in poi la religione ebraica fu in certo modo un fossile”.

Concludo con le parole di Papini sul perché di questo suo libro:

“Per farsi accettare e sostenere la Chiesa si dà oggi arie da grande potenza, non avendo potuto realizzare il suo sogno ‘escatologico’, quello del Cristo dell’Apocalisse, prendendo a prestito dalla morale delle belle civiltà antiche le sue migliori nozioni, le sue dottrine più spiritualistiche e vuole anche apparire come grande consolatrice. Rischia il tutto per tutto con la complicità dei  Governi e delle classi dirigenti che fanno della religione uno strumento di dominio.

“Ma è dal basso, dal popolo che avanza e progredisce la liberazione, l’affrancamento da questa vecchia e fanatica eredità semitica.

“Possa questa liberazione effettuarsi senza una rivoluzione, per mezzo della sola forza della ragione… mettendoci il tempo che occorre”.(Anche questo un ideale -o un'utopia- però tanto, tanto suggestivo …e se mai diventasse realtà!).                                                     

 

                                               Paolo Rumiz

                                  Il FILO INFINITO

         Viaggio tra i Monasteri alle Radici d'Europa

 

Questo di Paolo Rumiz, scrittore e giornalista triestino, è senz’altro uno dei più bei libri da me letti e recensiti.

L’autore è inviato speciale del quotidiano «Il Piccolo», editorialista de «La Repubblica» e dall’87 scrive sulle rivoluzioni in Europa orientale, sulle guerre nei Balcani con servizi da Sarajevo, Mostar, Knin, Vukovar.

Avevo già letto altri libri di Rumiz  (anche il suo libro Gerusalemme perduta scritto con la fotografa polacca Monika Boulaj, autrice di Gente di Dio – alla ricerca dell’altra Europa che conservo con amore e per cui metterò dopo questa recensione una mia antica intervista).

Ebbi modo di vedere al Ducale di Genova un’affollatissima mostra di Monika. Ricordo che era sempre presente alle riunioni del Consiglio di Circoscrizione di Nervi-Quinto-Sant’Ilario l’avvocato Lanzillo che aveva sposato una polacca e si deve a lui il suggerimento di popolare il torrente Nervi con anatre e oche come aveva visto nel Paese di sua moglie. Ora infatti il “nostro” torrente (io vivo a Nervi e allora seguivo come cronista le riunioni del Consiglio) è più che mai vivo ed animato.

Di Rumiz in passato ho letto altri libri e recensito Vento di Terra – Istria e Fiume - appunti di viaggio tra i Balcani e il Mediterraneo.

Ma l’emozione che ho provato leggendo questo suo, che si apre con la statua di San Benedetto, rimasta ritta ed intatta, nonostante la devastazione della Chiesa, nel terremoto di Norcia, è stata unica. Da quell’immagine l'idea per Rumiz di scrivere un libro che fosse un viaggio tra i monasteri benedettini d’Europa, partendo da questa considerazione: “I monaci di Benedetto piantarono presidi di preghiera e di lavoro negli spazi più incolti d’Europa per poi tessere tra loro una salda rete di fili".

“L’Europa è bella - afferma - specie se la si guarda dall'alto, da un aereo” ed osserva che è l’Europa dove finisce il giallo dei deserti ed inizia il verde dei coltivi.  Però ne  ha anche un pensiero tormentoso, di una sua crisi attuale che passa attraverso la caduta del Muro, le bombe sull’Iraq, le Torri Gemelle, l’incendio balcanico, la Siria in fiamme, la grande fuga degli esiliati. Conclude nell’ultima pagina del libro con l’esortazione ad avere “coraggio e cuore" come i monaci che la rifondarono sotto l’urto delle invasioni barbariche, come i padri fondatori dell’Unione che dopo due guerre mondiali ridiedero dignità e ricchezza a un continente in ginocchio. Essi sapevano che "l’Europa non è un dono gratuito, ma una conquista e spesso un sogno che nasce dalla disperazione per la sua mancanza. Europa la figlia di un re fenicio che per prima passò il Mediterraneo con paura e diede il suo nome al nostro pezzo di mondo”. Amo la mitologia e questa racconta che Europa, fanciulla di Tiro, fece innamorare di sé Zeus. Il padre degli dei per conquistarla si trasformò in un toro bianco sulla cui groppa lei salì, ma è  stata anche fiera opponendosi a lui e poi da lui costretta a cedergli, fu ricompensata: in terra diventando con il matrimonio regina di Creta, in cielo con la costellazione del toro che ricorda il suo rapimento. Anche la sua  fierezza da non dimenticare è all'origine mitica della nostra terra.

E perché amo tanto questo libro? Luce, vento, voli di rondine e Storia, la mia prima impressione nel leggerlo.

Storia gettata a piccoli semi dalla mano di chi sa far nascere germogli e che mi riporta alla mente  quest’immagine di Van Gogh del seminatore.

 

                                                  

                           (Vedete come è sicuro il seminatore? E poi cosa sarebbe Van Gogh senza i suoi colori?

                              Per questo l’ho preferito ad un altro quadro dell’artista ma in bianco e nero)

 

Rumiz fa crescere i suoi semi-piante nel “dialogo” e la “rotta”, per chi vuol capire, si configura fin dalle prime pagine.

Per arrivare a Norcia, nell’aprile del 2017, Rumiz scende da una distesa incantata, invisibile dal basso, chiamata Pian Grande. “Il paesaggio intorno è già percorso di vita, a maggio conoscerà la più celebrata fioritura d’Europa: il giallo, il viola, il rosso e l’azzurro delle lenticchie, dei papaveri e degli iris” . Commenta: “era il centro della linea di faglia che aveva scosso l’Appennino e al tempo stesso il  centro perfetto della Penisola che stava in mezzo al Mediterraneo”.

Al centro della piana la statua di San Benedetto, Patrono d’Europa. Rumiz ne ricava un messaggio: l’Europa è ripiombata nel Medioevo e, per ritrovare le radici spirituali, deve passare di nuovo tra le macerie come nelle due guerre in cent’anni ed ora in quelle del terremoto, questa terza catastrofe. “Ora et labora”, è la Regola del Santo e la riforma cistercense era stata il primo parlamento del Continente, insegnando: “disciplina ma anche dolcezza nei rapporti umani”. Benedetto aveva salvato l’Europa quando Unni, Vandali, Visigoti, Longobardi, Slavi e i ferocissimi Ungari avevano costituito migrazioni – una cosa seria e non solo un arrivo tra noi di diseredati. “Per tre volte – puntualizza Rumiz - l’Europa era rinata da quella montagne d’Appennino: con Roma, con il monachesimo e con il Rinascimento…Non a caso Ratzinger, dopo la morte di Wojtyla corse alla grotta del Santo a Subiaco e scelse come Papa il nome di Benedetto e, infine, rinunciando al pontificato, si ritirò in un monastero. Non a caso Carlo Magno affidò l’Impero ai monaci benedettini, non solo per la loro fitta rete di monasteri, ma anche per l’efficacia della Regola. Questi “atleti della fede”, i benedettini,  avevano vinto e convinto i barbari, non con le armi, solo con la forza della Fede e con l’Esempio del loro tenace lavoro. La loro storia  inizia dalla lotta contro la selva, che dopo il crollo dell’Impero, invade l’Europa ed il monastero irrompe nel paesaggio “come un’astronave che ha preso terra negli spazi al limite del mondo”.

Un’immagine che non può non affascinarci, come tante altre disseminate nel libro, o come questo giudizio folgorante sui nostri Papi, (Rumiz lo mette in bocca a padre Guillaume del monastero della Pierre-qui Vire):  “Giovanni Paolo II, un Papa che si guarda (indimenticabile il suo volto appoggiato al pastorale), Bendetto XVI, un Papa che si ascolta; Francesco I, un Papa che si tocca”. Dopo l’episodio della cinese che lo strattonava un po’ chiedendogli comprensione ad un suo problema, vien da dire: “e che picchia chi lo vuol toccare!”

 

                                                       

                    (il “mio” indimenticabile Papa quando si è affacciò e disse: “non abbiate paura!”)

Dalla selva - posto dove il diavolo è più visibile (forse perché la selva fa paura)- emerse il Santo barbuto per fondare Montecassino. Ma tutto – è sempre il filo del discorso dell’Autore – iniziò due secoli prima, nel deserto. “La vita monastica nasce dal principio del deserto, dalla ricerca del vuoto, dalle tentazioni di Sant’Antonio Abate".Non solo, le macerie del terremoto si saldano nella memoria a quelle della guerra. A Norcia l’Autore è colpito dal Monumento ai caduti della II Guerra con inciso anche il nome di Sergio Forti, un triestino, ucciso in questi luoghi dopo indicibili tortureNon solo, il bisogno di Fede e di Cultura nasce dalla cultura del libro e quindi dell’apprendimento che si realizza attraverso di esso, anzi nei secoli passati si è sempre realizzato attraverso esso. (Oggi esistono  altri mezzi ma meno idonei alla riflessione e bisognerebbe ricordare che per fare un libro, un tempo occorreva la pelle di cento pecore).

Non solo, nel riportarci alla memoria la guerra, le tante morti, le tante distruzioni, l’Autore ci rammenta: “Come tanti ebrei all’inizio del nazismo, ci illudevamo di essere immuni dalla resa dei conti. Ci rassicurava vedere altri dibattersi nel naufragio. In breve si pensava ‘a noi non tocca’, perché noi siamo diversi. E invece…”

Seguono altre riflessioni come sulla centralità dell’Italia nel destino del continente e  di quanto ne sia stata consapevole o no, per saltare all’oggi, ad un’Italia taglieggiata dalle camorre. Valeva la pena di fare la guerra per arrivare a questo stato di decadenza attuale? 

Lo scrittore si risolleva dal buio di questi pensieri riconsiderando ciò che fece Benedetto nei secoli cosiddetti “bui”. Mise al centro "l’uomo in comunità". L’Europa Unita divenne la più alta espressione sinfonica di una comunità di nazioni che il secondo millennio ha saputo produrre. La musica è più che mai presente nel racconto di Rumiz e sembra di sentirla attraverso le sue parole: “I luoghi si capiscono di giorno, ma si sentono di notte. E’ l’acustica a svelarli. Che sia tuono o sussurro è acustico l'atto della creazione: Spirito è soffio, voce, verbo".

Vorrei soffermarmi un attimo a considerare le pochissime note autobiografiche che l’autore ci dà. Suo nonno emigrò e ci ricorda che tra Otto e Novecento siamo  partiti in ventiduemilioni per cercar fortuna all'estero. Ventidue milioni di italiani in mezzo secolo significa una nave con mille persone al giorno per cinquant’anni di fila. Ora egli si sente uomo di frontiera, orgogliosamente senza radici. Le notizie del sé: “Ho figli europei che vivono lontano da me. Cittadini del mondo, ma con radici forti, di frontiera. Fanno mestieri utili al Pianeta: uno cerca di salvare il clima, l’altro i cibi autentici minacciati dal Globale. Mi hanno dato dei nipotini. Uno, dolce birbone altruista, legge gli atlanti e l’ho beccato a studiare il sistema solare.

(NB – nota bene-: in questo nipote l’Autore ha travasato un po’ del suo Dna, di quando nel libro ha scritto di aver sempre avuto la passione di leggere le carte geografiche. E scusate il ricordo mio, di una nonna campagnola, che da anziana continuava a consultare l’atlante sognando viaggi che non avrebbe mai fatto)

“L’altro nipote, più piccolo, ha gli occhi sempre stupiti e la musica dentro”. …E ancora: “Non vivono incollati a uno schermo (o ad un cellulare). Hanno familiarità con mucche e cavalli e non hanno paura di rotolarsi per terra. Ecco è tutto. Ed è già tanto di cui ringraziare il buon  Dio”. Le parole con cui Rumiz ci ha parlato di sé, raggiungono lo scopo di ogni scrittore: “capire, far capire e anche farsi capire”. 

Da un libro si desidera sempre imparare e Rumiz semina a piene mani.

Ci ricorda che Dom Pérignon prima di essere uno champagne era un vignaiolo benedettino. Ci racconta che “il cristianesimo conquistò il mondo con il vino e naturalmente anche con la birra. La quale non è cosa del Nord. La ricetta sbarca in Europa attraverso la Calabria grazie ai monaci copti d’Egitto, risale la Penisola dall’Abbazia di San Francesco da Paola che ne aveva codificato la ricetta, segue la dorsale appenninica, inonda la Padania lasciando tracce di schiuma sui baffoni dei Longobardi per  valicare le Alpi e dissetare le masse carolingie a est e ad ovest del Reno, diventando Oktoberfest tra i tedeschi, dando vita in Germania al marchio Franziskaner e Paulaner, per dilagare verso il Belgio, dove raggiungerà il top nel mondo cistercense e in quello trappista, nati per gemmazione dalla pianta benedettina. Cammino leggendario di enzimi e di fede, dal Nilo ai mari del Nord".

La storia del vino mi riporta a queste parole di Mordechai che Rumiz definisce "il mio rabbino dell'anima": "La letizia è un dovere, prima che un diritto. L'uomo ha l'obbligo di essere felice, perché solo così fa felici gli altri. E' uno dei massimi insegnamenti dell'ebraismo. Nei campi di sterminio i  Chassidim entravano cantando con i loro rebbe (=maestri) nelle camere a gas. Se gli antisemiti lo sapessero, si guarderebbero dal perseguitare gli ebrei, perché la persecuzione li rafforza all'infinito, facendo valere infinitamente questo culto della gioia”.

Per tornare al vino  Mordechai diceva  che guardare un tramonto sul mare bevendo un bicchiere di  buon vino, è santissima preghiera, così santa che Dio stesso t’invidia.

Il libro è di alta spiritualità ma senza peso come si vede da quanto prima accennato ed ha il pregio di portarci in un viaggio attraverso i monasteri benedettini d'Europa. Uno, tutto femminile, si trova proprio da noi a Viboldone.  E arriva anche una fulminea e correlata riflessione dello scrittore:"La veste dei preti altro non è che un trucco per usurpare il ruolo del femminile nella comunità della fede".

Tra le benedettine di Viboldone scopre  la pazienza del gomitolo : “Che cos'è la vita se non un lungo filo di lana che scavalca muri, fiumi, montagne e frontiere?" Fili che hanno dato origine alla rete di Abbazie.

Tra i tanti Abati che incontra alcuni sono sorprendenti come Notker che suona con i Deep Purple o Stefano di Harding, uno dei tre fondatori di Citeaux, inglese coltissimo. Grazie al suo studio dei classici e ai 25 anni che impiegò nella conoscenza del mondo del suo tempo dopo Citeaux nacquero Pontigny, La Ferté, Morimond e Chiaravalle.

Dei monaci incontrati a me è rimasto impresso soprattutto Frédéric, classe 1933, una laurea in ingegneria geofisica, la guerra in Algeria alle spalle e un formidabile  istinto per la musica e la battuta di spirito. Dopo l'Algeria - ventisette mesi e ventisette giorni- decise di diventare prigioniero di Cristo. "Non c'era poi grande differenza tra caserma e monastero. Discipline simili", dice e quando Rumiz gli chiede del suo rapporto con Dio, la risposta è: “Se Cristo non è resuscitato sul serio, vuol dire che faccio il pagliaccio da cinquant’anni”.

Nel capitolo dove Frédéric suona (e “quando improvvisa all'organo è il cielo che scende sulla Terra”), l'Autore ci ricorda che la democrazia

è nata in Europa ma tanti l'hanno dimenticato. Democrazia vuol dire che non puoi fare quello che vuoi solo perché sei più grosso o più ricco e che la polizia non può picchiarti. E tutti possono studiare ed essere curati".

Utopia? o già fine della democrazia per come siamo oggi?

Però nel libro non ci sono solo gli abati, i benedettini-personaggi e quando Rumiz accenna al suo amato Osip Mandel'stam, ecco la mia corsa a documentarmi e ad imparare. Ve ne do un assaggio: è stato un poeta e saggista russo nato a Varsavia (all'epoca in cui era parte dell'Impero russo), da famiglia ebraica protestante e morì in gulag a Vladivostok.

La moglie Nadezda, colta pittrice, fu come lui vittima delle grandi purghe staliniane e dieci anni dopo la morte del marito riuscì a far pubblicare i versi di lui, imparati a memoria per poterli tramandare. Concludo con due foto di questa mia frettolosa ricerca: Osip giovane e Osip nel gulag e con la sua poesia a Stalin.

 

                                        

 

         

 

                                       A Stalin:

                     “Viviamo senza fiutare il paese sotto di noi

                      i nostri discorsi non si sentono a dieci passi

                        e dove c’è spazio per un mezzo discorso

                          là ricordano il montanaro caucasico.

                        Le sue dita tozze sono grasse come vermi

                        E le parole, del peso di un pud (=pisello),

                                        sono veritiere,

                              ridono i baffetti da scarafaggio

                                  e brillano i suoi gambali”.

 

                                                    Monika Bulay

                                                Mostra al Ducale di Genova

                                                 (Intervista di M.L.Bressani)

                       

Le affascinanti 130 foto a colori di Monika Bulaj, un viaggio per immagini nell’altra Europa, nei microcosmi dimenticati tra Mar Baltico, Mar Caspio, Mar Nero resteranno alla Loggia degli Abati di Palazzo Ducale fino al primo aprile. Un’occasione per conoscere periferie incantate segnate dalla Storia. Non solo periferie d’Europa, anche periferie delle fedi, periferie speciali dove i monoteismi, oggi in conflitto, generano – a sorpresa – terreni di coabitazione.

Com’è nata l’idea di questo straordinario reportage/ricerca sulle religioni monoteiste? 

"E’ stato un work in progress lungo dieci anni", spiega Monika.

"Il progetto è nato per riempire il vuoto che mi ispirava la religione mentre crescevo in Polonia, per riempire il silenzio". Il Dio del silenzio è quello del dopo Auschwitz, ma lei ha rifiutato quel silenzio per riempirlo di voci, volti, storie: “Tutti possono raccontare cose interessanti, bisogna ascoltare cogliendo il meglio di ciascuno. E come la Comunità Ebraica ha collegato i luoghi immaginari dei sopravvissuti della Shoà, così ho fatto io in Ucraina, Azerbaigian o altrove anche ripercorrendo luoghi con nomi legati ai Santi”.

Monika si è laureata in antropologia all’Università di Varsavia, vive a Bergamo con la famiglia e con i tre figli, cittadini italiani come ama precisare. Collabora a diversi giornali italiani, al National Geographic, in Polonia alla Gazeta Wyborcza e nel 2005 ha ricevuto il Grant in Visual Arts da parte dell’European Association for Jewish Culture”.

Tappe sempre diverse e arricchite del suo progetto sono state una prima Mostra al Teatro Sociale di Bergamo, un’altra nel novembre scorso  nell’ambito di Religioni per la Pace, incontro tra fedi diverse organizzato a Trento. La Mostra genovese, voluta dal Centro Culturale Europeo promosso dalla Fondazione Carige nel 2004, sta per diventare un libro con l’editore Frassinelli, con cui ha già pubblicato Gerusalemme perduta (in collaborazione con il triestino Paolo Rumiz) e Figli di Noè, poi prodotto come documentario da Lab80 Film.

Monika rievoca alcuni eventi storici che hanno segnato la Polonia. “Il 1569 quando Sigismondo Augusto riunì in un unico grande stato Polonia e Lituania. (Per inciso, nonostante l’elettività della corona, era riuscita a farlo salire al trono polacco l’energica madre italiana Bona Sforza).

“Il 1918, Trattato di Brest Litovsk con cui la Russia riconobbe i diritti della Polonia e dovette cedere, oltre alla Polonia orientale, le province baltiche, l’Ucraina, la Finlandia, la Transcaucasica.

“La Polonia era uno stato immenso, plurietnico – sottolinea - e fino al ’39 vi ha vissuto strettamente con i polacchi la più grande comunità ebraica”.

All’occupazione della Polonia da parte di tedeschi e russi nel settembre 1939 Pio XII, profetico, disse: “Ma le Nazioni non muoiono”.

Monika ricorda le sofferenze della guerra, i pogrom e gli straordinari atti di coraggio. Non scende nei particolari, ma a me piace ricordare la storia dello Schindler polacco dei bambini,  Janus Korczack che aveva aperto la “casa degli orfani”  di Varsavia, fiore all’occhiello in Europa fino al ’42. Quando quei bimbi del ghetto furono inviati al campo di concentramento di Treblinka, i nazisti per la sua fama gli offrirono la salvezza, però Korczack preferì morire con i suoi orfani nel lager.(v. L’impossibilità della storia. Tributo a Janus Korczack di Dario Arkel e Anna Rella).

Ricorda ancora l’occasione perduta del dialogo tra le Chiese, il gravitare di parte dei credenti verso la Chiesa ortodossa poiché dal punto di vista sociale la Russia era identificata con l’ortodossia, quindi la rinascita delle cupidigie russe sulla Polonia che a fine guerra si trovò con confini mutati, con spostamenti giganteschi di etnie e con un governo unitario che operava sotto la guida dei comunisti. Così Monika si è mossa, proprio in senso materiale, percorrendo chilometri a piedi alla ricerca di testimonianze delle piccole comunità aggrappate alla loro antica tradizione religiosa.

Ha scritto degli Udi della terra di Nic, in Azerbaigian,  cristiani dell’antichissima lingua degli Albani che sarebbero i capostipiti dei Vichinghi e che furono convertiti da Eliseo: “Sempre perseguitati per la loro fede dai persiani, dai bizantini, dagli armeni, infine dai sovietici che tolsero loro le croci dai muri, gli Udi finirono per adorare la Luna e gli alberi. Finito l’ateismo di Stato, con la riscoperta della fede mandano delegazioni in Polonia per imparare a costruire le chiese e hanno regalato una croce a Giovanni Paolo II, ma sono indecisi dove spedire i giovani per farli diventare preti: nella chiesa georgiana, ortodossa, cattolica o luterana?” Le Religioni monoteiste, pur stravolte dal sincretismo o da coabitazioni che le portano a sfiorare la superstizione, sono più forti delle ideologie e  sono anticorpi allo scontro fra i fondamentalismi.

Dice ancora: “Mi piace fotografare all’alba o al tramonto”.

I suoi colori sono caldi, sembrano impastati di terra, fin gli spazi aperti hanno il calore di interni di una casa misteriosa perché come animati da presenze vive. La pastosità delle sue luci sospese nel tempo e la sua fotografia visionaria fanno venire in mente la Mostra che abbiamo visto al Ducale nel 2000 Il silenzio dei Maya di Luis Gonzalez Palma, guatemalteco che lavorava ritratti allegorici con cera e bitume liquido. Giovani artisti che con sensibilità diverse sanno guardare così lontano da restituirci le culle perdute dell’uomo.

 

                                                        Guido Barbazza

                                       Il Genovese Volante

 

                                        

 

   

PREMESSA

 

Un libro deve parlare da sé prima di cercare – forse, e per chi voglia – le vicende del suo autore. Ragion per cui inizio da questo sorprendente libro «Il Genovese Volante» di Guido Barbazza. Nasce da una rubrica, richiestagli da Alessandro Cassinis che firma la bella prefazione, per  «il Secolo xix»  a testimoniare “tracce" di Genova nel mondo. Nessuno meglio di Barbazza avrebbe potuto ritrovarle dato che ha avuto il Guinness World Records per il maggior numero di viaggi aerei e i suoi  2200 viaggi sono certificati dalle carte d’imbarco, un tempo  - colorate ed originali - ora   "ingrigite" nell'uniformità.

Bisogna  ricordare una peculiarità di Genova, detta «La Superba»,  che conquistò il suo appellativo perché fu una Repubblica indipendente, prospera, fiera delle sue risorse: commercio, pesca, sale, viti.

Lo mantenne  in lunga storia di secoli: dal 1099 quando si sganciò dal Sacro Romano Impero diventando libero comune a partecipando alla I Crociata, fino al 1797 quando defunse con Giacomo Maria Brignole durante la campagna d’Italia di Napoleone. Poi ricostituita, fu nel 1815 annessa al Regno di Sardegna.

 

RECENSIONE

 

La fortunata rubrica di Barbazza prende il nome dall’opera di Wagner, «L'Olandese Volante», e Il Canneto Editore ci porta nella più prestigiosa raccolta di bei nomi di scrittori genovesi e non solo.

Il primo articolo del libro riguarda un portacenere che l’Autore individua a Mumbai sul banchetto di un venditore ambulante. E’ un portacenere della “Linea C.” della Costa Armatori di Genova. Incise nel logo amatoriale le parole “Europa, Sud-Centro America”. L’ambulante gli spiega che l’oggetto proveniva da Alang Bay e l’Autore commenta: “Bingo! Doveva provenire dall’Eugenio Costa, turbonave della Costa Armatori e spiega che quel luogo in India è il cimitero delle navi con la più grande industria di demolizioni navali al mondo.

Ricorda per tutti noi “quella nave dalla linea così snella ed elegante, le alte ed aggraziate ciminiere gemelle gialle con la “C” blu” che in modo professionale ed efficiente ha portato nel mondo l’immagine dell’Italia, “dell’industria che l’aveva creata, degli artisti che l’avevano abbellita e dell’operosità dei suoi equipaggi”.

L’Autore si è presentato a noi con occhio acuto che sa riconoscere un oggetto particolare e come uomo sensibile: nelle tre parole, industria, artisti ed equipaggio, ha messo insieme tutto ciò che costituisce l’anima di una nave e anche di una nazione. Inserisco perciò l’immagine del “prezioso” (per noi, per la nostra italianità) portacenere (e ogni capitolo è corredato da una foto significativa e poiché l’immagine è l’occhio della pagina, questo è un altro suo indubbio pregio):

                                                     

Il secondo articolo-racconto riguarda un’immagine che Barbazza vede nella toilette di TGV (Train a Grande Vitesse) che lo portava da Lille a Parigi e commenta “the devil is in the détails” : è Boccadasse, lo splendido borgo in fondo a Corso Italia, la più rinomata passeggiata genvese. A Boccadasse si gusta un gelato molto rinomato.

Da esperto manager, riguardo la foto, commenta: “Ma a proposito i diritti d’immagine sono riscossi dal Comune di Genova ?”.

[Tasto per me dolentissimo perché avendo pubblicato nel novembre 2018 con Albatros (casa editrice che ha una sua storia elitaria) Questione di Giustizia e messo in copertina l’immagine della «Fanciulla sulla roccia a Sorrento» di Filippo Palizzi, quando mandai in omaggio il mio testo a Maria Flora Giubilei (dirige il complesso dei Musei di Nervi - 4 Musei e 4 Parchi- detti “la piccola Versailles” italiana), mi avvertì che dovevo pagar tassa: le immagini non sono più gratis a seguito di una delibera comunale di un paio d’anni prima. Fortuna che nel mio libro c’erano, copertina inclusa, solo cinque immagini di quadri dei Musei nerviesi e dovetti sborsare circa euro 150, io che avevo creduto di fare un po’ di pubblicità al complesso nerviese attraverso le mie pagine].

Per descrivere il capitolo che riguarda la Lanterna di Genova (la vedete piccola, sullo sfondo a destra in basso), inizio con la foto dell’antico faro così caro ai genovesi che sorge sul colle di San Benigno all’ingresso del porto.

 

                                                 

 

Barbazza ha visto il quadretto in un ristorante di Kiel, porto di armamento tedesco nel locale Kieler Schloss, arredato in stile marinaro. Era uno dei Captain’s paint di scuola genovese, come quelli che aveva già visto sia al Galata (Museo del Mare) sia a Camogli (Museo marinaro). Nella seconda metà dell’Ottocento nel Genovesato sorse una scuola di pittori specializzati nella raffigurazione di navi per conto degli armatori. Operavano con tecnica ad acquarello e i bastimenti ritratti erano di fianco su una piccola varietà di sfondi, tra cui molto “gettonato” l’ingresso del Porto di Genova. Gli artisti che si distinsero in questa pittura furono: Nicolas Cammilleri, di Malta, il precursore, Domenico Gavarone di Varazze che lo superò, Angelo Arpe di Bonassola.

“Ombre del passato nelle brume di Calais” è il titolo del capitolo successivo e ci riguarda molto da vicino, come genovesi.

L’Autore ama girare per cimiteri e non per necrofilia (come, a scanso d’equivoci, tiene a precisare) ma perché sono i custodi della storia di un luogo. Così passeggiava in quello di Calais e trovò un nome:  Charles Louis Sébastien Staglieno che morì appunto in quella località francese il 6 ottobre 1819, mentre comandava il 40° Reggimento di fanteria, la Legion del la Somme ed ebbe questa scritta commemorativa: “meritò la morte des braves (=gli eroi)”. Era nato a Genova il 20 gennaio 1775 da nobile famiglia diventando assistente di campo del Doge della Repubblica. Combatté a fianco di Napoleone in Spagna, Austria, Russia.

Però non fu l’unico dei nostri connazionali a morire a Calais. Nella guerra dei Cent’anni tra Inghilterra e Francia, 12mila inglesi, comandati da Edoardo III d’Inghilterra combatterono 50mila francesi, guidati da Filippo VI di Valois con suo figlio, il “Principe Nero”. Affiancati anche da 6mila balestrieri genovesi. Questi furono mandati in battaglia sotto un temporale, in un vero e proprio pantano e il disastro di Crécy – en - Ponthieu, 26 agosto 1346, vide: poche centinaia di caduti inglesi, 30mila dei francesi, 2300 dei genovesi. Fu l’inizio del declino di questo glorioso corpo.

Nel capitolo seguente  «Sulle rotte della Terra del Fuoco» l’Autore, un po’ come fa Hitchcock nei suoi film, non si sottrae alla tentazione di mettere la sua “firma da protagonista” del racconto stesso. Ricorda infatti che l’8 febbraio 1982  sulla Federico C. che si recava ad Ushuaia in Patagonia, c’era un giovanissimo ufficiale macchinista: Lui!

E ricorda che il 26 ottobre 1948 partì con 650 a bordo tra operai e ingegneri, ecc., da Ponte dei Mille  la motonave Genova, carica di tutto ciò, prodotto in Italia, che serviva per ricostruire la nuova città, poi capitale della Patagonia. Soltanto dopo un anno  partì la nave con i loro  familiari: il 6 settembre 1949. Anche se molti rientrarono in Italia a fine progetto, cioè dopo due anni, in Patagonia da allora si contarono circa 2000 italiani.

Il progetto di ricostruzione della città, che rischiava l’abbandono dopo la chiusura della colonia penale, era stato voluto da Juan Péron e messo in pratica dall’imprenditore Carlo Borsari: Ushuaia divenne la città più a sud dell’Argentina e dell’intero globo. Il nome di Patagoni era stato dato ai nativi di quella terra da Ferdinando Magellano che li scambiò per giganti. Com’è avventurosa la storia vera!

Ci spiega Barbazza che le rotte della Terra del Fuoco furono molto frequentate da navi e marinai genovesi. Molti infatti i nostri brigantini che, sfidando le tempeste dell’Atlantico e del Pacifico, nell’Ottocento navigarono fin laggiù: doppiavano Capo Horn per recarsi alle Chincas, le “isole del guano”, in Perù, dove caricavano tonnellate e tonnellate di escrementi di gabbiani e di altri uccelli marini che costituivano un pregiato fertilizzante naturale allora molto richiesto anche da noi.

E ancora, nel libro: scopro Simone Pietro Doria, un giovane diacono della comunità parrocchiale di San Michele Arcangelo di Brondolo, frazione di Chioggia. Proprio lì, il 22 gennaio 1380, morì un suo avo,  l’ammiraglio genovese Pietro Doria, in un convento assediato dai veneziani. E fu la sconfitta della flotta genovese che il 16 agosto del 1379 aveva conquistato la roccaforte di Chioggia. Quell’unico anno di occupazione genovese e i cinquemila prigionieri lasciarono un segno indelebile a Chioggia, detta “piccola Venezia” per le caratteristiche urbanistiche della zona antica, ma il dialetto chioggiotto conserva una cadenza cantilenante, simile a quello ligure. Cosa un po’ inquietante, le leggende popolari raccontano che nella vicina isola di Poveglia, detta “dei fantasmi”, la notte si avverte il canto degli orfani liguri a memoria del massacro della flotta genovese.

Il racconto di Barbazza si sposta a Pisa, già repubblica marinara. E’ di nuovo in un cimitero dopo aver accompagnato un importante cliente tedesco a visitare la torre e il complesso monumentale della città: “A fianco della torre, del duomo e del battistero, e di fronte a noi, appese al muro, penzolanti, c’erano delle immense catene di ferro arrugginito. Per soddisfare la curiosità del mio ospite lessi le scritte sulle targhe di marmo che campeggiavano sopra i catenoni, spezzoni di quella serie di maglie di ferro, poste a sbarrare l’accesso al porto di Pisa. I genovesi, guidati da Corrado Doria, nel 1290 riuscirono a superarle grazie all’ingegno di un fabbro, Noceto Ciarli, che accese il fuoco sotto la catena, arroventandola. Dopo averla così indebolita, venne spezzata con l’urto delle navi: i genovesi entrarono in porto e sparsero il sale sulle rovine. Era la punizione per quella Repubblica Marinara Pisana che non aveva rispettato gli impegni previsti dal trattato del 1288 dopo la pesante sconfitta della Meloria. Anelli di quella catena vennero smistati anche a Firenze e a Genova. Oggi le due città, oltre che dalle regate delle antiche repubbliche marinare, sono accomunate da due tra i più famosi cimiteri monumentali del mondo e dalle ombre e dai fantasmi dell’antica battaglia”.

                                          

 

Barbazza scopre un sottile filo che accomuna otto stati nordamericani e corre al nord e, da est ad ovest, attraversa quasi tutto il continente. Sono dieci città che portano tutte lo stesso nome: “Genoa”, in onore di quella originale. Una nello stato di New York, due in Ohio, una nel Michigan, una nell’Illinois, due nel Wisconsin, una in Nebraska, una in Colorado e l’ultima nel Nevada. In aggiunta a queste, altre quindici località con lo stesso nome.  In tutto venticinque, in venti diversi Stati, le Genova (o Genoa) statunitensi. Fa effetto imbattersi in cartelloni stradali con scritte come: “Welcome to Genoa, Nevada’s oldest town”, o “Genoa, Nebraska, Pawnee capital” (gli “indiani cattivi” di «Balla coi lupi»), o ancora, “Genoa Wonder Tower”.

La leggenda racconta che la “Genoa” del Colorado, fondata nel 1888 come “Creech”, fu nel 1895 re-intitolata con il nome della “nostra” città. Fu l’ultimo desiderio di un operaio delle ferrovie, pesantemente infortunato e destinato a morire poco dopo, che, rendendosi conto di non poter più tornare a vedere la «Lanterna», parlava in continuazione della sua città natale. E’ stato il suo «Ma se ghe pensu» e ci sembra di ascoltarlo come lo cantava l’indimenticabile Bruno Lauzi, dall’indimenticabile voce.

E poiché musica e cucina sono due piaceri della società in ogni tempo l’Autore ci spiega che il Pan di Spagna nel mondo è la Pasta genovese.

Nel 1747 il marchese Domenico Pallavicino, inviato della Repubblica di Genova come ambasciatore presso Ferdinando IV,  Re di Spagna, pensò di far preparare per lui dal suo cuoco, Giovanni Battista Cabona, un dolce che fu battezzato Pan di Spagna in onore del monarca, ma suscitò tanta ammirazione presso la  Corte che vollero onorarlo con il nome della sua provenienza: Génoise!, così è conosciuto nel mondo. Rimarca Barbazza: “ma a Genova non la chiamano così” e lo dice con un po’ di malinconia la stessa nel raffronto del Porto di Genova – Pra’ con il Porto di Rotterdam . Questo  in  otto anni è diventato un terminal gigantesco, ha  prodotto una spiaggia che prima non esisteva, un Museo: è cresciuto non intaccando l’ambiente, creando ricchezza ed occupazione. A Pra’ purtroppo è successo esattamente l’opposto.

Quante cose si possono imparare dai 43 capitoli del libro o ricordare. E dato che da poco si è conclusa la giornata della donna (in sordina a causa dell’emergenza) in un capitolo viene ricordata Caterina Negrone di Bogliasco, “pioniera ed eroina del volo che, nel 1935, a bodo di un biplano Caproni Ca-113, conquistò il record di altitudine femminile per aerei a elica, record tutt’ora imbattuto”.

 Però voglio chiudere in modo ancora un po’ cimiteriale (anch’io sono amante delle peregrinazioni nella quiete di cimiteri che racchiudono storia e vita delle città e sono ricchi di storie di uomini…).

Chiudo con l’immagine dell’Angelo di Staglieno,  (ammalia anche gli olandesi come spiega il titolo del capitolo che lo riguarda).

Barbazza, in Olanda davanti ad un club fotografico che espone opere di Liz Windt (foto dell’olandese di Vendaam pubblicate nel suo libro I luoghi della memoria), vede proprio l’Angelo di Monteverde o Angelo della Resurrezione. A Staglieno decora la tomba monumentale della famiglia Oneto (13° nicchione del porticato superiore, lato ponente) e fu realizzata nel 1882 da Giulio Monteverde. Barbazza sottolinea che Staglieno è il più importante Museo a cielo aperto d’Europa.

(Ricordo però anche la frase che Agatha Christie mette in bocca ad un personaggio in un suo giallo: “Non ho mai visto niente di così kitsch come il cimitero di Staglieno”. E’ infatti improntato non solo al ricordo ma anche alla magnificenza. Altri cimiteri  come quelli israeliani coltivano invece l’umiltà).

Dal libro inserisco l’immagine bellissima e malinconica dell’Angelo come una riflessione sul senso della vita. Chiudo con un elogio, molto sentito, allo stile del “nostro” Barbazza, che tale lo sentiamo dopo aver scorso il suo libro: uno stile asciutto,  senza spreco di parole e per questo più diretto, più capace di entrarti in cuore.

                                                     

 

                                                             REWIND

                                            di Guido Barbazza

 

(Allego l’antica recensione che ebbi modo di scrivere su questo testo dell’Autore, condizionata dagli spazi in un giornale: la carta stampata permette solo riflessioni brevi).

                                                            ~ ~  ~  ~  ~  ~

“Una bellissima, lunga, diritta spiaggia di sabbia grigia, digradante dolcemente sino a inabissarsi nel “gradino”, ove il mare si faceva più profondo”, una descrizione che è atto d’amore, e con rimpianto, dell’arenile di Pra’ di un tempo. In Rewind (De Ferrari), l’autore Guido Barbazza esprime la convinzione che il Porto costruito al posto dell’antica spiaggia sia un errore tanto più che il Porto di Genova non era utilizzato secondo la reale capienza, com’è evidente dai chilometri e chilometri di banchine e capannoni mezzi vuoti. Il concetto “scomodo” lo fa dire dagli abitanti del quartiere che un tempo coabitavano felicemente con i tanti turisti, che fruivano insieme di quel luogo accogliente, pieno di ombrelloni festosi: “Qui è stato perpetrato uno dei più grandi crimini ambientali della storia. Un crimine contro l’umanità. Hanno fatto sparire tre chilometri di spiaggia. Ci hanno seppellito sotto una discarica. Hanno massacrato, cancellato un paese, ci hanno eliso. Ma dov’erano gli ambientalisti, quando qui facevano cose turche? I nostri politici da strapazzo, telecomandati da capi, a cui del nostro paese non importava un fico secco, ci hanno diviso, imbottendoci di palle sulle migliaia di posti di lavoro e la ricchezza che sarebbe derivata da questo Porto senza senso”.

Barbazza, ingegnere e capitano di mare, è un innamorato di Pra’ come testimoniano le sue molte pubblicazioni da Antologia Praese, a Pra’ qui Pra’ là, al giornale “Il Praino” da lui fondato nel 2009; è anche autore di romanzi: Salvate il Generale e Il Diavolo e l’Acquasanta. In questo libro si cimenta nel giallo e la storia ha per protagonista Giorgio Bignone, un americano agente della CIA, però orginario del luogo, coadiuvato da un’avvenente poliziotta, il cui lato b, esaltato dai pantaloni della divisa, non ha niente da invidiare a quello della nota Pippa.

L’avvio è con lo schiantarsi della settima grande nave contro la diga del Porto di Pra’ e con l’uccisione da parte di un serial killer di eccellenti sui cui cadaveri lascia un biglietto con scritte del tipo: “Nemico del popolo, nemico dell’ambiente...” Proibito raccontare la trama di un giallo, però il finale presenta sorprese non-scontate, con attinenza al paranormale, agli avatar, ad X-Files. Perciò il libro piacerà anche ai più giovani che amano questi sfondi sovraumani. La riflessione possibile è che tali nuovi personaggi non provengano da spazi remoti, ma rappresentino una coscienza collettiva, che nasce dal passato e si proietta nel futuro per ammonirci a non autodistruggerci. A questo riguardo due frasi del libro mi sembrano significative: “Se vuoi capire un paese passeggia nel suo cimitero”, e: “Come può un popolo lasciarsi stuprare, annullare, senza far niente?”. Il racconto, davvero mozzafiato, che costringe ad andare all’ultima pagina senza pause, ha il valore aggiunto di quadri marini: “Il branco di sgombri guizzante nell’enormità blu del mare di luglio in cerca di acciughine, le conchiglie (i cornetti come le turritelle, le più ricercate dai bimbi), i quattro ragazzi che mettono in mare un canotto provocando grandi schizzi con i piedi nudi che battono ritmicamente la ghiaia effervescente...” E di quadri storici dove qualche elemento del passato si fa, senza infamia anzi con decoro, connotativo del paesaggio: la Casa del Fascio, la Torre del Grillo, il cantiere Tixi, fin un nome “Sextum”, buttato nella conversazione più semplice senza peso didattico, ad indicare Sestri e la sua origine romana.

                                                           Trieste e le divergenze parallele

                                                       di Guido Barbazza

Trieste è la città italiana dove ho trovato la maggiore quantità e varietà di collegamenti con Genova. Le due città si sono spartite il dominio armatoriale e cantieristico nazionale operando con un insolito rapporto di collaborazione e competizione, di “divergenze parallele", consolidando le rispettive aree di supremazia sui due versanti della penisola: quello tirrenico e quello adriatico. Oggi si barcamenano entrambe ricordando gli splendori della loro “noblesse”, ormai offuscata. I collegamenti magari subito non saltano all’occhio con grande evidenza ma, con un po’ di attenzione, gratta gratta, vengono fuori copiosi. Possiamo cominciare con i curiosi paralleli legati al nome della nostra città. Infatti, la sede legale della Fincantieri, a cui fa capo il cantiere navale di Sestri Ponente, si trova proprio in via Genova, e il prestigioso istituto nautico della città giuliana è intitolato a Tomaso di Savoia, Duca di Genova. In via Venti Settembre, a Genova, c’è la “Gioielleria Triestina”, e nella Delegazione di Sestri Ponente troviamo addirittura piazza “Triestino Genovesi”. Alla banchina dello Yacht Club genovese, il ventisei marzo del 1930 era ormeggiata la nave Elettra, da cui Guglielmo Marconi fece partire il segnale radio che fece accendere le luci del municipio di Sidney, in Australia, dando inizio all’era delle telecomunicazioni. Ebbene, proprio l’Elettra, requisita dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, venne affondata da cacciabombardieri alleati in prossimità di Zara. Recuperata e riportata in Italia nel 1962, la sua prua è conservata presso l’area “Science Park”di Padriciano, a Trieste, e sempre nel capoluogo giuliano altri resti della nave sono conservati presso il Civico Museo del Mare e il Museo Postale e Telegrafico della Mitteleuropa. Se parlate con un triestino, poi, è meglio non tirare fuori quell’antica vicenda dell’estate del 1380, quando, durante la guerra contro Venezia, una squadra di trentotto nostre galee al comando del Capitano Matteo Maruffo, per vendicare la bruciante sconfitta subita poco prima a Chioggia attaccò Trieste, da pochi anni sotto dominio veneziano, saccheggiandola selvaggiamente. A ricordo di quell’impresa, resta un leone di pietra incastonato sulla facciata di Palazzo Giustiniani, nell'omonima piazza nel centro storico di Genova. L'iscrizione sotto il leone alato di San Marco, simbolo di Venezia, ricorda che questo leone proviene proprio da Trieste. E’ curioso il fatto che, negli anni tra le due guerre, le più importanti costruzioni navali siano state spartite, con precisione “cencelliana”, tra Genova e Trieste. Infatti, ben prima che il democristiano Massimiliano Cencelli, nel 1967, inventasse la celebre formula per la spartizione delle cariche pubbliche in base al peso elettorale di ogni singolo partito o corrente politica, nel 1931 a Genova l’Ansaldo varava il transatlantico “Rex”, che conquistò il “Nastro Azzurro”, ma la nave gemella, il “Conte di Savoia”, fu costruita in contemporanea a Trieste dai Cantieri Navali Riuniti dell’Adriatico. La corazzata “Roma”, affondata dai tedeschi subito dopo l’armistizio, fu costruita a Trieste dal Cantiere San Marco insieme alla gemella “Vittorio Veneto”, ma le altre due gemelle, la “Littorio” e l’ “Impero” toccarono all’Ansaldo. Nel dopoguerra fu la volta del transatlantico “Michelangelo”, costruito a Genova, e della gemella “Raffaello”, varata, guarda caso, proprio a Trieste. Diversamente andò in anni più recenti quando, dovendo decidere in merito alla sede della neonata Fincantieri le “divergenze parallele” tra le due città si risolsero a favore di Trieste. E Genova restò con un palmo di naso. Ma questa è un’altra storia.

 

 

Notizie d’Autore

Sono partita dal recente libro Il genovese volante di Guido Barbazza che  è ciò che il lettore si trova tra le mani e su cui può riflettere, però mi sembra indispensabile completare con qualche notizia sull’autore.

Guido Barbazza, nato nel 1960 a Genova, capitano e ingegnere, è Executive della multinazionale Wärtsilia ed ha pubblicato: Salvate il Generale (Frilli,2008); Il diavolo all’Acquasanta (De Ferrari, 2010), Rewind (De Ferrari, 2012), Uomini Neri (Magenes, 2013), Il macchinista (Magenes, 2017).

La rubrica sul Secolo XiX, il giornale dei genovesi, gli è stata richiesta da Alessandro Cassinis, nato a Milano nel 1960  che nel 1998 divenne redattore economico del Secolo xix diventandone direttore nel 2014 fino al 2016 quando gli subentra Massimo Righi ed ora ha l’incarico di editorialista.

L’ho conosciuto di persona, apprezzando la sua voglia d’informare diretta non solo alla nostra città o al nostro Paese ma con un interesse a più vasto raggio e per questo lo stimo.

Una piccolissima nota sul titolo che parafrasa L’Olandese Volante, leggenda che Richard Wagner musicò e che narra di un vascello condannato a vagare per i mari in eterno in seguito ad un patto che il suo comandante fece con il diavolo. Riguardo la sua esistenza ci sono però testimonianze come quella di un suo avvistamento ad est di Suez per cui l’ammiraglio Karl Donitz scrisse nel diario di bordo che gli uomini del suo equipaggio dicevano di preferire uno scontro con la flotta degli Alleati (era il 1943 della II Guerra Mondiale) più che riprovare il terrore di un secondo incontro con la nave fantasma.

                                                           

                                (Una delle tante riproduzioni del temuto vascello fantasma)

 

Infine poiché una delle passioni di Barbazza è  la Storia, quella che la scrittrice genovese Minnie Alzona diceva di mettere sempre nei suoi libri per dar loro maggior consistenza, riporto alcune note di storia genovese secondo il cardinal Giuseppe Siri.

 

 

                                                         Cardinal Giuseppe Siri

                                        e la Storia di Genova

 

                                                                       

   

                        Dal colloquio con Siri, appassionato della Storia di Genova che mi parlò di momenti della                         

                    

Nel  1993/94 per la Scuola delle Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano, scrissi la Tesi di Specializzazione

 “Nascita e sviluppo del Settimanale Cattolico di Genova", relatore Gianfranco Garancini   e al Capitolo VII, I Giornalisti,

iniziai con il colloquio che ebbi con il cardinal Giuseppe Siri: aveva infatti compiuto nella primavera del 1986 i 40 anni di  governo pastorale e poiché la data non precedeva di molto l’eleborazione di questa tesi pensai fosse l’occasione per riportarla ricordando le sue parole di quando aveva iniziato il colloquio con me: “Le dico questo perché un giorno Lei ne scriva”.

Mi aveva suggerito di andare da Siri il professor Gianfranco Bianchi, fondatore con Mario Apollonio della scuola stessa, nel 1965 a Bergamo, e dove erano stati invitati ad iscriversi i migliori laureati d’Italia di ogni Facoltà. L'invito era stato rivolto anche a me, laureata in Lettere classiche all’Università di Genova, Facoltà di Lettere con il grecista Enrico Turolla e tesi Aristeia omerica e virgiliana. Allora, (mi ero sposata il 4 aprile del 1964), non potei accettare dato che sarebbe stato troppo difficile per me frequentare la scuola che era a Bergamo (e con frequenza obbligatoria). Rinunciai. M’iscrissi e diplomai in seguito trovandomi a vivere con mio marito e i tre figli un anno a Milano dove si era trasferita la scuola nella sede dell'Università Cattolica.

Anche per recarmi da Siri tergiversai qualche mese, però poi andai, ricevuta in una delle sue udienze del mercoledì. Siri mi disse che non concedeva interviste e quindi mi pregò di mettere le sue parole come riflessioni mie su ciò che mi avrebbe detto però fu prodigo di notizie.

Pensava ai problemi di Genova e nella tesi scrissi in dettaglio ciò che aveva compiuto per la città, dall’introduzione dei Cappellani del Lavoro subito dopo la guerra all’Opera delle Minestre, alla destinazione di un fondo per la costruzione di case economiche per i meno abbienti... Siri, nel ricordare i pochi uomini che nell’Otto/Novecento fecero Genova fiorente come  il senatore Erasmo Piaggio disse: “Se suo figlio Rocco fosse vissuto più a lungo, Genova avrebbe pianto meno”.

Mi confidò il suo amore per la musica nato per merito di un compagno, don Pertica, ottimo musicista. “E fu  un bene – precisò- perché dietro la musica avrei potuto perdere la testa e non avrei fatto altro”. Gli piaceva Schubert per la vita struggente e per la ricchezza melodica e ogni anno, quando poteva far a meno dell'etichetta (che sentiva come una costrizione) si recava a Vienna per ascoltare buona musica.

Per Genova affermava: 1) l'industria era stata penalizzata con la parziale statalizzazione conseguente al sostegno chiesto nel dopoguerra per riconvertirsi a scopo di pace; 2) il Porto, vera vocazione genovese con il commercio, era diventato tanto capace da avere km.18 di banchine; 3) la città d’arte era seconda forse solo a Firenze, purché i proprietari di tesori, accumulati come “riserve" di valore, acconsentissero ad aprirli."Genova – diceva - è la città dei tesori nascosti, tutta da scoprire".

Ricordava come la Chiesa genovese avesse dovuto arginare sul campo i problemi della città, tra cui il degrado del centro storico, dove molti erano gli alloggi sfitti e abbandonati agli extracomunitari. “Per questi fratelli sradicati – tagliava corto - la Curia ha fatto tutto ciò che ha potuto e c’è una speranza: la città ha una tale forza di carattere che le basta una generazione per assorbirli”.

A concludere, gli chiesi:"il suo Popolo, le ha attribuito qualità come l'intelligenza, la coerenza, la cultura, la pazienza, il rigore, quale di queste ritiene più sua?"

                                                           La sua risposta:

                          "Non so, è irrilevante. So che ho una faccia sola, mai due".

 

Della mia prima tesi di specializzazione alla SSCS (Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali) dell'Università cattolica,

Momenti e problemi di vita genovese nell’immagine di "Il Cittadino” (1873-1974), relatore Gianfranco Bianchi, anno 1982/83

riporto due pagine.

(Della mia primissima tesi l “Aristeia”, con cui mi laureai all’Università di Genova e per cui il prof. Enrico Turolla avrebbe chiesto la dignità di stampa se, dopo la laurea, acconsentivo a migliorarla continuando all’Università, so che cinque anni dopo andò al macero come tutte le altre. Ignoro ciò che avviene ora per le tesi, anche quelle degli studenti più brillanti, perciò ritengo che il loro contenuto rimanga noto solo a chi lo ha scritto, pur se interessante, per studio e novità di ricerca e di sensibilità).

La prima pagina che ne riporto riguarda il cardinale Siri ma non c’è il colloquio con lui che prima ho ricordato (allora, molto “disciplinata” anche con me stessa, riportai nella tesi solo il suo pubblico Elogio funebre per il cardinal Boetto)

                                    

 

              

Quindi mi piace inserire il fondo di Fausto Montanari La fatica della libertà alla ripresa della pubblicazione  de "Il Cittadino"

                                                                  il 23 maggio del 1945