INDICE

 

 

1)Giovanni B. Varnier, Dio e Patria (2019, Stefano Termanini Editore)

1)   Corinna Praga, La porta dei girasoli, (2019, Erga Edizioni)

2)   Mauro Covacich, La città interiore, (2019, La nave di Teseo)

3)    Oliver Sacks e suoi scritti sul Parkinson.

 Foto di  Ida Ragaglia, mia madre a 19 anni, e che ebbe 25 anni di Parkinson morendo ad 83 anni.

4) Oliver Sacks, Il fiume della coscienza, (2017, Biblioteca Adelphi 682)

         Due libri-diario di persone affette dal Parkinson:

   4) Marzio Piccinini, Parkinson, Il Tremore e la Speranza   (1993, Guaraldi)

5)   Ornella Rigodanzo, L'Ospite indesiderato (2020, Amazon

   Italia Logistica)

6) Ornella Rigodanzo, Caregiver…quasi eroi (2021, Amazon, Libri)

7)   Giglio Reduzzi, Il meglio di…  (2020, Youcanprint)

8)   Giulio Vignoli, La morte per fame della Famiglia Reale del Laos - Un crimine comunista, (2020 Edizioni Settimo Sigillo)

9)    Maria Rosaria Dominis, LA RICERCA, (2019 Impremix –Edizioni Visual Grafica)

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi piace iniziare questa pagina “Aurea senectus” con la recensione al testo del Professore Varnier e ciò perché -  pur essendo il Professore in quella che si può chiamare l’età migliore della vita (che non è la vecchiaia) il suo testo riguardante la Prima Guerra Mondiale e i nostri Padri che fecero l’Unità d’Italia s’inserisce a tutto diritto nella definizione di un’età dell’oro ormai invecchiata con gli attuali piccoli italiani, figli minori di quei Padri.

               Giovanni B. Varnier

                     Dio e Patria

 

 

                            

 

Questa rielaborazione grafica del bel manifesto “Sottoscrivete al prestito” di Giovanni Capranesi (1918) sottolinea i due valori che portarono all’Unità d’Italia.

Una copertina scelta da prof. Giovanni B. Varnier per far risaltare i contributo dei cattolici italiani a quel conflitto determinante per la nostra coesione di Popolo nella geografia che ci appartiene di una penisola delimitata dalle Alpi e circondata per gli altri tre lati dal mare.

Dio e Patria – I cattolici genovesi nella Grande Guerra (edito a fine 2019 da Stefano Termanini)  si sofferma in particolare sul contributo di Genova a questi eventi. Genova, città nella cui Università degli Studi il prof. Varnier ha insegnato (come pure ad Urbino e a Torino) e dove ha anche ricoperto la carica di preside della Facoltà di Scienze politiche.

 

La Premessa di questo elegante libro di cento pagine ci ricorda che è stato pubblicato nel centenario della fine del primo conflitto mondiale e in quattro capitoli sviluppa il contenuto di brevi Saggi del professore, usciti tra il 2015/’18 sulle pagine del periodico <<L’Operaio ligure>>, una delle più antiche testate del giornalismo italiano, organo della Federazione delle Società cattoliche liguri di mutuo soccorso.

Il primo nome ad esser ricordato è Filippo Meda: fu il primo caso – il 18 giugno 1916 - in cui un esponente cattolico entrava a far parte del Governo di unione nazionale guidato da Paolo Boselli e con la qualifica di Ministro delle Finanze. Però il Meda sedeva sui banchi della Camera già dal 1909. Era il più evidente superamento del non expedit (=non conviene) con cui Papa Pio IX    aveva proibito ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche del Regno d’Italia.

Sempre nella Premessa vengono richiamati due fatti importanti:

1)    tra il 1917/’18 si concretò l’unione volta al completamento dell’indipendenza nazionale con la redenzione di Trento e Trieste;

2)    la guerra aveva messo fine all’equivoco che ancora accompagnava le vicende del movimento cattolico italiano come ostile al processo di unificazione nazionale.

Il contributo dei cattolici per come si svolse il processo di unificazione nazionale condotto contro la Chiesa e contro il potere temporale dei Papi, non pare così scontato, mentre invece quel contributo è stato determinante. Fu la guerra a far maturare il superamento del non expedit.

Alla Premessa che ci richiama questi capisaldi storici seguono quattro agili capitoli (senza alcun peso di erudizione ma molto precisi e documentati per farci riflettere): Il contesto generale, Momenti, Figure rappresentative, Documenti; infine le due pagine di Postfazione che ripercorrono il patrimonio di storia sociale e religiosa delle Società operaie cattoliche.

Desidero soffermarmi solo su due pagine che riguardano Pietro Zuccarino: la prima (p.36) “tenente di Fanteria nella Grande Guerra”, la seconda (p.89)  con le motivazioni delle due medaglie di bronzo e della croce al merito di guerra che gli furono conferite.

Zuccarino, l’11 febbraio 1951 fu consacrato Vescovo  dall’Arcivescovo Giuseppe Siri  e dal 1953 fu Vescovo di Bobbio (PC)  e Abate di San Colombano: a Bobbio è tuttora molto ricordato. C’è un altorilievo in bronzo nel Duomo bobbiese, a sinistra guardando l’altare, a lui dedicato. Morì a 75 anni nel 1973 a Genova.

Nel libro nelle pagine prima di quelle per Zuccarino viene ricordato il marchese ed arcivescovo Ludovico Gavotti, così stimato che di lui l’<<Operaio ligure>> scrisse: <<mons. Gavotti non ha bisogno di presentazioni>>.

Le persone sono sempre quelle che più attirano l’attenzione del lettore e quindi nel libro nella sezione Documenti sono citati Camillo e Francesco Marré, figli del cav. Efisio e della nobildonna  Anna Brunenghi, che morirono sul campo di battaglia. Commovente le parole del giornale in loro commemorazione: “quei giovani lungi dalle baldorie, in cui si soffocano i sensi della dignità umana, erano stati le tante volte beffeggiati come anacronismi viventi” che conclude: “non conobbero le gelosie, le perfidie, gli abbandoni che fanno triste l’esistenza e talvolta nell’età matura fiaccano le tempre più salde”.

Ritorna in questa parole quel concetto della tradizione classica: “muore giovane chi è caro agli dei” . Purtroppo i tempi attuali mostrano spesso orde di giovinastri sbandati e bevuti che sanno solo lordare e schiamazzare. Allora erano “altri tempi” ma i valori Dio e Patria diedero a molti giovani uno scopo, un senso alle loro vite.

Due riflessioni mi hanno in particolare attratta nel libro e ve le ripropongo senza alcun commento. Dal Contesto generale: “fu una guerra tra cristiani, a cui on fu possibile applicare gli schemi medievali della guerra giusta e le sottigliezze della teologia morale (abituata a identificare la guerra santa e il bene che deve sempre affermarsi sul male), mentre la Santa Sede cercò di non disperdere le possibilità di collegamento tra le parti in lotta e di favorire lo scambio di prigionieri”.

“il conflitto era ritenuto necessario (per realizzare l’unità nazionale) e inevitabile per gli equilibri internazionali; questo sia per gli  Imperi Centrali ce per le potenze dell’Intesa. Il sotterraneo elogio della guerra come fattore di modernizzazione deve considerare anche l’apertura della strada ai totalitarismi a cominciare dal comunismo sovietico (i bolscevichi furono i primi a vincere con la conquista del potere in Russia e la  liquidazione dello zar Nicola II), seguiti poi, con motivazioni diverse, palesi ed occulte, dal fascismo e dal nazionalsocialismo.

Da ultimo una riflessione: “la prima lettura che incontriamo è quella che ha addebitato alla Prima guerra le conseguenze della Seconda: un secolo breve, ma con guerra lunga (1914-1945).

Da non dimenticare mai l’opera dei religiosi che affiancarono i civili e laici in questa temperie, dai cappellani militari, alle suore come in questa bella foto inserita nel libro riguardante l’Ospedale militare delle Dorotee.

                     

                          CORINNA PRAGA             

                La porta dei girasoli

 

                     

 

                   “Tempo per Camminare

                               Tempo per Sedere

                             Tempo per Pensare”

 

 

Mi piace premettere alle impressioni che mi ha suscitato la recente pubblicazione di Corinna Praga (Erga edizioni, autunno 2019) queste sue parole premesse ad un capitolo.

Corinna, professoressa, attiva guida di Italia Nostra, che ha voluto verificare di persona itinerari italiani già descritti dai Romani, a 90 anni trascorre 73 giorni in un ricovero per anziani. Di Corinna in passato ho già avuto la buona sorte di recensire: La via del Sale (Sagep 1988),  Genova per tutti noi- guida per il turismo senza barriere (La Cruna, cooperativa sociale 2005)  Genova fuori le mura (Frilli 2006 Guide nato con il contributo di Italia Nostra),   Tempo dell’altro ieri – Anni di guerra in Liguria (Frilli Editori, collana I Tascabili, 2007) tutti con splendide copertine.

Il suo sobrio ed essenziale incipit crea un’atmosfera di suspense, quasi da libro giallo o noir: “quando la lunga vita già trascorsa ti spinge dentro il tuo novantesimo anno, credi di aver conosciuto tutto, del mondo e dei tuoi contemporanei”.

Invece si accorge che c’è “una parte dei tuoi simili, meno fortunati di altri e lontani dalle tue consuete strade che, solamente in tarda età, le sofferenze e il bisogno ti portano a conoscere”. Se ne accorge brutalmente - sola in casa, perché vive sola -  con un grande “patatrac”, come un rumore di cose rotte, di mobili rovesciati. Non sa ancora che come le diranno all’ospedale che la parte sinistra dello scheletro più debole dell’altra ha ceduto, non ha retto al  “peso di un nuovo giorno”.  Segue la sua chiamata all’amica più cara, quindi con uno stile rapido, incisivo come fosse una camminata atletica per tagliare un traguardo, ecco l’ambulanza, il pronto soccorso, porte che si aprono e si chiudono, ascensori e di sfuggita la porta bianca d’ingresso dove è passata in barella, che ha applicati sopra due girasoli di cartone.

Ecco spiegato il titolo del libro e Corinna poi ci racconta che i girasoli li aveva visti nelle campagne di Francia dove il treno corre su binari interminabili, ma questi fiori alteri sono legati al viaggio del sole nella parte del cielo visibile agli uomini. Lo seguono fino alla scomparsa che li fa inesorabilmente chiudere: perciò dalla mitologia greca alle atroci avventure del Basso Medioevo, il girasole ha sempre significato tristezza e fine di ciò che è scintillante e vivo. Perciò quella porta diventa inquietante per chi sofferente  l’attraversa.

Mentre deve attendere l’intervento per la ricostruzione del femore infranto, Corinna conosce un mondo ignorato: infermieri che ti chiamano “gioia” “tesoro”, “amore”  perché non ricordano il tuo nome, parenti in visita e le compagne di degenza. Seguono ritratti umani  e mi ha molto colpita quello della “Comandante”. Così soprannominata perché autorevole e sempre a raccontare di avventure, amicizie, avvocati…. Ma dimessa si diffonde a macchia d’olio la notizia che non è stata riportata nella sua casa, bensì sistemata in un ricovero per anziani assai lontano dalla città: era stata “tradita” dai parenti e dall’avvocato di fiducia.

L storia mi ha fatto tornare in mente  un ricordo personale che ancora mi addolora. Trovai in una Casa di riposo dove mi recavo spesso per far compagnia ad una persona  una mia professoressa dei tempi dell’Università. Brillante assistente del professor Francesco Della Corte, aveva l’Alzheimer e mi faceva tristezza quando al cambio di turno delle infermiere veniva portata via di colpo dal film o dal tiggì che stava guardando in Tv. Lei diceva paziente: “non importa tanto si capisce come va a finire”. A me sembrava una mancanza di rispetto e di umanità.

Un giorno la Prof. alle quattro del pomeriggio uscì dalla Casa di riposo senza che nessuno se ne accorgesse. Alla fermata del bus si fece regalare – con una scusa – da ragazzine che attendevano il mezzo come lei e si recò alla sua casa in via Guerrazzi a Genova. Il portiere quando la vide la trattenne facendola conversare e intanto avvertì il fratello e quindi fu subito riportata alla Casa di riposo.

Perché non l’avevano fatta salire? Il suo appartamento era stato affittato (o venduto) forse anche per pagare la retta (sono abbastanza impegnative quelle di tali Istituti) e tutto questo alla sua insaputa con la scusante che con l’Alzheimer non avrebbe potuto decidere al riguardo. E’ tristissimo se da vecchi, dopo una vita da persona intelligente, non si viene nemmeno più interpellati su cosa si vorrebbe fare: è un’autentica violenza.

Torno al libro di Corinna per soffermarmi sulla cultura profonda che sale da questa 40 pagine e fin dalla copertina: all’interno si premette che questa è stata ideata da Ornella Pittaluga ed è accompagnata da queste parole: “Un gruppo di botanici dell’Università svedese di Umea ha scoperto in una zona impervia, un abete rosso di 8000 anni. Ciò significa che quando il faraone Cheope costruiva la sua piramide l’albero era già vecchio di oltre 3500 anni”. Questa notizia a spiegare che il libro è stampato su carta ecologica che non proviene da foreste primarie. Per on disturbare troppo gli alberi”.

Non meno interessante la quarta di copertina che porta il ricordo della reporte Nelle Bly (pseudonimo per  Elisabeth Jane Cochran) che fu la prima giornalista investigativa per conto di Joseph Pulitzer, proprietario del New York World. Si fece rinchiudere nel manicomio dell’isola di Blackwell per capire come vivevano le donne lì internate.  In seguito su quell’esperienza pubblicò un libro: “Dieci giorni in manicomio”. Corinna ha profittato del suo periodo tra quella che con Dante si potrebbe definire “la perduta gente” al di là della porta dei girasoli.

Con Erga edizioni la ricercatrice e storica Corinna ha pubblicato Andar per creuse (che esce in edizione del tutto rinnovata), Trentaquattro musei all’aperto, La Mia Postumia ed altre antiche vie nelle valli Bisogno e Polcevera e tra Voltri e Nervi.

Ma c’è qualcosa in particolare di cui Le sono debitrice, quando mi venne a trovare a casa portandomi un gigantesco strudel. Nella sua famiglia tutte le donne confezionavano questo dolce legato alle origini      dell’autrice, però tutte concludevano che quello di zia Nerina (la mamma di Corinna) restava ineguagliabile. Vi do la ricetta.

 

 

Strudel di mele.

INGREDIENTI: gr. 300 di farina Manitoba – gr. 150 di burro – 4 mele di media grandezza – gr. 100 di zucchero – 1 limone – gr. 25 di uvetta sultanina-.

OCCORRONO INOLTRE: un piano di lavoro di almeno cent. 80 per 90 – una tovaglia di almeno cent. 100 per 100 – un tegame da forno basso e largo – carta da forno – un tegamino per far sciogliere il burro – una pennellessa da dolci – un foglio di pellicola per cibi.

PREPARAZIONE: Almeno sette ore prima della cottura si impastano gr. 250 di farina con un cucchiaio d’olio e acqua quanto basta (meglio se tiepida).Si lavora l’impasto fino a che raggiunga una consistenza elastica ideale, senza durezza, ma anche senza appiccicosità. Formata una palla  omogeneamente sferica, la si avvolge nella pellicola e la si fa riposare in frigo. Allo stesso modo si mette a bagno in una tazza l’uva sultanina.

Prima di procedere alla confezione vera e propria, si fodera la teglia con carta da forno che deve sbordare intorno di almeno cm. 2. Indi si pesa lo zucchero e vi si grattugia sopra la scorza del limone che, preventivamente, sarà stato lavato con lo spazzolino. Si mescola bene affinché il tutto sia bene amalgamato. Si sbucciano poi le mele e le si grattugiano come nella preparazione per i bambini. Quindi si stende la tovaglia sul tavolo, la si cosparge con i gr. 50 di farina rimanenti, che la mano distribuirà uniformemente su tutta la superficie. A questo punto si ritira dal frigo la palla dell’impasto, la si mette sulla tovaglia e la si rotola in modo che la farina presente l’asciughi completamente. Poi, con il matterello, rigirandola più volte la si schiaccia fino a che diventi un cerchio di cm. 20 di diametro e 1 di spessore. Successivamente, con le mani,  cominciando dal centro si tira questo cerchio che diventa sempre più sottile fino a ricoprire tutta la tovaglia (aiutandosi con le nocche, sempre dal centro,  si ottiene il risultato della sfoglia più sottile). Se la tovaglia ha disegni colorati, questi si devono vedere attraverso il velo della pasta. Nel frattempo si metterà il burro nel tegamino, facendolo sciogliere a fuoco lentissimo. Finita la “tiratura”, con un coltello si leva l’orlo grosso di pasta tutt’intorno alla sfoglia (a meno che appunto con le nocche lo si sia reso sottilissimo). Comunque con questa pasta asportata si può cuocere, a parte, un piccolo biscotto.

E’ il momento, questo, di accendere il forno che si deve scaldare ad alta temperatura per almeno quindici minuti.

Poi, con la pennellessa, s’imburra tutta la superficie della sfoglia. Indi, con le mani, si strizzano le mele affinché abbiano meno acqua e le si stendono, in una colonna parallela al bordo del piano di lavoro, per la larghezza della sfoglia, lasciando però libero un bell’orlo di pasta dalla parte dell’operatore. Alle mele si aggiungono poi lo zucchero limonato e l’uvetta preventivamente scolata. Con la striscia di sfoglia, lasciata libera dalla parte dell’operatore, si ricopre il ripieno, e poi, sempre con la pennellessa, s’imburra anche questa copertura.

Si procede così, di avvolgimento in avvolgimento, finché la distesa di sfoglia sarà terminata e l'ultimo suo lembo avrà chiuso ermeticamente il salamone. Allora si avvicina la teglia, si depone gentilmente il salame nel tegame, acciambellandolo con piccole volute nelle parti terminali e ungendo ancora il tutto con il burro. Poi s’inforna a 200° circa per venti minuti, dopodiché si giudicherà la cottura che non sempre può presentarsi uguale in tutti i forni. Generalmente sono necessari trenta minuti. Appena sfornato, aiutandosi con la carta da forno, si depone lo strudel su una superficie fresca (tavolo o tagliere) e lo si spolvera abbondantemente di zucchero vanigliato.

Lo strudel si può gustare anche tiepido, ma i buongustai lo preferiscono il giorno dopo.

 

 

Mia variante (come tutte le aggiunte in rosso): “Se ci si aiuta con la tovaglia si può acciambellare lo strudel e poi farlo rovesciare nel tegame. Lo strudel a ciambella risulta più gustoso di quello dritto a rettangolo, perché gli aromi nella cottura vanno da un lato all’altro e si potenziano in tutti i punti”.

Anch'io infatti sono abile cuoca di strudel (per tradizione dalla famiglia triestina di mio padre, che mia madre, emiliana, rielaborò: quindi la mia versione è  meno meticolosa e più veloce di quella di Corinna). Però uno dei più grandi successi della mia vita è stato quando…: al Gruppo Scout di Nervi dove “militavano” i miei figli,si organizzò una vendita benefica di torte ai Parchi. Cucinai due strudel che i figli portarono là al mattino presto e quando, dopo circa due ore, andai per mangiarmi una fetta dei miei due strudel, erano entrambi già stati spazzolati via voracemente. I miei due strudel erano stati i più venduti e non ne restava più traccia.

 

 

                           

 

                         Mauro Covacich

                  La città Interiore

                 

Questo libro riguarda una Trieste ormai perduta con personaggi che vi vissero tra gli anni trenta e i novanta del Novecento, dove nacque l’autore il 6 aprile del 1965. Attraverso le sue parole di triestino, che lì ha le sue radici e lì ha studiato all’Università la Filosofia (bellissima disciplina che insegna a ragionare) ho potuto ri-assaporare la mia città da un’angolazione diversa da quella con cui ero abituata a pensarla. Sono nata a Trieste ma vi ho abitato solo dai miei quattro anni fino ai sei dell’inizio della prima elementare. Ho in cuore mio fratello con qualche anno più di me sul treno che ci strappava dalla nostra città mentre guardando fuori dal finestrino cantava nostalgico “due rose in un pittèr, un vecio fogolar, no esisti un altro paradiso al par de ti…"

Per questo “amo” il libro di Covacich che mi è stato regalato da una profuga istriana ed ora ne scrivo, pur non amando l’editrice La nave di Teseo, in quanto mi sembra pubblichi “gli amici degli amici...".

Ricordo una Bompiani dove c’era un ottimo signor Accame (non ne ricordo il nome pur se c'è nella lettera che m'inviò per dirmi che aveva ben apprezzato il manoscritto che gli mandai per pubblicazione e questo per la sensibilità e l’intelligenza che rivelava il mio scritto ma ciò che ostava alla pubblicazione era che allora  io non fossi una “firma”. Riprovai con Elisabetta Sgarbi che ne era diventata direttrice ma non potei nemmeno parlarle. Un’efficiente segretaria asseriva che non bisognava "disturbarla" come se due parole fossero “inqualificabile disturbo”. Quanto birignao…

Ora recensisco La città interiore.

Per far capire il contenuto del libro ripropongo frasi della quarta di copertina che ne spiega la motivazione.

 

                                    Recensione

 

-4 maggio 1945: un bambino trasporta una sedie tra le macerie di Trieste, liberata dai nazifascismi. Sta andando al comando alleato dove è suo padre sotto interrogatorio e la sedia, appartenuta a Bottai, potrebbe scagionarlo.

-5 agosto 1945: I terroristi di settembre nero hanno fatto saltare tre cisterne di petrolio. Un bambino, tra le gambe del padre (=il bambino che trascinava la sedia ventisette anni prima nella città liberata, contemplando dalle alture carsiche, la colonna di fumo, gli chiede: “Papà, siamo in guerra?”

Perché la sedia potrebbe scagionare il nonno Marcello Covacich? Gliela regalò il gerarca fascista  Giuseppe Bottai e sotto il sedile c'è una targhetta con questa dedica: "Anno XIV dell'ERA Fascista all'indomito avversario MC, l'onore delle armi".

Chi interroga Marcello presso l'ufficio del comando alleato a Trieste gli pone un fuoco di fila di domande: "dove ha imparato l'inglese che parla così bene? E' sloveno? È comunista? Perché non va da loro, cioè dagli sloveni?"

Orgogliose le risposte: "Sono nato a Divača a circa quindici chilometri da Trieste, sono italiano, ho fatto il servizio militare con gli austriaci, parlo l'inglese perché ho lavorato sui mercantili e poi sulle navi passeggeri, sono comunista. Andare dagli slavi?, ma Voi sapete benissimo che Tito ha spedito i comunisti italiani a riparare le strade di Lubiana pur di non averli tra i piedi a Trieste".

Quindi un colpo di teatro, uno dei primi cui ci abitua l'autore: chi interroga è James Morris che arrivò a Trieste da capitano con le Forze Alleate e mantenne  il nome James fino al 1972 benché già da otto anni avesse iniziato il calvario chirurgico per la completa trasformazione in donna...

Il primo intervento nel 1964 in una clinica di Marrakech perché i medici britannici si rifiutavano di farlo finché non avesse divorziato dalla moglie Elisabeth da cui -tra l'altro- aveva avuto cinque figli. Poi nel 2008 le due "donne" ottennero il divorzio quando cioè lo Stato garantì loro di riformare il rapporto attraverso l'istituto dell'unione civile.

Fantasia o realtà di questo incontro raccontato nel libro?

E' più che certo che l'autore conosce bene gli scritti di James, divenuto la donna Jan Morris, al punto che ne cita questi malinconici versi: "One day I'll grow up. I'll be a beautiful woman.../but for today I am a child".

Ma l'autore non sta a dormire su questa prima storia umana che è come la sigla dell'identità di Trieste, la stessa definita da Morris nel suo Trieste o del nessun luogo  e con parole sue: "iperborea e mediterranea, ma anche asburgica, italiana, slava, greca e profondamente ebraica... L'essenza di Trieste consiste proprio nella sua inafferrabilità… una città inconcepibile secondo etimologia: ‘concetto’  è cum-capere, prendere appropriarsi, possedere". Perciò l'autore afferma che nell'etimologia stessa risuonano "sia il possesso che la sua eco sessuale". Quindi Trieste è anche una città fisica, corporea, ma queste osservazioni dell'autore fan capire che ha studiato filosofia e gli piace "ragionare" come fosse cresciuto all'aurea scuola dei Sofisti, i filosofi e retori che più che certezze coltivavano dubbi dato per ogni cosa si possono tenere due discorsi, uno l'opposto dell'altro, ma altrettanto validi entrambi.

 Ecco parole di un altro triestino, Scipio Slataper, da Il mio Carso:

«Vorrei dirvi: Sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C’era un cane spellacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga,e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.

«Vorrei dirvi : Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D’inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i Iupi. Mamma m’infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.

«Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicchiavo

terrosa. Poi sono venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male.

«Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano..."

Sono parole riportate in quel mitico libro della mia adolescenza Autoritratto Triestino di Alberto Spaini (1963, Giordano Editore). Quel libro che mi mise tra le mani il libraio della Di Stefano di Piazza Dante a Genova- Reparto "ragazzi"  e a lui si rivolgeva sempre mio padre chiedendogli quale libro potesse donarmi.

E alla fine di questo scritto riporterò passi dal Blog n.4 del 2008 con titolo Trieste e gli Slavi dell'amico triestino Giovanni Talleri che non è più dal 2010 e tali -Amici! -divennero per me lui e la moglie e la figlia. Passi che riguardano la storia di Trieste così ignorata dai più.

Talleri ci ricorda che a Trieste Napoleone aveva favorito le scuole italiane (è con lui che nasce il tricolore, la bandiera d'Italia) ed aveva chiuso quelle austriache, ciò che aveva indotto Vienna, dopo la vittoria, a chiudere quelle italiane e favorire in tutti i campi gli Sloveni.

Quanto s'ignora la Storia!, ma uno scrittore del nostro tempo, non potrebbe riproporla nei tanti dettagli o almeno nelle grandi linee senza risultare noioso alla nostra odierna superficialità. Fa bene perciò Covacich a darci qualche notizia, ma qui e là e in modo stringato, a darci solo spizzichi di Storia che ci possono servire e che servono a comprendere le sue radici e gli uomini che vissero gli anni di suo nonno e suo padre.

Ci sono in queste prime pagine il ricordo dei suoi studi universitari, gli anni più lieti pur se a suo padre alla bocciofila chiedevano. "A cossa servi la filosofia?"

I frequentatori erano ferrovieri, autisti di autobus, i classici buontemponi da dopolavoro. Ma per lui andare all'Università è stato: per prima cosa far colazione con le  fette biscottate già imburrate, il kiwi tagliato a fette, le piccole carezze di mamma; per seconda andar a sentire Gian Franco Gianotti che parlava degli stoici, o Cristina Benussi che parlava di Calvino, o Claudio Magris che parlava di Kafka. Per per Kafka scansò l'esame (e ne fu felice) ma ripara verso di lui nell'episodio della bambola che racconta in questo sorprendente libro.

Eccola: Kafka è ai suoi ultimi mesi con l'esofago compromesso per cui si nutre solo di uva, ananas e birra. Vive con Dora a Berlino bel quartiere di Steligtz, il cui giardino botanico è la meta della loro passeggiata pomeridiana.

(Notate la cura di tutti questi particolari che ci portano a vedere i personaggi e le loro azioni come fossimo con loro in uno stesso quadro!).

Kafka vede una bimba in lacrime e le chiede perché. Lei risponde che ha perso la bambola e lui, ormai di lungo corso nel saper raccontare storie: "no, che non l'hai persa. La tua bambola è andata a fare un viaggio, me lo ha detto lei perché te lo riferisca. Mi scriverà una lettera per te, mi ha detto proprio così".

Tornato a casa Kafka, come racconta Dora, si mette subito a scrivere la lettera perché "deve aiutare la bambina a salvarsi dal dolore della mancanza. Oggi si direbbe ‘elaborare il lutto’ ma in fondo vuol dire ‘mettersi in salvo’, ‘salvarsi’.”

Tenerissimo episodio che ci spiega l'arte di narrare di Covacich. Dal semplice particolare risale fino ad una verità universale, filosofica.

Torno all'essenza di Trieste, da cui l'autore è partito con James-Jan Morris perché Covacich la definisce anche così: "Trieste assomiglia a Città del Capo. Anche noi eravamo neri e bianchi. I neri erano gli sloveni, che si sono adeguati a parlare la lingua dei dominatori”. Conclude, dopo brevi ma penetranti riferimenti all'artista William Kentridge che ha dedicato a Zeno di Svevo una serie di disegni esposti al Moma di New York: "noi e voi, affini, perché siamo tutti cresciuti nell'odio...Le nostre storie sono identiche ‘odio con una modica dose di mixité’.”

“Ma Trieste assomiglia anche a Montréal. Speak white, parla bianco, dicevano sprezzanti nel Québec i canadesi di lingua inglese contro coloro che si esprimevano in francese nei luoghi pubblici. Laggiù i neri erano francesi, da noi sloveni. E Gerusalemme, e Beirut, e Belfast? Sono città che senza il merito di nessuno sono riuscite a trasformare l'odio in una forma di convivenza dove si parla bianco".

Sono pensieri profondi, colti e senza il peso di una storia da manuali, zeppa di date e fatti.

E ancora voglio riprendere dal già ricordato Spaini come inizia il capitolo "Cos'era la Triestinità" (e siamo a p. 29 del libro): "C'erano greci e armeni e turchi a Trieste, c'erano siciliani e maltesi, c'erano tedeschi e slavi e ungheresi (e quando si dice slavi bisogna distinguere fra sloveni e croati, e poi gli czechi, diversissimi, venuti dalla lontana Boemia; c'erano con i siciliani, italiani di tutte le regioni e inglesi e egiziani..."

Detto così sembrerebbe "una Babele dove - sigla ancora Spaini - al contrario dell'antica, in mille idiomi diversi tutti si intendevano benissimo.  Invece non è vero nemmeno questo... Tutti parlavano triestino (cioè un idioma unico, una lingua comune che avevano adottato nella città che li aveva adottati) ed è questo irripetibile sentimento di comunanza che chi ha dovuto lasciare le nostre terre e Trieste in particolare per andare in Italia nel tempo lo ha fatto sentire "un italiano sbagliato" come disse di sé Quarantotti Gambini.

Questo dolentissimo senso di non appartenenza riaffiora nell'ultima pagina del mio amato - perché grande educatore - Spaini: "Quando ci  scandalizzava e ci addolorava la sorte dei greci di Smirne, mai avremmo pensato che un giorno la stessa sorte sarebbe capitata agli italiani della Venezia Giulia...

“A un certo momento partono tutti, per i motivi più futili. Anzi la loro vita con i suoi grandi e piccoli drammi continua, ed in essi quello dell'esodo s'intreccia.

A volte partono per liberarsi di un male che hanno dentro. E quando sono venuti di qua la sofferenza insiste, più sorda, e non soffrono perché sono partiti, ma perché non ne sanno trovare la ragione.

E' una situazione in margine quella del profugo, come quella del passeggero di una nave che affonda, eppure in lui la vita continua. E’ un aspetto misterioso del mondo moderno, e non si comprende se non si ricorda quello che - a noi di Trieste - avveniva cinquant'anni fa".

Anche Covacich parla dell'esodo: "Quattrocentomila persone, boat people ante litteram, approdate a Trieste e da lì distribuite nei campi profughi dell'intera penisola. In Istria restano meno di ventimila italiani".

Covacich ricostruisce l'esodo attraverso queste parole da Materada di Fulvio Tomizza che fa dire al protagonista istriano del romanzo: "Qui da noi sono venuti tutti, dapprima gli austriaci, poi gli italiani, dopo i tedeschi, infine siete venuti voialtri. Tutti se ne sono andati ed erano più forti di voi. Io stesso ho visto cadere prima l'aquila, poi il fascio e la croce uncinata. Perché un giorno non dovrebbe cadere anche la falce e il martello?"

Materada - conclude Covacich - racconta quanto sia lontana Trieste per il protagonista, la sua famiglia e tutti coloro che hanno caricato sul carro "un sacco di piccole cose che non servivano a niente" nella speranza di portare con sé la vita. E invece la vita è rimasta qui, strappata via dal loro corpo che si rimpiccioliva all'orizzonte".

Sono storie di uomini come quella che irrompe già a p. 34 delle 229 che costituiscono il libro (e notate come già per Spaini è fin dalla prime pagine- in entrambi le prime trenta- che il libro si connota nella sua essenza).

Ecco dunque in Covacich la storia di Antonio Bibalo, il compositore triestino che ha rivoluzionato la musica scandinava "uomo bandiera dell'Europa”. Forse individuo meno nobile di Spinelli e degli autori del Manifesto di Ventotene, eppure con una storia che andrebbe imparata a memoria nelle scuole, fatta risuonare nelle aree ricreatrici del Parlamento di Strasburgo, tradotta nelle lingue di 27 Paesi.

Con quello spiccato senso teatrale che abbiamo imparato a riconoscere in Covacich la storia ci viene da lui presentata in scene.

1) – 1943 - Bibalo è un soldato detenuto nel carcere di Peschiera ma arrivano i tedeschi, lo liberano e lo arruolano. Mentre i giovani italiani sono divisi tra resistenti e repubblichini, lui indossa la divisa della Wehrmacht.

2)- 1944- battaglia di Montecassino: trova un bambino, Bubi, tra le macerie. Piange senza gambe. Per pietà gli spara ma ne resterà ossessionato per la vita. Tra quelle macerie trova anche in una casa un pianoforte abbandonato e si mette a suonare Schubert, Sonata n.22.  Lo sorprendono quattro negroni che lo applaudono, poi lo arrestano. Finisce in un carcere dell'Alabama. Sceglie di essere lì uno "straniero", perché non si trova a suo agio con gli italiani, calabresi e napoletani di cui non capisce nemmeno come parlano. Sta con i tedeschi con cui si è trovato bene.

3) - 1946 - si è appena diplomato con lode al conservatorio Tartini: si esibisce a Trieste  con un repertorio di nuova musica jugoslava come gli hanno suggerito gli organizzatori del concerto. Il giorno dopo Il “Giornale Alleato” titola: "Bibalo traditore" stroncandogli la carriera in città.

4)- Ancora a Trieste, vive in una stanzetta che la madre ha concesso a lui e alla moglie, la quale però se la sta spassando con gli americani che sono in città.

(Ho letto la stessa cosa della prima moglie di un altro scrittore triestino: si vede che le triestine avevano fame di soldi e di bella vita ma fu lo stesso in altre parti d'Italia. E triestine o no, si vede che le donne si dividono sempre in due categorie: le oneste e le altre. Oppure: oggi tante donne sono indipendenti e se capitasse qualche altra sventura del genere non so se si adatterebbero a far le "mantenute". Forse l'indipendenza le ha portate avanti, riscattate, ma bisognerebbe constatarla sul campo e speriamo non succeda).

In quella Trieste ormai per lui così amara, Bibalo dice alla madre: "sono senza sigarette", esce e sale sul treno che va a Ventimiglia. In Francia, a Marsiglia, lo arrestano, poi liberato è avvicinato da un soldato della Legion straniera e vi si arruola. Lì viene assegnato alla compagnie de musique per suonare al circolo ufficiali. “Può essere - ipotizza Covacich - che ad Addis Abeba Bibalo abbia conosciuto Bottai, allora solo sergente ma che doveva aver accesso al circolo ufficiali. (Non ci viene spiegato cosa succeda e se l'incontro ci sia stato ed abbia prodotto qualcosa di buono. Interessante questo Bottai, quello stesso della sedia...)

5) - C'è una coppia di londinesi in crociera sul Toscana, piroscafo del Lloyd Triestino che fa la spola  tra Mediterraneo ed Australia: Bibalo vi lavora suonando al pianoforte. La coppia lo invita a Londra e dopo un paio di mesi  lui è al Trinity College a studiare composizione e diventa un compositore di fama.

6)-  E sesta scena – ma non è ancora la vera sesta scena come ci avverte l'autore-  Bibalo  arriva a Larvik un paesino dei fiordi meridionali della Norvegia con al compagna Grete, artista danese che lo ha convinto al viaggio perché in Scandinavia esistono sussidi a progetto per i giovani artisti. Ha una casetta di legno, a strapiombo sul mare e lì prova "l'amore per una terra non sua".

Sesta scena - la vera -: Bibalo incontra Henry Miller.

 A Larvik in un "pub"  un amico pittore ha dato a Bibalo Il Sorriso ai piedi di una scala, un racconto minore di Miller che illustra il calvario di un clown dotatissimo e incompreso.

(Non sarà che un po' Covacich s'innamori anche lui di questo clown proprio per tali caratteristiche che accomunano gli scrittori di storie, i più dotati? Non a caso Alda Merini diceva “non se esistono le ali delle farfalle, ma è la polvere che fa volare”)

Bibalo si è innamorato del clown e scrive una lettera a Miller. Questi, ormai settantenne, dà i diritti d'autore al musicista di cui prima non ha mai sentito parlare.

-6 aprile 1965 (ed è il giorno della nascita di Covacich, quindi pare ci sia una sorta di trasmigrazione di anime da Bibalo a Miller a lui, così almeno pare a me): Il Sorriso ai piedi della scala debutta  alla Staatsoper di Amburgo –un grande successo!  Bibalo è ancora sconosciuto e ci si interroga se esista davvero. Però ormai è "scoperto", "acclamato come uno dei maestri del Novecento in tutto il Nord Europa”.

Per inciso:iIn Italia le sue opere non saranno quasi mai eseguite e nei quattro volumi dell'Enciclopedia Ricordi (Bibbia musicale) non gli viene dedicata neanche una riga. (Anche questa è la pena della triestinità, l’essere sempre stranieri in patria).

Nel 2001 il sindaco consegna a Bibalo, a Trieste, il San Giusto d'oro ma fruga tra gli appunti perché non sa cosa dire di lui.

“Forse – poteva dire- che Bibalo è stato il “clown incompreso” ma che la sua fama europea è dovuta non solo all’innegabile talento, ma anche “a quella roccia carsica” che aveva in animo e che mai gli permise di franare”.

Questa è una mia considerazione, ma la sintesi che ho tratto dalle pagine che Covacich dedica alla storia non ha la sua grazia narrativa, che la fa digerire nella complessità, anzi la fa assaporare e fa venir voglia di centellinarla. Un esempio delle tante storie e dei tanti personaggi, umili o colti che ricorrono nel libro. Volevo fin contarli per verificare quanti sono, però entrano ed escono come dalle quinte di un grande Teatro senza annoiare e testimoniano che Trieste è stata una città colta, animata da tanti protagonisti.

E tra i protagonisti umili di Covacich metto anche la sua nonna, la moglie del nonno paterno. Donna di Muro Lucano, donna in pantaloni e fumatrice, donna che scriveva i suoi pensieri in una piccola agenda delle Assicurazioni Generali.  L'autore dice che ha fatto un'opera di pornografia nel pubblicarli perché ha voluto editare nel 2011 quei pensieri dell'agenda. Ma ci sono da parte sua due pagine deliziose, d'amore vero per questa donna orgogliosa. In esse inizia ogni paragrafo con un “Lei che...” .

Lei che mi mette a scaldare i vestiti sulla stufa; Lei che fa un piccolo segno sul pandispagna per sistemare meglio i due strati; Lei che mi cede il quadernetto dei conti; Lei che esercita da parrucchiera nel bagno di casa.

Commenta con simpatia da nipote del tutto innamorato di Lei: "Nessuno sa dove abbia imparato. In collegio non t'insegnano certo a fare la parrucchiera, il mestiere delle traviate per eccellenza". Lei, detta la “taliana”, con la “i” cherimane mangiata nella pronuncia: e “italiani” sono i meridionali, ma anche i veneti o i milanesi, in fondo “italiani” sono tutti coloro che stanno a ovest di Monfalcone.

Il nipotino Covacich aveva nove anni quando parlava con questa sua amata nonna. La ricorda con i gomiti sul davanzale, lo sguardo sulle “picchiate folli delle rondini nelle sere d'estate” e da quell'agendina verde riporto - per concludere - questo pensiero di Lei: “Trieste, 20 -5- 1948. Oggi il mio bambino appreso da suo padre molte legante mià fatto molta compassione e ò pianto tutto il giorno".

Finisco con un'immagine del "mio” castello di Sam Giusto quando ancora c'era quella splendida vite vergine rossa d'autunno che però smangiava i muri causa umidità e quindi fu tagliata. Che nostalgia della "mia" vite vergine  e come vorrei che qualcuno dei miei sei nipoti un giorno mi ricordasse così come è stata ricordata nonna Lisetta, con così tanto amore.

        

 

 

NOTE

1)Mio padre e il libro. Il regalo per mio padre era sempre un libro (stava con un libro in mano quando il dentista doveva togliere a me o a mio fratello Ferruccio qualche dente, stava ritto proprio davanti a noi in quel "frangente doloroso"). A mio padre devo la collezione di tutti i classici Utet, Italiani, Latini, Greci e Stranieri e il Grande Dizionario Enciclopedico e il Grande Dizionario della Lingua Italiana (in XXI Volumi) che poi in qualche modo pensando alla fine della vita dovrò collocare (:sono diventati come figli pur se non li ho letti tutti e abbastanza. Me ne vergogno. Povero papà mio se sapesse quanto poco li ho frequentati e quanti sacrifici devono essere costati a lui!)

2) Dal Blog di Giovanni Talleri, che è anche autore di un libro importante e controcorrente come è sempre stato lui

Una corsa nel tempo- Storia del confine orientale di Trieste(2004,LintEditoriale)

 

3)    Mauro Covacich è autore di La sposa (2014 finalista allo Strega) e di romanzi tutti pubblicati da La nave di Teseo: i tre che compongono il ciclo delle stelle “A perdifiato (2003), Fiona (2005), Prima di sparire (2008)”, poi A nome tuo (2011),La città interiore (2017, finalista al Premio Campiello). Di che è questo cuore (2019). Nel 1999 l’Università di Vienna gli ha conferito l’Abraham Woursell Prize.

 

 

                                 Oliver Sachs

                     e il Parkinson

 

 E’ grazie ad alcuni scritti di questo neurologo che ho meglio capito questa malattia da cui mia madre fu affetta per 25 anni fino alla morte ad 83 anni.

              

 

Ida Ragaglia Bressani, mia madre a 19 anni, alla Festa dell’Uva a Bobbio. Mio padre le acquistò l’intero cestino d’uva e nacque la loro storia d’amore, durata 56 anni. Fu afflitta dal Morbo di Parkinson per 25 anni, visse quasi fino a 83 e papà, che l’assisteva senza delegare a nessuno, la precedette di cinque anni.

E questo è il libro delle loro 1000 lettere (1937-1945), da me donate all’Archivio di Pieve Santo Stefano (AR). Le lettere datano dal loro innamoramento a Bobbio fino alla prigionia a Saida in Algeria di mio padre, il triestino capitano Edgardo Bressani.

L’epistolario corredato da miei piccoli quadretti storici per far capire la situazione di quel tempo, è stato tra i dieci finalisti a Pieve Santo Stefano, appunto al Premio dei Diari, nel 2002, con titolo scelto dalla Giuria e tratto da una frase di una lettera di papà a mamma: “Tu sei per me l’aria che respiro”.

Poi è stato pubblicato  con la Lint editoriale triestina ed è giunto alla seconda edizione nella seconda copertina che avrei voluto nei colori della sabbia del deserto.

                 

 

 

                                   OLIVER SACKS

                  IL FIUME DELLA COSCIENZA

                   

Nel risvolto di copertina si precisa che questa raccolta di scritti, rimasta sulla scrivania dell'Autore fino a due settimane prima della sua morte, ben rappresenta i suoi interessi: botanica, anatomia animale, chimica, storia della scienza, filosofia, psicologia. Ha avuto anche passione letteraria, diventando scrittore di testi singolari e illuminanti.

Sacks considerava suoi maestri: Charles Darwin, Willliam James, Sigmund Freud.

A farla breve ho molto caro  il suo L'isola dei senza colore, dove nella seconda parte parla di Guam, la più meridionale delle Marianne, nella Micronesia (Pacifico Occidentale). Durante la II Guerra Mondiale fu importante  per la sua posizione strategica tra Usa ed Asia e nel  Pacific National Historical Park  si trova Alan Beach che un tempo fu teatro di battaglia. Guam è stata protagonista di recenti tensioni tra Usa e Corea del Nord. Per la Storia, conquistata prima dagli spagnoli e poi dagli Stati Uniti, nella II Guerra mondiale fu attaccata dai giapponesi, tornò poi in mano agli americani, che nel 1950 la dichiararono “Territorio non incorporato”.

L'isola è anche nota per una forma di sclerosi laterale amiotrofica, la “Lytico-bodig disease” che si diffuse dopo la II Guerra Mondiale quando gli abitanti attuarono una caccia incontrollata alle volpi volanti, specie di pipistrelli, per cibarsene. (Vi siete mai chiesti perché fino alla leggenda di Dracula Vampiro ad ora del Coronavirus che sarebbe passato da un pipistrello all’uomo, questi godano così cattiva fama?). Le volpi volanti, simil-pipistrelli si cibavano di frutti delle Cicadee contenenti amminoacidi degenerati e attraverso loro si diffuse la cosiddetta demenza di Guam.

Sacks si chiese se la malattia fosse in relazione con il morbo di Parkinson. Si recò nell'isola e vide moltissime persone handicappate nell'andatura, che si bloccavano di colpo come per il freezing  caratteristico del Parkinson, Morbo anche definito "Disordini del Movimento".

Per il Parkinson ad ora s'ignora la causa  messa in relazione proprio a Guam con qualcosa conseguente alla guerra come i residui delle bombe, altrove con i pesticidi o altro.

Una prima descrizione del Morbo è in un testo di medicina indiana con riferimento al 5000 a.C., un'altra è in un documento cinese risalente a 2500 anni or sono. Il nome deriva da James Parkinson, un farmacista e chirurgo londinese del XIX secolo, che ne descrisse i sintomi nel suo Trattato sulla paralisi agitante.

Nel rileggere Il Fiume della Coscienza, mi accorgo che Sacks vi parla anche del Morbo di Parkinson (il tema che più avevo focalizzato al tempo della malattia della mia mamma) però il libro è molto più vario e nasce, a fine della sua vita, anche come un bilancio professionale e come un ringraziamento a suoi tre maestri, perché tali li considera e di cui ripeto i nomi: Charles Darwin, William James, Sigmund Freud.

-Darwin e una riflessione che gli dedica il figlio Francis: "Uno dei più grandi servizi resi da mio padre allo studio della storia naturale è il risveglio della teolologia", cioè la dottrina filosofica del finalismo. Di rincalzo a lui Sacks osserva: "Si dice che Dio sta nei dettagli, ma per Darwin non era Dio quanto piuttosto la Selezione Naturale che, agendo nel corso di milioni di anni, risplendeva dai dettagli - inintellegibili e privi di senso a meno che non li si considerasse alla luce della storia dell'evoluzione-". Ci dice ancora Sacks che proprio la teoria evolutiva gli fece vedere il mondo come una superficie trasparente attraverso la quale era visibile l'intera storia della vita. "A glorius accident" come la definì Stephen Jay Gould: non fissata o predeterminata ma sempre suscettibile di cambiamento e di nuove esperienze.

Una mia riflessione: Ciò non significa negare Dio perché portando il discorso ad una dimensione non solo terrestre, si potrebbe identificare l'evoluzione con Dio stesso e Dio come Coscienza dell'evoluzione.

Sacks ama così tanto i suoi maestri che non manca di approfondirne aspetti della vita, non cessa mai di cercare l'uomo,  radice dello scienziato. Di Darwin ci ricorda che al ritorno dalle Galápagos fu invalido per 40 anni e, a volte, trascorreva giornate vomitando, confinato sul divano, in vecchiaia ebbe anche problemi cardiaci". Però continuò ad essere intellettualmente pieno di energia e dopo le Origini scrisse altri dieci libri. Non solo, negli anni Cinquanta  aveva messo al lavoro cinque dei suoi figli facendo loro tracciare le rotte di volo dei maschi dei bombi (insetti imenettori che  come le api raccolgono  nettare e polline per nutrire i loro piccoli): a interessarlo era il modo in cui le angiosperme si erano adattate così da servirsi degli insetti per la fecondazione. Darwin era cresciuto in una famiglia di botanici ma Sacks stesso ha avuto una maestra di botanica, proprio in casa, nella madre. Questa indicandogli le magnolie del loro giardino gli spiegò  che erano tra le angiosperme più antiche comparse circa cento milioni di anni or sono e che per l'impollinazione si erano affidate ad un insetto più antico delle api (che non erano ancora insetti evoluti) cioè ad un coleottero. Infatti quando il fiore della magnolia inizia ad invecchiare al suo centro si vedono tutti quei minuscoli puntini neri che sono coleotteri.

Darwin,  da studente universitario a Cambridge, seguiva regolarmente solo le lezioni di un botanico, J.S. Henslow. Fu questo suo professore a raccomandarlo per l'incarico sul Beagle ( brigantino che lo porta in viaggio alle Galápagos dove raccoglie gli oltre 200 esemplari di piante che diventano "la collezione naturalistica di organismi viventi più importante di tutta la storia della scienza").

                          

      (ecco un acquarello del 1841 dello storico brigantino della Royal Navy)

Concludo su Darwin -attraverso Sacks- con il ricordo dell'Albero della Vita che tracciò nel 1837 in uno dei suoi taccuini asserendo: “Dall'albero si deduce che gli esseri umani sono tutti imparentati tra loro, con le antropomorfe (cioè le scimmie),   con gli altri animali e anche con le piante (oggi infatti sappiamo che piante e animali condividono il settanta per cento del loro Dna). E sappiamo che la variazione è il grande motore della selezione naturale.

-William James, (psicologo e filosofo statunitense di origine irlandese, 1842-1910), autore dei Principi di Psicologia affascinò Sacks con la sua indagine sulla percezione del  tempo.

Gli riporta alla mente quando da bambino detestava la scuola a causa d’insegnanti soporiferi per cui continuava a guardare l'orologio e le lancette sembravano lentissime, mentre quando entrava nel piccolo laboratorio chimico allestito in casa, si accorgeva che s’era fatta sera quando non riusciva più a distinguere bene gli oggetti.

Da qui, con un salto "acrobatico”, ci porta nelle esperienze pre-morte, cioè nella percezione del tempo di persone minacciate da un pericolo mortale che poi hanno narrato la loro esperienza. In pochi attimi il tempo si dilata e in molti casi si ha una fulminea rivisitazione di tutto il proprio passato.

"Queste esperienze di quasi-morte sono contraddistinte da un sensazione d'impotenza e passività, ma anche da un'impressionante accelerazione del pensiero e della reattività che consente talvolta di superare il pericolo".

Per William James  esempi di distacco dal tempo normale sono forniti dall'uso di droghe. Nella Parigi degli anni quaranta queste erano in voga tra artisti come Gautier, Baudelaire, Balzac e il medico Moreau. E la distorsione del tempo è ben rappresentata dall'aneddoto di due hippy che seduti al Golden Gate Park si sono fatti una canna di hashish. Passa un jet sulle loro teste e uno dice all'altro: "Cavolo, pensavo che non se ne sarebbe più andato".

Considerate l’arte del narrare: lo scrittore si serve di aneddoti per chiarire il pensiero dello scienziato.

Allo stesso modo in alcune crisi epilettiche, dette anche ‘esperienziali’, un ricordo o un'allucinazione si dilata, come fosse un tempo lunghissimo e fin con un significato metafisico. Dostoevskij nei Demoni scrisse: "Ci sono dei secondi e non ne vengono che a cinque o sei per volta, in cui sentite la presenza di un'armonia eterna, compiutamente raggiunta... In quei cinque secondi io vivo una vita e per essi darei tutta la mia vita, perché vale la spesa". Ma questo non è forse anche il significato dell'estasi e quindi dell'aver trovato Dio, magari un Dio diverso da quello che ci raccontano i sacri testi, ma pur sempre qualcosa d'infinitamente alto ed universale che ci trascende? Cui l’uomo tende perché ne ha fame e sete, perché lo sente come fine ultimo?

Sacks però, da scienziato, ci parla di interazioni tra gruppi neuronali nella corteccia cerebrale, i quali gruppi - decine o centinaia di migliaia - costituiscono il correlato neuronale della coscienza. Attraverso questi processi prendono il volo anche i Sogni, mentre sostanze come farmaci o droghe ad azione depressiva, come gli oppiacei e i barbiturici, hanno l'effetto opposto e producono un'inibizione del pensiero e del movimento. E qui entra nel momento del suo lavoro che lo portò a scrivere Risvegli da cui fu tratto anche  l’omonimo film del 1990 con interpeti Robin Williams e Robert De Niro.

Di Williams, che morì suicida, scrive: “Le sue raffiche di associazioni e battute esplosive e incandescenti sembrano decollare e sfrecciare alla velocità di un razzo. Eppure qui abbiamo presumibilmente a che fare  non con la velocità di singole cellule nervose e di semplici circuiti, ma con reti neurali di ordine decisamente superiore, che vanno oltre la complessità del più grande supercomputer…D’altra parte noi esseri umani – anche i più fulminei tra noi – siamo limitati, nella velocità, da fondamentali  determinanti neurali, cellule con frequenza di scarica limitata…” Robin William gli sarebbe grato per esser così magnificamente ricordato, però le condizioni di superiorità mentale sono anche quelle di una solitudine che può uccidere.

Sacks  nel 1966 andò a lavorare al Beth Abraham, un ospedale del Bronx con persone con patologie croniche: tutti pazienti sopravvissuti alla grande pandemia di encefalite letargica che dilagò in tutto il mondo negli anni tra il 1917 e il 18.

Dei milioni che contrassero questa malattia del sonno, circa un terzo morì negli stadi acuti, alcuni sopravvissuti svilupparono poi una forma estrema di parkinsonismo che li aveva rallentati o perfino pietrificati per decenni". Nel Parkinson comune, la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per la normalità di movimenti e pensiero, si riduce anche al  15%, ma nel parkinsonismo postencefalico  i livelli di dopamina sono quasi impossibili da rilevare.

Nel 1969 avvia su quei pazienti la sperimentazione  della L-dopa capace di elevare i livelli di dopamina. Al principio il trattamento ripristinò una velocità e una libertà di movimento normali, ma dopo cinque giorni di L-dopa una paziente Hester Y. mostrò una tale accelerazione del movimento e del parlare che sembrava un film accelerato (come se il proiettore girasse troppo in fretta). Una volta chiese ai suoi allievi di giocare a palla con lei e Hester rimandava la palla a tale velocità che colpiva le  mani degli studenti ancora aperte nel lancio.

Freud è stato uno dei tre maestri che Sacks riconosce all'origine dei suoi studi e di tanti approfondimenti: e – da subito - annota che si conosce Freud come padre della psicanalisi ma nei suoi primi vent'anni di studi (1876/96) fu neurologo ed anatomista.

Freud soffriva di emicrania classica e nel suo studio di neurologo visitò molti pazienti con lo stesso problema. Pensò fin di scrivere un libro su questo tema e poi si limitò a fissarlo in “Dieci Punti Assodati” che inviò al suo amico  Wilhelm Fliess nel 1895 e definì l’emicrania come "un'economia della forza nervosa" un qualcosa capace di far vedere lucidamente un progetto che poi si porterà a termine.

E lo dice sempre nella lettera all'amico Fliess: "In una laboriosa notte della scorsa settimana... io sono riuscito a penetrare con lo sguardo  dal più piccolo particolare delle nevrosi sino alle condizioni della coscienza. Ogni cosa al suo giusto posto...Naturalmente non sto più in me dalla contentezza".

Per associazione di idee, affezionata al mito greco (mi laureai in Greco a Lettere classiche) mi viene in mente l'emicrania di Zeus da cui esce Minerva la combattiva dea della Sapienza. Mi vien da pensare una volta di più a quanto sia antico il mondo e come il nostro pensiero si riproponga seppur in forme diverse ma da un'unica origine e come sia possibile rintracciarlo, mutatis mutandis, da tempi molto più antichi ad oggi.

Con Freud  entra nel concetto della "fallibilità della memoria" e lo fa ricordando un suo primo libro del 1997, Zio Tungsteno, in cui racconta un episodio del 1940/41, tempo di guerra a Londra dove viveva:  nel giardino vicino cadde una bomba di mezza tonnellata, senza esplodere. Quella notte tutta la famiglia se ne strisciò via in pigiama per andare nell'appartamento del cugino Walter. Ci fu anche un'altra occasione con un'altra bomba che cadde dietro casa. Suo padre intervenne con un piccolo estintore e i fratelli con secchi d'acqua. Scrisse entrambi gli episodi nel libro ma suo fratello Michael, con cui poi ne parlò, gli disse che all'epoca della seconda bomba erano entrambi a Braefield e ne avevano appreso solo da una lettera del fratello maggiore che Sacks aveva memorizzato come se  fosse stato presente.

Ricorda pure  che nel 1980 durante la campagna presidenziale Ronald Reagan raccontò la storia di un pilota che durante la II Guerra Mondiale ordinò all'equipaggio di lanciarsi con il paracadute dopo esser stati colpiti. Il giovane mitragliere era stato ferito così gravemente che non poteva farlo e il pilota gli disse: "Non importa, porteremo giù l'aereo insieme". Nel ricordare Reagan piangeva però la stampa si accorse che era una scena di A wing and a prayer, film del 1944.

Commenta Sacks: è sorprendente come alcuni dei nostri ricordi più vivi siano in realtà episodi mai accaduti e quindi ci fa esaminare il problema del plagio che può essere inconsapevole e come ciò possa essere una memoria ritentiva di fatti mai accaduti. Cita un libro del 1995 Frantumi in cui l'autore Binjamin Wilkominski, ebreo polacco, descrive gli anni dell'infanzia passati in un campo di concentramento. Gran successo editoriale, ma si scoprì  che il racconto era solo una re-invenzione romantica della sua infanzia, quale reazione all'abbandono da parte di sua madre, all'età di soli sette anni. Nella sua poliedrica cultura che spazia in diversi campi cita pure un film di Hitchcock, l'unico tratto da una storia vera, The wrong man, che fa emergere il tema dell'orientamento dei testimoni. Ricorda che dai processi alle streghe a Salem e dall'Inquisizione, passando per i processi sovietici degli anni Trenta, fino ad Abu Ghraib, abbiamo tutta un'ampia gamma di interrogatori estremi e fin di torture per estorcere confessioni religiose o politiche. E quindi ci ricorda come nel 1984 di Orwell,  il protagonista Winston finisca per tradire tutto ciò che rappresenta per lui vita ed ideali fino ad amare il Grande Fratello.

Uno dei capitoli che più mi ha affascinato è Il sé creativo partendo dalle prime esperienze dei bambini per concludere  che tutti prendiamo a prestito da altri e dalla cultura che è intorno a noi, ma il punto resta quello che si sa fare di ciò che è imitato o derivato, quanto profondamente lo si assimili rendendolo nostro.

Infine voglio concludere ancora con il Parkinson: nel suo libro Musicofilia racconta come un paziente parkinsoniano nel pieno di un blocco, ascoltando musica può riprendere a muoversi, perfino a ballare. I neurologi definiscono il parkinsonismo anche “una balbuzie cinetica” e il movimento normale come “melodia cinetica”.

Suggerisco di considerare questo pensiero riguardo la Coscienza: da una coscienza primaria, relativamente semplice (come la fuga di una animale quando ascolta un rumore che lo atterrisce, esperienza che da allora in poi assimila per difesa),  siamo passati con un “ gran balzo” alla Coscienza umana: comparsa del linguaggio, della consapevolezza di sé, di un senso esplicito del passato e del futuro.

L’ultimo gradino che Sacks non include, ma è pur tanto evidente, quel gran “balzo”, s’illumina nella tensione al cielo, nell’estasi descritta da Dostoewskij, che ci permette di vedere con chiarezza il progetto che era in noi, anche il progetto che ci riguarda nell’economia dell’evoluzione e dell’universo.

Splendido, sorprendente, coltissimo libro che in tanti ameranno se lo leggono!

Adelphi Edizioni, la prima nel 2107, la seconda nel 2018.

Altri libri di Sacks: Allucinazioni, Diario di Oaxaca, Emicrania, Gratitudine, In movimento, L’isola dei senza colore, L’occhio della mente, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Musicofilia, Risvegli, Su una gamba sola, Un antropologo su Marte,  Vedere Voci, Zio Tungsteno.

 

 

                         MARZIO PICCININI

                             PARKINSON

             IL TREMORE E LA SPERANZA

 

Il libro di Marzio Piccinini lo lessi giunto alla seconda edizione nel 1994: era stato pubblicato l'anno prima quando era morto mio padre di ictus, d cui fu colpito una volta che di notte accompagnava in bagno la mamma, malata di Parkinson. Caddero a terra: lei sopra di lui. Un amico bobbiese e una cugina sfondarono la porta di casa dato che i miei genitori non rispondevano alle telefonate con cui li chiamavo ripetutamente  fin dal mattino di quel 2 settembre 1993: anniversario del loro 56esimo anno di matrimonio. Poi la corsa all'ospedale.

Quando allertati ci precipitammo là, un medico di Bobbio, molto bravo  e stimato, mi disse: "Per sua madre niente di nuovo, ma per suo padre bisogna vedere cosa gli succede entro tre giorni, cioè se l'ictus replica pur se per ora è cosciente". Lo trasferimmo in ambulanza a Genova (mio padre mai e poi mai avrebbe voluto esser curato a Bobbio, era prevenuto forse per ricordi di un lontano passato di subito dopo la guerra e preferiva le grandi città). Papà la mattina del terzo giorno entrò in coma e morì un mese dopo proprio quando a me sembrava che rispondesse a ciò che gli dicevo. Il medico che lo assisteva disse: "Paradossalmente, dato che è in coma irreversibile, sembra che lei abbia ragione e invece..., aveva ragione la sua consolidata esperienza di casi simili".

Marzio Piccinini ha voluto descrivere nel libro gli esordi del suo Parkinson che lo colpì a 42 anni, quando aveva davanti ancora otto anni lavorativi per la laurea del figlio e dieci per finire di pagare il mutuo della casa.

Lo fa in modo scientifico e quindi anche se il Parkison si dice sia diverso per ogni paziente, questa sua descrizione progressiva dei sintomi aiuta molto chi si trova in una situazione simile  a  capire cosa succederà.

Ci sono un paio di riflessioni che possono interessare tutti i malati e i loro familiari. Il suo atteggiamento, prima della malattia, era sempre stato improntato al terrore per "un'infermità che ti costringa a dover dipendere dagli altri". Poi, dopo la prima degenza in ospedale (ed erano già passati alcuni anni dalla diagnosi), l’aver verificato de visu quanta gente molto più giovane di lui fosse colpita da mali inguaribili, però molti di essi vivevano con serenità la loro condizione. Fa osservare: "come non rimanere sconvolti davanti ad un giovane di vent'anni con un tumore non operabile? Oppure come non chiedersi il perché del dolore, quando passando vicino al reparto pediatrico, senti il pianto dei bambini?"

E anche: "Da allora si è acuita in me l'insofferenza per i malati immaginari e verso chi scambia un raffreddore per un malanno da fine del mondo".

Lui che alla prima diagnosi pensa: "dovrò..., farò", ha però  la buona sorte di trovare al suo fianco la moglie, con cui era sposato da 17 anni e che da subito imposta il discorso sul "cosa avrebbero dovuto fare insieme". In un secondo ricovero in ospedale (questi per i parkinsoniani si rendono talvolta necessari per meglio calibrare le terapie mediche), scoprirà condivisione, solidarietà, amicizia con altri sofferenti come lui e che, entrati nella malattia da più breve tempo, gli chiedono consiglio.

Ciò gli darà l'idea di mettere la sua esperienza lavorativa al servizio dell'AIP, l'associazione italiana che si occupa anche di organizzare convegni, di dar notizia dei ritrovati, di mettere in contatto tra loro i malati di Parkinson: entra così a far parte del suo Consiglio direttivo.

L'esordio di questa malattia è tardivo: in Italia si stima siano 230/250mila i malati, pari all'1-2% della popolazione, sopra i 60 anni e al 3-5% della popolazione sopra gli 85. E' la malattia neuro-degenerativa più diffusa dopo l'Alzheimer  e nella sua fase finale è spesso accompagnata da una degenerazione cognitiva simile a quella di questi malati. Talvolta però si manifesta anche precocemente, intorno ai 40 anni come nel caso di Piccinini: a degenerare è il sistema nervoso, preposto al controllo dei movimenti, dell'equilibrio e della deambulazione.

Sarebbe importantissima la diagnosi precoce, perché intervenendo il prima possibile con farmaci idonei se ne rallenta il decorso e soprattutto si tengono a bada bene i primi sintomi. Ciò spesso non avviene per alcuni motivi: i primi disturbi che procura vengono attribuiti ad altre cause, non solo dal paziente, ma anche da molti medici. (Quando arriva la diagnosi corretta, è difficile individuare l'inizio che può risalire anche a due anni prima). E quando il morbo è diagnosticato, alcuni pazienti si vergognano tanto da rinchiudersi in casa per evitare di esser visti tremare.

"Molte volte - come spiega Piccinini  non è il paziente a notare che qualcosa sta cambiando, ma qualcuno vicino a lui come coniuge, figli, colleghi di lavoro. La reazione dell'interessato è spesso di sorpresa, se non di fastidio".

Tra i cambiamenti: in posizione eretta il malato tiene spalle

curvate, il tronco piegato in avanti, le braccia leggermente flesse

sui gomiti, le ginocchia lievemente piegate. Da seduto s'inclina

lateralmente. Quando cammina non "pendola" le braccia.

L'autore - per farci capire come il malato inizialmente non riesca a dar peso ai sintomi (come è stato anche per lui, messo in guardia da un collega con cui si recava  a New York per viaggi commissionati dalla loro Ditta, il quale riuscì a convincerlo soprattutto facendogli notare come fosse diventato "lento" mentre lui teneva moltissimo ad essere più che efficiente proprio nel suo lavoro) - ci racconta questo episodio riguardante Cecil Todes. Questi si accorse di aver qualcosa al braccio sinistro per il malfunzionamento del suo orologio svizzero di precisione. Lo inviò a riparare più volte senza che si scoprisse causa alcuna, ma quando spostò l'orologio sul polso destro, esso riprese ad andare benissimo. Solo un anno dopo il braccio sinistro iniziò a dolergli come avesse dei reumatismi e di lì la scoperta di essere ammalato.

Piccinini descrive così le cause del morbo: "si sviluppa in seguito al danneggiamento di due zone del cervello chiamate Sostanza Nera e Striato. Le cellule della Sostanza Nera producono una sostanza chimica, la dopamina che agisce da messaggero chimico sulle cellule nervose dello Striato, portando informazioni fondamentali per il controllo dei movimenti, dell'equilibrio, della marcia e della postura del corpo. Il corpo umano è un sistema dotato di una centrale operativa: il cervello, che riceve segnali dall'esterno tramite sensori: vista, udito, tatto, ecc. Il cervello li elabora e trasmette i comandi agli organi di attuazione, cioè ai muscoli. Lo fa tramite una rete di connessione che sono i nervi. Quando la dopamina si riduce causa un guasto "operativo" della centrale, si verifica la morte delle cellule nervose della Sostanza Nera. Il sistema va in tilt e quando la perdita di cellule raggiunge l'80% iniziano a manifestarsi i primi sintomi del Morbo.

Piccinini dopo i rilievi di postura, camminata e lentezza che gli ha mosso il collega, a diagnosi ormai certa, inizia a soffrire di dolori e di un peggioramento progressivo della scrittura, quindi di difficoltà nel parlare e d'inespressività del volto.

Ma da uomo combattivo e anche motivato dai fini che vuole raggiungere per la famiglia e che non gli permettono d'interrompere così giovane il suo lavoro, e li raggiungerà, inizia la sua "sfida" alla malattia che comunque prosegue inesorabilmente e non si può arrestare. Però la si può vivere meglio e un poco rallentarla: la disciplina dei farmaci, la fisioterapia, la capacità di amministrarsi per stabilire pause di riposo, quindi la scoperta di un mondo di altri sofferenti come lui e di lì il servizio a loro con una rinnovata forza proprio attinta da loro.

Ho recensito una volta un libro molto interessante di un'antropologa che narrava come i luoghi di antichi oracoli  (v. Delfi) fossero in realtà posti di riunione  e incontro per molti in cerca di una speranza e la trovavano nell'essere in comunione: questo diventava di per sé un fatto taumaturgico. Penso sia anche l'effetto “Lourdes”, dove,  dopo aver visto la sofferenza moltiplicata all'ennesimo, ogni proprio dolore si ridimensiona.

 

                   

                 ORNELLA RIGODANZ0

            L’OSPITE INDESIDERATO

 

                 

Questo libro di Ornella, a differenza del precedente di Piccinini, scientifico, attento ad ogni particolare che possa servire a far capire la malattia, è una sorta di diario sulla malattia ed è tutto al femminile: fa capire come sia diversa l’indole donna/uomo.

Inizia con una poesia (l’autrice ha questo dono).

 

                                   SPERARE E' LA NOSTRA FORZA

 

                              La speranza è un raggio di sole
                                   è la forza della vita
                                         è attesa.

                          La speranza è la capacità

                                  di superare la caduta,
                                         le difficoltà

                          La speranza è un angelo
                                   che ci sorregge
                                nei momenti difficili
                                e ci spinge a guardare
                                         verso il cielo.

                                La speranza ci rende
                                     liberi o prigionieri

                                         sta a noi

                                non tradurla in illusione.

 

Per capire meglio Ornella, l’autrice, parto da un suo tenerissimo ricordo. Le è nata una nipotina, la seconda, e la figlia ha acconsentito -con un po' di preoccupazione ed evidente imbarazzo- a mettergliela tra le braccia e prima ha voluto che si sedesse. Da in piedi non gliela avrebbe data. Lei confessa che si è sentita umiliata. Una volta che era con la nipote piccolina in braccio e tremava, l’altra nipotina, di poco più grande, le ha chiesto: "Nonna,  ma perché la scuoti così tanto, guarda che basta poco per addormentarla”. Le ha risposto: “La nonna ha le braccia che si emozionano quando tiene in braccio un bimbo”. E la nipotina - meraviglioso candore dell’innocenza-: “Allora nonna, quando hai finito con lei, puoi fare la stessa cosa con me”. Desiderava l’abbraccio “emozionante”, non voleva essere esclusa, non voleva sentirsi un po’ gelosa.

L’intelligenza della scrittrice risalta in questa sua frase: “Certo sono una nonna strana, che adora le sue nipotine … Ma l’unica cosa che sapevo fare con loro  - non poteva infatti mettersi a giocare seduta a terra come vogliono i bimbi -  era raccontare delle storie da me inventate, creando curiosità e attenzione nella loro mente”.

Ornella si è ammalata di Parkinson a 56 anni quando ancora lavorava e se si confidava con le colleghe, cosa che non voleva fare in casa per non preoccupare i cari, queste la tranquillizzavano. “Sei stressata, devi star tranquilla, hai bisogno di riposo”. Lei sentiva che qualcosa non andava e quando  comunica in famiglia che farà un esame per accertare se è Parkinson, vede il marito impallidire e la figlia che la osserva incredula. Hanno già avuto in passato un brutto periodo: quattro anni di visite in diversi ospedali, perché la figlia era afflitta da celiachia e stava male, ma i medici non avevano individuato quella patologia, allora poco conosciuta.

Il suo pensiero mentre dice ai suoi cari dell’esame che dovrà sostenere è: “Devo farmi forza e incoraggiarli, ma dentro di me il cuore scoppia”.

Da donna sa subito prendere in pugno la situazione e lo fa per amore dei suoi. Dirà più avanti verso la fine di questo diario di sole 72 pagine e proprio rivolgendosi al marito: “Non aver paura, sono sempre io anche se malata, sono sempre io. Tu sei il mio coraggio, la mia forza, abbracciami (è una donna ancor giovane e desidera questo contatto fisico), non aver paura, tu sei la migliore cura se combatti con me, perché se stai vicino a me, il dolore si supera con il tuo amore”. E dice ancora: “Ho paura di crearti un peso che per te sarà difficile per tutto quello che dovrai fare per aiutarmi”. (Il Morbo colpisce tutta la famiglia e tutta la famiglia ha bisogno di sostegno e rassicurazione).

Bellissima dichiarazione d’amore quella di Ornella, perché da donna ricorda di dover esser lei ad aver forza per due, di dover educare ancora una volta l’uomo che le è fianco come fosse un piccolo figlio.

Non è il mio un discorso se sia più coraggiosa la donna o l’uomo, però ricordo sempre una frase illuminante di mia suocera che ebbe quattro figli maschi: “Se gli uomini dovessero partorire, saremmo molti di meno al mondo!” La donna per sua natura è più preparata ad affrontare il dolore fisico, a farsene carico, è stato il suo compito millenario.

Da giornalista ricordo che purtroppo, nell’informarmi sull’incidenza del cancro al seno, scoprii che molti mariti, dovendo affrontare insieme alla moglie il calvario di quell’esperienza, non se la sentirono, preferirono andare per i fatti loro, chiamandosi fuori. Una verità scomoda ed onore a chi non ha fatto così: bisogna anche saper esser uomini, anche un po’ “guerrieri”.

Ai miei figli maschietti, da bambini leggevo libri come “Riccardo cuor di leone” ed ora uno di loro, che ama sempre scherzare, in occasione dell’attuale epidemia di coronavirus  e della sua corsa a far provviste per la famiglia, mi ha detto: “Sai mamma, io sono un po’ un cuor di coniglio”.

Tornando all’esperienza di Ornella non solo cerca di rinfrancare i suoi ma corre su Internet per avere tutte le informazioni possibili sul Morbo.

Sono passati 27 anni dal libro scritto da Marzio Piccinini a questo di Ornella che mi è arrivato velocissimo a casa tramite Amazon, infatti è stato edito da Amazon Italia Logistica S.r.l.: i mezzi di comunicazioni si sono evoluti, ma non l’educazione  e purtroppo anche quella di qualche dottore. Quando infatti Ornella deve trovare il suo neurologo di fiducia, s’imbatte in medici capaci di dedicarle solo dieci minuti a visita  e che non hanno voglia di ascoltare le sue sofferenze. Esasperata dice: “io non sono un protocollo, malata di Parkinson”.

E’ verissima questa sua osservazione e il medico dovrebbe ricordarsi che non deve solo curare un corpo, ma deve cercare di essere un medico anche dell’anima. Una sua parola di comprensione, d’incoraggiamento, può essere la spinta a star meglio quasi più della specifica medicina.

Ornella, che pure si definisce “una guerriera”, attraversa una prima fase di chiusura, del rintanarsi in casa per non essere vista tremare, compatita, ecc. Poi però pensa che gli atleti della para-olimpiadi vengono applauditi perché hanno scelto di combattere. Lei lo fa contro questo nemico, questo intruso, diventato fin amico, perché tanto l’ha aiutata a riflettere su di sé in modo profondo. Una riflessione campeggia su tutte: “Il Parkinson  non si può gestire privatamente come accade ad esempio con il diabete perché i movimenti motori suscitano reazioni negli altri e fanno sentire il malato a disagio nel sentirsi osservato”.

C’è un altro tenero episodio nel libro quando Ornella convince una giovane affetta dal Morbo e che non vuole uscire perché i suoi movimenti involontari la fanno sembrare “una pazza”, a fare una passeggiata con lei.

Riguardo poi la considerazione che la malattia affligga solo gli anziani, ricorda un giovane di 42 anni, incontrato durante uno dei ricoveri che si rendono necessari per riequilibrare le terapie e per sottoporsi ad esami. Le è sembrato di una forza indescrivibile nel raccontarle con semplicità la sua malattia. Come lui Ornella sente di dover lottare per tutti coloro che non sanno quanto possa esser alta la probabilità che mister Parkinson entri prepotentemente nella loro vita senza chiedere il permesso e s’impadronisca di loro.

Importantissimo per Lei è stato anche incontrare l’Associazione e chiede, ormai ben consapevole anche delle mancanze, interventi legislativi per frenare il più possibile la perdita del lavoro per gli ammalati e per le cure a carico dei familiari.

Però preferisco ricordarla con sue parole che ce la rimandano come in un’istantanea: “Avete mai provato a stare sulla riva del mare e sentire gli schizzi sul viso, sentire gli odori… Io guerriera non mi fermerò, mi dedicherò alle mie passioni: ricamare, leggere, ballare…Tu non riuscirai a fermarmi sono una guerriera e combatterò…finché non accadrà qualcosa che mi costringerà a fermarmi”.

 

 

 

 

                    ORNELLA RIGODANZO

               CAREGIVER...quasi eroi

 

                   

Il lettore mi scuserà se antepongo alla recensione una lettera di mio figlio Edgardo, che mi chiede in dono i due libri di Ornella, ricordando quando assistevo mia madre malata di Parkinson (25 anni dalla diagnosi) e lo feci solo nell’ultimo quinquennio dato che mio padre era mancato: prima se ne era sempre occupato lui senza mai voler delegare.

 

                     

 

Non solo, poiché un libro raggiunge il suo top se è utile mi piace anche ricordare parole di una persona amica che da questo ha imparato  come vestirsi per aver  più scioltezza nei movimenti e non esser aiutato da altri.

Mi sembra più esauriente di tante parole riportare ora alcune frasi di questo secondo  agile, ma esauriente libretto di Ornella.

1)    la prima difficoltà di un care-giver è quando all’improvviso si trova a far parte di quelli che assistono i propri cari.

2)    rinunciano ad una loro vita.

3)    a volte hanno difficoltà  a trovare lavori compatibili  con la propria situazione, ma l’importante è oggi! (bellissima questa frase che contiene un alto senso del dovere, ciò che un tempo si chiamava abnegazione).

4)     il care-giver talvolta rischia di non accorgersi che la madre (o il padre)  sta cambiando causa la malattia: il Parkinson  consuma e  fa vivere pensando solo a lui.

 

Ma ecco il risvolto positivo pur nelle difficoltà: “noi care-giver  abbiamo una luce nell’anima, un ‘cuore d’oro’, solo che in certi momenti ci spegniamo per il troppo carico. Ma noi siamo anche ‘angeli con una sola ala’ e dobbiamo e sappiamo aiutare il malato a non morire dentro”.

 

Permettete un ricordo personale: tutte le estati portavo mia madre ormai vedova e malata di un Parkinson sempre più invalidante, a Bobbio sua città d’origine dove mio padre aveva fatto costruire “per  lei” la casa di campagna. Una settimana continuò a piovere e poiché per entrare o uscire da casa c’è una scala d’accesso, sia dall’ingresso, sia dal terrazzo al prato, rimanemmo segregate in casa. Non potevo rischiare di aiutarla a scendere per quei gradini scivolosi. E’ stata una liberazione quando si è presentato Ottavio, il signore che taglia il prato, e mi ha potuto aiutare.

 

Ma vale, prima di ogni difficoltà, questo pensiero del libro: “quando il dolore bussa alla porta del cuore non si può non andar ad aprire”.

Però un giorno che la figlia care-giver, protagonista di questo libro, arriva dalla mamma che non vede da un po’, si trova a constatare le prime evidenze della malattia.

“La donna energica che ricordava si muoveva ora come un automa, le braccia rigide, le dita delle mani dritte e soprattutto il suo caro volto ‘come una maschera, rigido, inespressivo’. Sorrideva ma solo con la bocca, lo sguardo era vuoto”.

La figlia compie ricerche sul morbo e una cosa le dà consolazione e fiducia: “la mamma avrebbe conservato sensi e intelligenza” ed era fondamentale per la sua vita quotidiana farla camminare, il movimento era più che mai necessario.            

Dice la care-giver: “quando penso di non farcela più la rabbia dentro va alle stelle, una rabbia nei confronti della vita”.

E considerate quanto siano belle queste parole dalla figlia alla madre quando la vede sconfortata: “la felicità è fatta di piccole cose preziose come il profumo del caffè al mattino, le note di una canzone, un libro dai colori che scaldano il cuore, gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, il musetto del tuo cane. Basta chiudere gli occhi per accendere i sensi”.

Purtroppo cambia anche la voce della malata: in certi momenti si fa fievole, incomprensibile.

Il controcanto della mamma alle parole della figlia suona così con umorismo: “a volte mi sembra di essere un’aspirapolvere, perché anch’io ho i miei momenti ‘on’ e ‘off’, purtroppo”.

Continua la figlia nel diario a due voci: “il neurologo mi ha consigliato di delegare in momenti estremi qualcuno che possa seguire la mamma”.

La mamma: “non mi riconosco più, che senso ha una vita vissuta così?. Tutti i giorni, tutte le ore… per anni…non è umano”.

Arriva un capitolo molto importante: “L’aiuto delle Associazioni e Diritti del Malato”.

La figlia lamenta che ogni volta che si recava alla Asl a chiedere un presidio per la mamma, mancava sempre qualcosa: un’impegnativa, un certificato, una fotocopia, una firma…”

Com’è vero! Ricordo la volta che andai per la mia per chiedere un materassino ad acqua che doveva scongiurare le piaghe da decubito. Avevo delegato qualcuno all’assistenza di lei per qualche ora e mi trovai davanti ad una coda infinita. Stavano per chiudere gli sportelli e per non essere costretta a tornare chiesi se potevo avere ciò che mi serviva, allungando il certificato per mamma a chi stava servendo.

La risposta fu: “chissà come le ottengono queste certificazioni…”

Cioè l’impiegato mi accusava di dolo o malafede. Uscii che urlavo  e poiché l’ufficio era nell’ex manicomio un gruppo di persone mi stava guardando ed uno chiese ad un altro: “cos’ha quella signora?” La risposta: “sarà una pazza”. Poi mi sfogai con una zia che spesso veniva a trovare mamma e lei disse: “perché non hai invitato quell’impiegato a venire a vedere di persona tua madre. Avrebbe capito, non poteva non capire”.

Però a proposito di quelle Associazioni che devono e possono aiutare, la condivisione con altri figli che si fanno carico dei loro genitori prima diventa un acuire il dolore fin quasi al rigetto di quel contatto umano, Solo in un secondo momento diventa un aiuto reale con la risposta a tanti problemi che altri hanno già affrontato. Purtroppo ed è una constatazione: “in Italia contrariamente ad altri paesi europei, manca “una Legge sul Care-giving” con misure concrete ed agevolazioni a favore dei familiari che mettono la propria vita in standby per prendersi cura a tempo pieno dei propri familiari.

Segue un altro capitolo molto  importante, il decimo, intitolato “Quando arriva il momento di chiedere aiuto”. Ad un certo punto, quando si capisce che da soli non ce la si fa, si capisce pure che “accettare un aiuto, non è abbandonare la propria madre, ma imparare a tener alto l’umore nonostante le difficoltà, a preservare la nostra salute fisica per continuare ad esserle di aiuto”. Questo per evitare il “burn-out”, un termine che il neurologo spiega alla figlia e che significa non cadere in uno stato di “esaurimento emotivo, fisico e morale” generato da un carico eccessivo di stress  e che può impedire di  continuare l’assistenza di cui  mamma ha più che mai bisogno.

Cosa succede infatti ad un care-giver? Gli succede che diventa mani, gambe, braccia, voce del proprio caro che assiste ed è questa una delle ragioni per cui il Parkinson viene definito anche “malattia della famiglia” perché ad un certo punto ti coinvolge e coinvolge tutti color che ti stanno intorno, tutti i tuoi cari.

Dopo questa amara, ma lucida, constatazione un capitolo che è di aiuto a tanti altri e non necessariamente malati di Parkinson: i tanti che hanno bisogno di capire come semplificare la propria vita per non dover diventare dipendenti da altri.

“Usare abiti che si chiudono davanti o di lato, mai dietro; le chiusure lampo possono essere agganciate con un uncino fissato su un manico; per indossare calzini o scarpe basta portare da seduti una gamba sull’altra (cosa che facilita l’operazione); le scarpe non abbiano mai stringhe ma velcro o si possono usare mocassini; il cellulare può essere legato al collo; per alzarsi poggiare prima i palmi delle mani o sul letto o sui braccioli di una poltrona; per cucinare mettersi con una sedia davanti ai fornelli ed avere a portata di mano tutte le cose che possono servire; per mangiare usare posate dal manico grosso; per bere usare un bicchiere con gambo alto e grosso che si possa ben afferrare; quando si riposa mettere un cuscino che sollevi le ginocchia.

Ma la conclusione è che per tutte queste cose non esiste una tecnica giusta o sbagliata. Una tecnica diventa giusta in base a chi la utilizza ed è questo che bisogna capire ed osservare per facilitare la vita del  malato. Bisogna sempre ricordargli una cosa ed è il messaggio che si ricava da tutto il percorso del libro:

                       la nostra vita è comunque bella

           e possiamo godere pur se malati o sofferenti tanti,

                                  tanti suoi doni.

                               GIGLIO REDUZZI

                      IL MEGLIO DI…

 

 

                     

          

 

Giglio Reduzzi, per ragioni di lavoro, è stato un "globetrotter": ha girato un terzo dei Paesi che compongono i cinque continenti.

E il termine da me usato non è riduttivo: non ha solo usato molti voli per i suoi spostamenti, ma da questi ha sempre elaborato interessanti, penetranti, chiarissime riflessioni.

Non solo, le ha anche scritte in 60 saggi.

Li ha pubblicati dal 1996 al 2019, con Youcanprint, Self-publishing, elogiando la possibilità di non dover più sottostare ai diktat di tanti Editori che chiedono di ridurre il numero delle pagine o approfondire capitoli e soprattutto fanno attendere per la pubblicazione tempi quasi biblici.

Di questi saggi 7 sono in inglese, 5 bilingue, 34 riguardano la Politica, 15 la Religione, 11 argomenti vari.

Il meglio di, il saggio n.61, è stato pubblicato nel 2020 e anche se Giglio dice argutamente alludendo al titolo: "Vuol dire che è proprio finita", in realtà  precisa che ha voluto farlo stampare per due categorie di lettori:

-     quelli che vogliono leggere solo in forma cartacea per sentire l'odore della carta, il fruscio delle pagine…

-     quelli che li hanno già  letti in versione digitale  sul suo Blog  (www.giglioreduzzi.com)  ma  hanno anche piacere di averli come libro, cioè come una testimonianza sempre sotto mano.

Dice proprio Cicerone nel Pro Archia: "Il libro rende più belli i momenti felici, offre rifugio e conforto in quelli dolorosi. In casa ci dà gioia, fuori non è d'impaccio, con noi passa in veglia la notte, ci accompagna nei viaggi, con noi  trascorre la villeggiatura".

Come inizia Giglio a presentarci il suo meglio?

La Politica. Da questa-una delle due passioni-incomincia. Dal risvolto di copertina: “Non  se uno porta la cravatta e la pochette coordinate, allora è un uomo di classe... Non ricordo di aver mai assistito ad una tediosa e lunghissima elencazione da parte del Premier dimissionario (="Giuseppi" Conte) di tutte le malefatte compiute da colui che gli sedeva accanto (=Matteo Salvini). Eppure è ciò che ha fatto lo scorso agosto l'uomo con cravatta e pochette.-

Sarà  per questo che ormai io stessa cambio canale quando lo vedo e ho fatto ciò con altri presidenti del Consiglio e della Repubblica. Mi sono fermata ancora ad ascoltare, quasi reverente, Carlo Maria Azeglio Ciampi, poi ho usato il telecomando per cancellare dalla mia vista il “faziosissimo" Napolitano e altri come lui o quelli che hanno caro solo il proprio tornaconto e anche tra i politici ce ne sono.

Riguardo il nostro "Giuseppi" riporto parole di Mario Giordano (da La Verità del 23 marzo 2020): "Perché il premier Giuseppe Conte, contro tutti e contro tutto, persino un po' anche contro Bruxelles, continua a portare avanti la folle idea dell'adesione dell'Italia al Mes (presunto Fondo salva Stati in realtà  Fondo sfonda Stati)? Io ho un sospetto: perché sa benissimo che in quel caso ci vorrebbe un governo stabile. Così,  lui spera di mantenere la cadrega, anche se questo comporta il completo asservimento e svuotamento dell'Italia. Ce ne ricorderemo?"

C'era pure, ed è tra quelli per cui cambio canale un ministro dei beni culturali che criticava a tutto spiano Berlusconi e le “olgettine”. Poi, in quel periodo lasciò la moglie e le tre figlie, per accasarsi con una compagna di fede politica.

Ahimé la tanto osannata Nilde Jotti continua ad insegnare: da noi le amanti sono sempre state come le favorite di certi Re di Francia o le mogli di Enrico VIII,  buone sì per un fumettone, ma anche tanto riverite pubblicamente.

Sempre per la Politica, Giglio critica la scelta del Presidente Mattarella che ha portato all'attuale governo e  scrive:

"La strada parlamentare era percorribile solo in presenza di una rigorosa corrispondenza tra composizione del Parlamento e volontà  popolare.

"La Costituzione vieta il vincolo di mandato per cui i parlamentari sono liberi, una volta eletti, d’iscriversi al gruppo che vogliono e possono persino passare dalla maggioranza all'opposizione.

"Una lettura non puramente formalistica delle elezioni europee avrebbe dovuto portare a risolvere la crisi con elezioni nazionali anticipate...

"Lo dimostra l'esito univoco di tutte le consultazioni elettorali che sono state effettuate nel frattempo...

Per la Religione.Ora considero dal libro i comportamenti della Chiesa:Cosa si devono aspettare da questa i cattolici italiani di antica data? Sono due le date ricordate da Giglio:

·          27 dicembre 2019, sui giornali la notizia che undici cristiani sono stati decapitati in Nigeria il giorno di Natale;

·          29 dicembre, Papa Francesco ci ricorda che a tavola non si devono usare i telefonini…

Se anche il Papa  si è dimenticato nei giorni seguenti alla prima data citata di esecrare (anzi avrebbe dovuto maledire!) ciò che accadde in Nigeria, in passato, il 12 maggio del 2013, ha pur sempre canonizzato 813 persone, cioè gli abitanti di Otranto decapitati dai saraceni nel 1480 per non essersi convertiti all'Islam. Quindi continuiamo a sperare nella sua buona fede...

C'è però un'altra notizia che Giglio raccoglie con  certosina pazienza di acuto osservatore:

 In pompa magna, il 15 novembre 2019, il Papa con la massima autorità sunnita, l'Imam Ahmed Al Tayeb dell'Università  del Cairo,  ha presentato una struttura che dovrebbe essere realizzata entro quest'anno: l'Abrahamic Family House ad Abu Dhabi. Ospiterà  in un unico giardino una sinagoga, una moschea, una chiesa....

Come precisa l'Autore, potrebbe  chiamarsi "Chrislam", cioè una fusione di Cristianesimo, Ebraismo ed Islam, ma forse potrebbe - penso- essere un tentativo di far convivere, gomito a gomito, per meglio conoscersi e reciprocamente apprezzarsi e quindi per ritrovare un cammino comune di fede nel Dio unico, tanti uomini di buona volontà  in terra.

Un po' come avrebbe dovuto essere per Gerusalemme che però non è stata la pacifica città santa delle religioni monoteiste, anzi...

Stando molto più terra a terra riguardo il discorso religioso, tra le esortazioni del Papa è primaria quella di Francesco sull'accoglienza dei migranti.

Giglio osserva con arguzia che il tanto citato codice del mare non può applicarsi ai naufragi programmati in ogni dettaglio come quelli di cui sono vittime gli attuali migranti. Il naufragio intenzionale è una fattispecie giuridica sconosciuta e come tale non può essere tutelata.

Precisa: "Siamo forse l'unico Paese al mondo che garantisce cure mediche gratis ai non residenti. In Canada, Paese democratico,  il non residente che si presenta al Pronto Soccorso deve pagare un ticket anche di alcune centinaia di dollari, ticket che non tiene conto della situazione economica del paziente”. In Canada lo straniero deve pagare per non aver contribuito alla creazione del sistema Sanitario Nazionale.

Precisa pure: "Un governo che abbia a cuore gli interessi delle persone dovrebbe sistemare la situazione dei migranti arrivati nel nostro Paese, ma gli addetti all'accoglienza fanno durare l'esame fino a due anni perché durante questa fase gli esaminatori traggono maggiori benefici degli esaminandi”. 

Per di più poiché con i barconi stanno ora arrivando donne più che uomini, gli africani - sempre secondo Giglio - devono essersi accorti che da noi le donne non solo hanno gli stessi diritti degli uomini, ma meritano qualche attenzione in più, quindi le usano come testa di ponte per facilitare l'ingresso dei maschi (la grande maggioranza).

Sempre riguardo l'accoglienza non manca di sottolineare che la re-distribuzione europea dei migranti non potrà  mai funzionare. Lo screening è fatto quando sono già  sbarcati: donne incinte, malati e bambini toccano sempre a noi e spesso andiamo a prenderli con l'elicottero.

Mentre gli stati europei che - bontà  loro - hanno accettato la re-distribuzione fanno un secondo screening a casa loro  e scelgono e possono rimandare chi non gli va bene. 

“Il flusso di migranti che dalla Francia viene in Italia è più numeroso di quello in senso contrario.

Infine i migranti non sono tutti uguali.

Quelli che vengono dall'Asia e scappano dalle guerre (come dalla Siria)  sono veri profughi. Però noi non li accogliamo e li affidiamo ad Erdogan, noto per le sue "amorevoli cure".

Quelli che vengono dall'Africa e non scappano dalle guerre, li dobbiamo accogliere perché in Libia li trattano male”.

Giglio si scatena pure nell’infelice destabilizzazione dell'Africa del nord che si affaccia sul Mediterraneo ad opera d'interessi vari come quelli francesi.

Da Le soir approche e déjà  le jour baisse del cardinal Robert Sarah, che osserva in varie Posizioni  (leggi:pagine) come,favorendo l’emigrazione di tanti giovani,  l’Africa si privi delle risorse necessarie al suo sviluppo;

(pos. 4276)  “La mondializzazione vuol separare l’uomo dalle sue radici, facendone un apolide, un senza patria, un senza terra";

(pos. 4321) “Ogni giorno centinaia di africani muoiono nelle acque del Mediterraneo"; “In Francia la giungla di Calais è una vergogna";

(pos. 4310) “Il generale Gomart, vecchio dirigente del servizio informazioni militari francese, a riposo dal maggio 2017, spiegava che ‘l’invasione  dell'Europa da parte dei migranti è programmata, controllata e accettata. Nulla del traffico nel Mediterraneo è ignorato dalle autorità francesi, sia militari, che civili’.”

Giglio avanza anche un’idea niente male, sempre a proposito dei migranti. Molti italiani mal sopportano di vivere quasi in comunità con gente che preferisce continuare  alla propria maniera, con i propri usi e costumi. Quindi perché non costituire delle “Islam town"?

E con lo spirito di humour che gli è proprio, annota: “L’unica volta che la Chiesa si è fatta carico di loro, se li è lasciati scappare tutti, già il giorno dopo". Non solo sottolinea che nonostante le esortazioni della Chiesaun conto è andare in territorio Masai a scavare un pozzo, un conto portarsi a casa un Masai".

L’idea di queste Town solo abitate da islamici gli è venuta dalla considerazione più che mai seria che il risultato delle massicce immigrazioni è il conflitto culturale. Nelle Islam town invece potrebbero organizzarsi a loro piacimento: “Pregare Allah, circoncidere i figli, dirimere le loro questioni in base alla Sharia, i genitori obbligare i figli a sposarsi con  chi scelgono per loro, e così via..." Ecco la diversa concezione della donna da due foto del libro: occidente/islam!

               

 

 

Fa osservare che ci sono varie Chinatown ai margini di Londra, New York, Toronto, che nel Nord America esistono le comunità Amish e  nessuno si scandalizza per questo, anzi c’è la curiosità di andare a visitarle.

Intelligente e brillante Giglio, che in questo suo libro (il più recente per ora, ma non certo l’ultimo) affronta altri argomenti che sono stati al centro di suoi saggi precedenti: l’Alitalia in particolare con cui ha viaggiato troppo spesso sentendosi vessato rispetto al trattamento ricevuto da altre compagnie aeree.

Una conferma viene da una lettera del lettore Carlo Chievolti, proprio ne La Verità di lunedì 23 marzo 2020, con questo titolo: In piena pandemia danno 500 milioni per salvare Alitalia".

La mia passione per Le lettere dei lettori, che mio padre criticava ritenendo fossero altre le pagine da leggere di un giornale, era e rimane esemplarmente educativa.

Giglio si sofferma su la nostra Costituzione (che fu scritta subito dopo il fascismo, a dottrina comunista imperante, prima che questa fosse capita come più perniciosa del fascismo stesso).

Si sofferma sull’irrilevanza internazionale dell'Italia, sul fatto che siamo il Paese europeo con il maggior numero di  militari in missione e che lo sono per scopi pacifici e  quindi non capisce perché continuiamo a comprare cacciabombardieri in luogo di apparecchi medicali.

Ci racconta da testimone oculare cosa fu veramente l'Apartheid in Sud Africa (quando Mandela era in carcere), e così via.

Questo saggio di Giglio, focalizzato più che mai sui nostri mali, finisce con alcune battute. 

 "l'Italia detiene due primati: 1) il massimo della tassazione che provoca il massimo dell'evasione, 2) il massimo della tutela del lavoratore cui si contrappone il massimo della disoccupazione.

Ma a furia di segnalare spunti o parafrasare ciò che non si può dire meglio di come lo fa l’Autore, non vorrei riscrivere tutto il suo libro perciò mi fermo e auguro Buona Lettura a chi voglia  e occhio alle foto.

Ce ne sono di spassose, come nelle due pagine dove mette a fronte quella di Mike Pompeo e quella di Gigino Di Maio, riportandone le qualifiche.

Per Pompeo: Laurea in ingegneria, laurea in legge ad Harvard, imprenditore nel settore aerospaziale, giornalista e redattore, ex direttore della Cia.

Per Di Maio: diplomato ad Avellino, bibitaro al S. Paolo.

Però anche Pompeo è di origini italiane (la sua nonna paterna Fay Brandolino era figlia di due italiani che emigrarono in Usa da Caramanico Terme in Abruzzo). 

Gigino è più giovane quindi mai disperare. Abbiamo troppo bisogno di speranza, di giovani che sappiano crescere e farsi statisti.

                             

Il lockdown per Giglio Reduzzi non è passato invano ed ecco qui sopra la foto della raccolta dei suoi Saggi, racchiusi in eleganti copertine. Otto volumi per 74 saggi dal 1996 quando l’imprenditore con la passione “del giornalismo” è andato in pensione. Sono divisi in tabelle e per chiarezza segnalati secondo tipologia con diversi colori: 40 in giallo per la politica, 19 in azzurro per la religione, 15 in verde su argomenti vari.

Li ha anche ingentiliti sovrapponendo nella foto un mazzo di fiori, ma è solo un ammiccamento birichino al lettore perché Giglio sa graffiare molto bene.

Giglio ora dovrebbe avere sugli 85 anni ed ha dato sfogo alle sue passioni di scrittura, politica e religione soprattutto, ma per la sua inarrivabile chiarezza, per l’umorismo, per la serietà del suo sguardo panoramico facendone davvero un gran dono per i lettori.

In questo piccolo-importante libro di 28 pagine raccoglie due recensioni.

Una è la mia che ho scritto sul suo “Il meglio di…”, e lo ringrazio per l’amicizia che mi dimostra, ma l’altra recensione è più importante perché dà atto ad “un’operazione verità”. E in tempi di fake news dilaganti diventa quanto mai necessaria.

L’operazione verità è su Silvio Berlusconi e il titolo della recensione comparsa su il Giornale.it, il 3 agosto del 2010, a cura di Felice Manti porta questo titolo:

Un imprenditore italiano ha scritto un libro in inglese per difendere Berlusconi: <I giornali esteri non fanno altro che riprendere gli articoli di ‘Repubblica’>”

Precisa Manti poco più avanti: “il pamphlet per volontà dell’autore è destinato esclusivamente ai non–italians per dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità sul Cavaliere, ‘il premier italiano più diffamato di sempre’ ”.

“I corrispondenti da Roma dei principali giornali statunitensi come il reporter Jeff Israely e Greg Burke si limitano a riportare quello che leggono sul Corriere della Sera e Repubblica. Giornali notoriamente distanti anni luce dal centrodestra”.

Le sue sono parole sacrosante in quanto il Giornale fu fondato da Indro Montanelli, fuoriuscito dal Corrierone, proprio per un’operazione verità e controcorrente.

Giglio era rimasto quasi scandalizzato quando nel consueto viaggio estivo che era solito compiere in Canada di cui ammirava tante e tante cose per cui qui in Italia sembravamo e forse siamo ancora indietro di anni luce, si sentì domandare da amici e conoscenti: “E’ vero che Berlusconi è un womanizer (donnaiolo, ndr), che è mafioso, che controlla la stampa?”

Allora Giglio contattò una casa editrice cristiana, la St. Paul press e in poche settimane mise giù la difesa del Cavaliere contro le calunnie. Non conosceva nemmeno Berlusconi però riteneva di doverlo fare per un principio fondamentale che viene riportato nella recensione di Mansi: “Mettetevi nei panni del comunisti: dopo 50 anni d’attesa dalla scelta degli italiani nel 1948, sono finalmente pronti a conquistare il potere e improvvisamente arriva questo alieno (Berlusconi) e glielo porta via. E’ naturale che si comportino come un cane a cui un altro cane ha sfilato l’osso, e aggiungete l’odio di classe con il quale sono indottrinati da scaricare contro la ‘personificazione del capitalismo’ ”.

Quella recensione e quelle parole sono  di 10 anni or sono e sembra non sia cambiato niente quando si vede ciò che i magistrati stanno facendo contro Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia.

Non solo, sempre dal saggio riporto questa icastica frase a proposito della magistratura: “Don’t give a damn attitude”, che sono le parole pronunciate da Clark Gable/Rhett Butler in Via col vento: “francamente me ne infischio”.  Rispecchiano il pensiero dei nostri magistrati politicizzati che non pagano mai se sbagliano (“vedi l’esemplare caso Andreotti”, citato da Giglio), soprattutto perché non essendo eletti come in Usa non vengono mai sottoposti al giudizio del popolo per le loro azioni.

Da quanto tempo il centrodestra parla di separazione delle carriere e di riforma complessiva della giustizia? Vi sembra che ciò sia nei programmi di questa sinistra che ha prolungato lo stato d’emergenza fino al 15 di ottobre sperando in chissà quale salvataggio del destino? La sinistra si avvale della magistratura politicizzata per far inquisire gli avversari e salvarsi le poltroncine. Ma verrà giorno, verrà…

Due precisazioni dato che dalla recensione di Mansi sono passati dieci anni: il Corriere è oggi diretto dall’equilibrato ed intelligente Luciano Fontana che politicamente è di sinistra ma sa distinguere benissimo ciò che è corretto dire e soprattutto scrivere; quanto a Berlusconi come uomo gli si possono attribuire questi versi di Jorge Manrique: “Io m’en vo triste amador, d’amores desemparado, d’amores que no d’amor, destichado, destichado…” Impareggiabili sulla povertà dell’uomo che non sa restare fedele ad una sola donna e che non sa conoscere il vero amore.

 

                              GIULIO VIGNOLI

La morte per fame della Famiglia Reale del Laos

              -Un crimine comunista-

                    

L’immagine di questo Budda dormiente ricorda la serenità perduta del Laos, un vaso di coccio tra quelli di ferro: la Birmania, che lo occupò più volte, il Siam (odierna Thailandia), il cui dominio ha lasciato un pessimo ricordo e l’Impero Kmer, più o meno l'attuale Cambogia.

Questa drammatica descrizione contrasta con la pace "eterna" del Budda.

 “Ho visto il grande tronco di un albero dove venivano sbattute le teste dei bambini per poi gettarne i corpicini in una fossa ai suoi piedi. E le bacheche piene dei vestitini di questi piccoli martiri.

“Ho visto, nei pressi della capitale, Vientiane, un campo di sterminio dove svetta altissima una pagoda di vetro piena di teschi…

“Ho visto con i miei occhi a Phnom Penh la scuola dove avvenivano le torture con ancora il sangue dei torturati seccato in terra nelle varie celle. “Orrori, orrori comunisti!”

Questo libro di Giulio Vignoli, edito nel giugno 2020 alle Edizioni Settimo Sigillo, segue altre sue opere che sono pietre miliari per la conoscenza della realtà se non offuscata da propagande o fini politici: L'olocausto sconosciuto (Lo sterminio degli Italiani di Crimea), Gli Italiani di Crimea (Nuovi documenti e testimonianze sulla deportazione e lo sterminio), L’irredentismo italiano di Nizza e del Nizzardo, Repubblica Italiana  dai Brogli  al colpo di Stato del 1946 ai giorni nostri.

Il professor Giulio Vignoli, già professore di Diritto Internazionale nell’Università di Genova, giurista e storico, è un benefattore d'italianità, come ho  scritto di lui che ha viaggiato in tutta Europa alla ricerca delle minoranze italiane dimenticate. Ha viaggiato anche in Asia dandoci il resoconto dei criminali eventi accaduti in Laos ed ignoti in Italia. E’ stato questo Saggio la sua più recente fatica e poiché Laos, Tailandia e Cambogia, oggi si visitano per turismo (ma i turisti sono ignari della drammatica storia recente che segnò quei popoli) sembra esemplare la frase dei suoi compagni del viaggio organizzato cui partecipò e da cui ha tratto queste pagine. Erano stati solo in due a staccarsi dal gruppo che ammirava la Cambogia e al ritorno quando raccontò alla compagnia, la risposta fu: “Meno male che non siamo venuti. Ci saremmo rovinati il viaggio".

“Questa è la sensibilità del vile Mondo occidentale”, commenta il professore e poco prima in queste pagine per ricordarci cosa è stata la guerra del Vietnam e il genocidio cambogiano, scrive: “Gli Stati Uniti persero perché aveva ceduto il fronte interno, minati dalla sinistra internazionale e interna e dai suoi intellettuali e attori cinematografici progressisti, cioè comunisteggianti e dalle proteste degli studenti che non volevano più andare a morire in un lontano Paese.

“L’America perse, a mio giudizio, - continua il professore -  abbandonando i suoi amici laotiani, vietnamiti e cambogiani alle vendette, alle stragi, alle prigioni dei comunisti. In Vietnam, il gruppetto dei neutralisti che era appoggiato dalle Sinistre, fu subito scacciato – utili idioti! – dall’instaurando nuovo regime comunista”.

Centinaia di migliaia di vietnamiti fuggirono dal loro paese all’arrivo dei comunisti ed è la stessa cosa che accadde tra Corea del Nord e del Sud. Nessuno che tornasse indietro, che andasse al Nord e non a caso la stessa guida che lo accompagna nella sua peregrinazione afferma: “Non si sa in Europa che il Laos è un’altra Corea del Nord?” E il proprietario dell’albergo di Luang Prabang, dove il professore ha soggiornato, gli ha confermato che è tuttora pericoloso parlare della Famiglia Reale: “I Sovrani e Il Principe ereditario furono uccisi come i Romanoff, per prudenza non si può parlarne”.

                                     

         

            (Sopra Savang Vatthanà, Re del Laos e Vong Savang, Principe ereditario)

                           

                                   (Palazzo Reale di Luang Prabang)

I vietnamiti che fuggirono, stretti fra Cina, Laos e Cambogia, non avevano altra via di fuga che il mare e si avventurarono in questo e furono chiamati “il popolo delle barche” finché gli Usa non intervennero per salvarli (in parte perché molti morirono) da sicura morte di fame, di stenti, di sete e aprendo loro i confini degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda i morti del Laos questo era un pacifico Regno soprannominato in modo poetico come “Regno del Milione di elefanti e del Parasole Bianco (usato nelle cerimonie reali)”. Il suo crimine è stato di trovarsi sul “Sentiero di Ho Chi-Min” per cui transitavano gli aiuti cinesi ai Viet-Cong.

Secondo la guida del Professore morirono per le bombe o per mine inesplose 500mila laotiani su una popolazione di 3 milioni. Il numero dei bombardamenti Laos è entrato nella leggenda e per voce di popolo ha superato il numero dei bombardamenti effettuati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Almeno 100mila persone lasciarono il Laos, rifugiandosi in Thailandia.

E per ricordare quel titolo famoso “Uomini e no”, è nel dramma che si scopre la diversità dei comportamenti umani: in Cambogia con il ritiro della truppe americane, il Presidente della repubblica filoamericana Lon Nol fuggì dal tetto dell’ambasciata Usa con l’ultimo elicottero americano. Rifiutarono di fuggire Long Boret, primo Ministro e Sirik Matak, capo del partito repubblicano nonostante i loro nomi figurassero nella lista dei “Sette Traditori” condannati a morte (quando fossero stati presi) dai Khmer rossi. Preferirono la morte al disonore.

I comunisti di Cambogia, comandati da Pol Pot e i cui dirigenti si erano abbeverati di Marx all’Università della Sorbona di Parigi, come ci ricorda il  Vignoli, si diedero ad un genocidio che provocò la morte di un terzo della popolazione.

E vengo ora al comportamento

del Re del Laos e della sua famiglia.

Rimasero per due motivi.

Per non abbandonare lo Stato e perché il capo dei comunisti laotiani era un loro parente, detto il “Principe Rosso”, che aveva sempre affermato in caso di vittoria Monarchia e Re sarebbero stati rispettati. Il re si era fidato.

Ma le promesse di moderazione non furono mantenute, “come è nello stile comunista”, precisa Vignoli.

Il 2 dicembre 1975 s’instaurò il governo marxista-leninista.

Il Re, Savang Vatthanà, ormai “ex”, lasciò il Palazzo e si trasferì a Luang Prabang dove solo due anni dopo fu accusato di collaborare con la resistenza anticomunista e quindi deportato con gran parte della Famiglia Reale nei Campi di rieducazione, in realtà Campi della morte.

I comunisti ne avevano apprestati diversi e nel n. 1 destinato ai militari del Regno venne deportato il Re. Il Re, il più anziano del campo, aveva allora 70 anni, fu condannato ai lavori forzati: in pieno sole per 11 ore e mezzo o per 14. Morì in una data che è stata fissata nel 1980 grazie alla testimonianza del colonnello Khamphan Thammakhanti delle Forze Armate Reali, che era giunto al campo n. 1 e dove nel 1989 fu liberato, raggiungendo ormai sessantenne Portland in Usa.

Ha raccontato questo raro testimone che la vita nel campo era durissima e a chi portava gli occhiali questi venivano confiscati in modo che non potessero leggere alcun libro, né si poteva praticare alcun sport né fare alcuna attività culturale.

 

                          

                  (Ancora un’immagine di rara bellezza orientale)

Il Re appassionato da sempre di coltivazione e botanica venne messo ad occuparsi dell’orto e della piccola piantagione di papaia del Campo, un giorno ebbe un diverbio con una guardia cui disse: “Sai che a Luang Prabang ero abituato a lavorare la terra?” “Non lamentarti e lavora” fu la risposta piena di scherno e nel marzo 1980 l’ultimo Re del Laos morì nel sonno all’età di 72  anni e venne tumulato accanto al figlio primogenito morto prima di lui.

Conclusione del testimone da Portland: “40 prigionieri entrarono nel campo n. 1 nell’ottobre-novembre del 1977, poco meno di tre anni dopo ne erano morti 24 per malattia, inedia e malnutrizione.

“Il Governo – concluse il testimone scelse  di non intervenire e far morire i deportati”.

Il principe ereditario e la principessa avevano avuto sette figli che non furono arrestati forse perché ancora bambini. Cinque vivono in Laos, due abitano ora a Vientiane, e tre a Luang Prabang. Nel campo morirono anche tre fratelli del  Re.

I giovani nulla sanno, la Monarchia Laotiana vecchia di sette secoli fu rimpiazzata da una Repubblica detta democratica e popolare, retta da un regime comunista militare che dura da 45 anni, al soldo del Vietnam comunista.

Però Soulivong Savang, primogenito del principe ereditario, il 3 agosto 1981, all’età di 18 anni, riuscì a fuggire raggiungendo i parenti superstiti in Francia. Lì, assieme agli esuli ha costituito organizzazioni per l’aiuto ai laotiani. Si è laureato in legge, sposato con una principessa laotiana in esilio, diventando ufficialmente il pretendente al torno del Laos, in attesa e con la speranza che i comunisti vengano cacciati.

Questo libro rappresenta al meglio il dovere della memoria e su un argomento che infiammò le coscienze: la guerra del Vietnam.

Il Vietnam fino alla Seconda Guerra Mondiale faceva parte dell’impero coloniale francese e con la decolonizzazione si affermò un movimento indipendentista che tra il 1945/54 diede luogo alla Guerra d’Indocina, in cui si fronteggiarono da un lato l’esercito francese e dall’altro  il movimento Vietminh legato alle potenze comuniste cinese e sovietica e guidato da Ho Chi Minh.

La Francia era appoggiata dagli Usa che con la dottrina Truman si erano posti l’obiettivo  di contenere l’avanzata comunista nel globo, ma fu sconfitta  a Dien Bien  Phu nel 1954.

Nel 1947 ancora sotto l’influenza francese il Laos diventò una monarchia costituzionale.

                                Indietro nella Storia.

 

Nel 1778/1781 i tre regni  Laos, Birmania, Cambogia vennero soggiogati dal Siam che ne fece stati vassalli

Nel 1826 la ribellione di Vientiane si concluse con l’esecuzione del sovrano, la distruzione della città, la deportazione di diverse centinaia di migliaia di laotiani e l’annessione al Siam del regno di Vientiane

Nel 1893 i francesi conquistarono Vietnam e Cambogia vincendo la Guerra Franco-siamese ma non li occuparono capillarmente accontentandosi di farne uno stato cuscinetto per proteggersi dalle colonie britanniche.

La seconda guerra mondiale indebolì il governo della Indocina francese,(la Francia infatti era stata invasa dalla Germania) e ne profittò l’Impero del Giappone che a fine 1940  mise le proprie truppe in gran parte dell’Indocina francese

Il governo nazionalista di Bangkok (capitale della Thailandia) aveva provocato alla fine del 1940 la Guerra Franco-thailandese e con l’aiuto dei giapponesi aveva ricuperato parte dei territori laotiani ceduti ai francesi ad inizio secolo.

S’indignò la corte di  Luang Prabang cui i francesi avevano garantito la salvaguardia delle terre laotiane nell’ambito del protettorato: A Luang Prabang (come compensazione) vennero annesse Vientiane, Xiangkhoang e Luang Namtha.

Il viceré Phetsarath diede una eccellente organizzazione all’amministrazione e alle istituzioni laotiane.

Nel 1944 le truppe della Francia Libera del generale De Gaulle vennero paracadutate nel Laos (la guerra era stata sfavorevole alle forze dell’Asse) ma i giapponesi li costrinsero a ritirarsi nella giungla. Le truppe giapponesi costrinsero  l’8 aprile 1945  il re Sisavang Vong a proclamare l’indipendenza sotto la protezione di Tokio. Ma il tracollo giapponese portò a ritirare le truppe dal Laos e nel 1945 di propria iniziativa il primo ministro Phetsrath (tale era stato nominato dai giapponesi) confermò di propria iniziativa l’indipendenza instaurando in Laos un’effimera repubblica detta Pathet Laos.

Il fratello di Phetsrath e il fratellastro dopo un lungo soggiorno in Vietnam si erano avvicinati alle posizioni dei comunisti Viet Minh di Ho Chi Minh.
Però i francesi riorganizzatisi nelle aree rurali ripresero nel 1946 il controllo del paese che divenne parte della neonata Unione Francese. Il Regno del Laos fu proclamato l’11 maggio 1947 quando fu rimesso sul trono Sisavang Vong e  restò Re fino al 1959. Fu quindi uno dei sovrani più longevi avendo regnato 55 anni.

Pur se molto amato dal suo popolo fu criticato nel secondo dopoguerra dagli indipendentisti laotiani per le sue simpatie filo-francesi.

Nel 1954 quando il regno ottenne l’indipendenza scoppiò una guerra civile durata 20 anni fino al 1974.

Ma nel 1973 con gli accordi di Parigi che stabilirono la cessazione delle ostilità in Vietnam si  giunse ad un accordo tra i non-comunisti e il fronte delle sinistre guidate dal Pathet Lao per dar vita ad una coalizione governativa. Nel 1974 entrava in carica un governo di unità nazionale e Souphanouvong, leader del Pathet Lao, assumeva la presidenza del Consiglio nazionale e le forze militari straniere lasciavano il Paese.

NeL 1975 la destra fu estromessa dal Governo  e il Pathet Lao estese il controllo su gran parte del paese inclusa la capitale Vientiane.

Nel 1975 Savang Vatthanà abdicò e fu proclamata la Repubblica democratica popolare.

I primi anni di questo regime furono caratterizzati da un esodo massiccio verso la Thailandia e con formazioni politico-militari sostenute dagli Usa ma nel 1989 fallì il tentativo insurrezionale del Fronte unito di liberazione mazionale.

Nel 1990 con la dissoluzione dell’Urss e senza gli aiuti sovietici divennero più intense le relazioni con i paesi occidentali. Nel 1995 ci fu il ripristino degli aiuti economici da parte di Washington.

Nel 1995 Laos, Thailandia, Vetnam e Cambogia hanno concluso un accordo per lo sviluppo economico del bacino del Mekong che attraversa il Laos e nel 2006 ha assunto l’incarico di capo di stato C. Sayasone del Partito rivoluzionario del popolo laotiano.

Però sembrano scomparsi dalla memoria quegli anni tra il 1977 dei prigionieri internati nel Campo 1  al 1980 della morte dell’ultimo Re del Laos, Savang Vatthanà ma continuano i commerci, i viaggi ecc. La memoria non deve aver spazio.Come ha scritto il prof. Giulio Vignoli il Laos è tuttora una repubblica comunista totalitaria o meglio una tirannide militare di comunisti duri e puri alla vecchia maniera dove sventolano bandiere rosse con la falce e il martello gialli, nella quale certe notizie devono essere assolutamente ignorate e nascoste.

I vecchi sanno solo che la Famiglia Reale fu portata al Nord e poi sparì.

 

 

                                

                      Maria Rosaria Dominis

                          LA RICERCA

 

 

                   

                                        (L’Autrice)

 

Il libro ha un sottotitolo Vita di una donna del secolo scorso e questo è il vicinissimo ‘900. Racconta la storia di Monica, la protagonista che nelle ultime pagine ha sui 60 anni, per cui temporalmente si colloca dal 1950 circa in poi.

La mamma di Monica era rimasta  vedova in tempo di guerra e la bimba è spesso ospite di  Massimiliana, la di lei sorella e quindi sua zia, a villa Ercolano in Toscana.  E' di  proprietà di suo marito, uno svizzero abbiente e questa villa, ricca di bellezza naturale ma anche resa quasi “magica” dai ricordi d'infanzia e dalla consuetudine con i cugini è  l’altra indiscussa protagonista del racconto, per l’amore che Monica avrà sempre per essa. Anzi l’intreccio che non dà un attimo di tregua come in un giallo o in una fiction di cui si vuole a tutti i costi conoscere il finale si anima proprio dell'attrazione  sentimentale  di Monica prima per un cugino suo coetaneo che però si fa prete e va missionario in Africa, poi per il cugino “grande", nato dal primo matrimonio   dello zio svizzero, rimasto vedovo e che  poi ha sposato Massimiliana. Il nome maschile della zia ben si addice  ad una donna fiera e di polso. La prima sorpresa del libro è  quando   questa zia, poco più che ventenne  e da poco rimasta orfana di padre, nel 1936 con zio Emilio (fratello di sua madre) va in visita ad una tonnara a sud della Sardegna per vedere la "mattanza".

Lì conosce Bernard,  il possidente svizzero anche lui invitato a quello spettacolo, che sposa un anno dopo. La ragazza lo conquista perché non è turbata dallo spettacolo ma mostra di capire che per quei pescatori “il tonno è vita” e quindi questa pratica non le appare tanto crudele quanto piuttosto il modo della loro sopravvivenza con le proprie famiglie.

E quando i pescatori cantano commenta: “cantano perché il canto dà ritmo al loro lavoro, anche per ringraziare Iddio. E per farsi coraggio". Un aspetto forte del libro è l'interesse per un’attività come questa  ma anche per il  commercio  dei fiori  quando  Monica  si  trasferisce   per lavorare a Nervi, periferia Est di Genova: sono esempi di quelle aziende o imprese italiane, diventate fiorenti nel ‘900, caratterizzando la nostra storia di gente industriosa che sa aver cura di fonti di guadagno antiche come appunto le tonnare ma anche di nuove possibilità  come sono stati “i fiori” per la riviera ligure, prima di essere soppiantati quasi del tutto dalle coltivazioni olandesi.

Basta salire per le colline sopra Nervi e si ammirano tuttora le serre di vetro o plastica dove venivano coltivate e conservate le piante.

Nel libro l’amore di Monica per i fiori, il suo gusto  la portano dopo aver lavorato in un negozio come fiorista ed aver imparato,   non a caso  a Genova e proprio Nervi,  che  sono state famose per i Parchi realizzati   da famosi architetti del verde. Monica è scelta per abbellire il giardino della villa ligure della signora che la ospita. Un pregio del suo carattere è l’aver imparato osservando, impegnandosi, pensando. E’ diventata come un’erede di queste tradizioni dell'Ottocento genovese e dei suoi "magici" splendori di tante ville, oggi meta di turisti.

Nel libro c’è anche una tragedia, la vita di un bimbo  spezzata   perché annegato nella fontana di villa Ercolano. Un fatto che condizionerà tutta questa grande famiglia facendoli convivere con il senso di colpa. Si respira pure nel racconto quella nobile tradizione per cui a chi si occupa di una tenuta per i propri padroni, viene dato il massimo rispetto,  facendolo diventare “uno dei propri”, un familiare.

Vorrei sottolineare a proposito del racconto alcuni momenti descrittivi di particolare pregio. Il ballo delle debuttanti, Monica e la cugina Rose, che è pure il momento in cui per la prima volta il cugino “grande” sembra interessarsi alla protagonista ma lei non se ne accorge ed è come se - per il pudore di quei tempi - due mani si sfiorassero, per subito lasciarsi. Resta nell’aria un profumo di giovinezza che durerà tutta la vita e diventerà struggente nei ricordi.

Anche il fratello gemello di Rose, il cugino che va missionario in Africa, si sottrae all’amore che sembrerebbe esser nato spontaneo con Monica, per seguire questo ideale più grande.

In proposito   vorrei   ricordare quell’onda di passione per l’Africa che coinvolse molti portandoli a lasciare l'Italia per fare qualcosa di bene per quei fratelli lontani: alcuni andavano d’estate ad insegnare, altri insegnavano tecniche ingegneristiche per costruire edifici o per scavare pozzi per l’acqua, altri offrivano la loro sapienza medica.

Fu un'esplosione di volontariato a favore di fratelli africani e quando si capì che il modo vero per aiutare era farlo finanziariamente proprio là dove questi vivevano, si verificarono anche doli, furti, distorsione di beni regalati, corruzione, tante insensate guerriglie perché la cultura occidentale non era riuscita a trasporsi e ad educare come sperava: è stato il “nostro" mal d'Africa. Questa mia riflessione nulla toglie all'arte della scrittrice Maria Rosaria perché il libro si apprezza non solo per le   storie umane   che ne   sono l’intreccio, ma per la sua capacità narrativa. Riguardo il carattere di Monica valgono queste parole della zia Massimiliana che così dice di lei bambina: "sembra timida, ma ha grinta, vedrai quanta ne tirerà fuori al momento giusto. Guarda a mento basso, di sotto in su, ma quando ti fissa i suoi occhi sanno ciò che vogliono". Una descrizione che può adattarsi proprio al senso del voler essere indipendenti anche dalle madri e dalla famiglia che ha caratterizzato tante vicende di giovani donne del ‘900, aprendo la strada a figlie e nipoti.

E, altro momento descrittivo di grande intensità, è la magia dei colori. Ben s’addice ad un libro che parla anche di fiori e di natura nel suo splendore. "Monica  - dice la scrittrice – vedeva le parole colorate. "Onomastico" era  giallo caldo, "compleanno” azzurro, Natale “verde scuro” (come l’abete che si decora), “primavera” rosa a pois bianchi (come un primo vestito da adolescente che ti fa sentire bella), “estate” rosso screziato d’oro (come i suoi tramonti), “inverno” invece una parola bigia (come i doveri invernali di scuola e lavoro).  I pensieri tra parentesi li ho aggiunti io seguendo ciò che mi suscitava la scrittura e concludo che questo è un libro ricco di sorprese proprio per la scrittura attenta e creativa.

Concludo ricordando che Maria Rosaria Dominis è nata in Dalmazia, si è trasferita in Piemonte, poi in Liguria e la sua vita si è svolta tra queste due regioni. Ha dedicato alla sua Dalmazia Gli oleandri di Dubrovnik e La Panchina di pietra. In entrambi ha parlato in parte del suo sradicamento, dell’esodo nel 1948 dalla Dalmazia. Però ho scritto “in parte”, perché caratteristica della scrittrice è la volontà di superare il passato, di cui tratteggia “romanzi storici", per  guardare sempre avanti, perché il mondo non si ferma.