INDICE

 

1)   Ludovica Radif, Soldo Bifronte (Tilgher, 2004)

2)   Annamaria De Marini, Emanuele Brignole e l’Albergo dei Poveri di Genova (Termanini, 2016)

3)   Claudio Papini, Marx 1969, Attualità e Inattualità del Pensiero di K.H.Mark (De Ferrari, 2020)

4)   Dino Frambati, Io volo (Termanini, 2020)

5)   Claudio Papini, La Repubblica lungo il viale del suo tramonto (De Ferrari 2020)

6)   Giglio Reduzzi, Il declino del Parlamento (Suo blog su wix del 7/12/2020)

7)   Martina Salvante, La paternità nell’Italia Fascista (Simboli, esperienze e norme 1922-1943), (Viella 2020, dhi, Ricerche dell’Istituto Storico Germanico di Roma).

8)   A cura di Claudio Papini, Ezio Flori, Dell’Idea Imperiale di Dante, (De Ferrari 2021)

 

 

 

                                      Book Crossing

 

9)   Charles Bukowski, Seduto sul bordo del letto, mi finisco una birra nel buio,

                                                     (Edizioni minimum fax,2002)

10)Trinh Xuan Thuan, La pienezza del vuoto (dallo zero alla meccanica quantistica, tra scienza e spiritualità), (Ponte alle Grazie, 2017)

 

11)Gianpaolo Benincasa, Einstein e il Sasso – L’impossibile e la scienza (Mursia,2010)

 

12)Alan Lightman, L’universo accidentale – Sette riflessioni cosmologiche sul mondo che credevi di conoscere, (Sironi Editore 2017)

 

 

 

                                                          LUDOVICA RADIF

                                            SOLDO BIFRONTE

 

                                                   

 

 

                    

 

 

Ho intitolato  “I classici” la pagina del sito dove come prima recensione inserisco questa mia del libro che la professoressa Ludovica Radif, nel 2004, mi mandò in dono.  Sono loro, I classici,  ad insegnarci come si diventa uomini, sono loro ad indicarci la strada tanto più che pur in epoche diverse l’uomo rimane uguale a se stesso in coscienza,  paure, voglia di migliorare.

E inizio la pagina appunto con Soldo Bifronte di Ludovica Radif.

Notate anche la dedica dell’Autrice con il mio nome nel contorno di  un immaginario soldo e con al centro la sua firma come compare in apertura del piccolo, elegantissimo libro pubblicato dalla raffinata editrice Tilgher: un particolare per farvi capire la sua fantasia, la sua voglia d’invitare alla lettura con un sorriso perché Radif è un’Autrice mai banale. La professoressa ha collezionato titoli di studio e tanto, tanto sapere, ma appunto questa sua foto dove è in dialogo con un'amica, una collega, ce la presenta com'è: moderna, simpatica, che sembra invogliarci a parlare con Lei. Nessun distacco cattedratico da parte sua pur se si è laureata all’Università di Genova in Filosofia (storia della Filosofia Antica) nel 1993 e poi nel ‘96 in Lettere Classiche (Glottologia), conseguendo il dottorato di Ricerca in Filologia greca e latina nel 2000. Dal 2002 è docente a contratto, dal 2016 Ricercatore-Assistente specializzato e, da allora, ha tenuto moltissimi corsi di Pragmatica, Sociologia della Comunicazione, Linguistica generale, Filosofia e Teoria dei Linguaggi presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Genova. Le sue competenze linguistiche spaziano dal Greco Moderno allo Spagnolo, all’Inglese. I suoi interessi vanno dalla Filologia e Interlinguistica, alla riscoperta della commedia antica nel Quattrocento e nel Cinquecento, dal codice alla scena. E’ esperta di tecniche di traduzione e problemi d’adattamento del testo alle differenti epoche. Ha avuto incarichi all’estero come sulla Commedia umanistica presso l'Università Masarykova di Brno (Czech Republic).

 

Forse  pensate che potevo tralasciare di darvi tante notizie, da me reperite su Internet, tanto più che da sempre sostengo sia il libro a dover parlare da sé al di là di presentazioni, prefazioni ecc. Ho fatto un'eccezione per due motivi: il primo che pur non avendo mai conosciuto di persona Ludovica, il suo delizioso libretto mi è rimasto nella mente e nel cuore.

 

Nella vita ci sono dei debiti. I miei non sono mai stati materiali, dato che fin da bambina m’insegnarono ad entrare in un negozio per comprare solo se già avevo deciso cosa  e quanto spendere, ma sento debiti morali e sono fin molto più pressanti.

 

Non ricordo a che giornali collaborassi nel 2004, ma non sempre quando si è sotto padrone si può scrivere di ciò che si vuole. Perciò ora che sono anziana consiglio a chi intraprende la professione del giornalista di battersi fino a sopraffare il proprio caporedattore (colui che decide cosa metterà in pagina) per proporre e scrivere proprio ciò che lui stesso vuole, ciò in cui lui stesso  crede.

 

Non solo – e questo è il secondo motivo – Soldo Bifronte mi ha portato anche un soffio di nostalgia: Sarei diventata così brava come Ludovica se mi fossi fermata all’Università per migliorare la mia tesi? Me lo aveva chiesto il mio correlatore Enrico Turolla che per la laurea ottenne per me il 110 e lode e medaglia d’argento, ma non volli. Per un attimo, leggendo Ludovica, ho visto campi sconfinati di sapere in cui addentrarmi, però allora ero troppo attratta dal dar voce all’umanità degli altri cosa che ho potuto fare con trent’anni di giornalismo. La mia vocazione è stata scrivere, soprattutto scrivere per gli altri e degli altri (dimenticandomi della banalissima me stessa). Non solo, dato che mi laureai in Lettere Classiche all’Università di Genova nel 1965, se avessi continuato forse sarei stata insegnante di un’allieva così dotata come Ludovica, laureatasi rispetto a me 28 anni dopo.

 

Ancora una piccola divagazione. L’elegante edizione Tilgher del libro dell’Autrice (da allora ne ha scritti molti, molti altri), mi ha riportato alla memoria la raffinatezza del negozio di porcellane fondato da Luigi Radif, che dal 1820, da sette generazioni, continua ad abbellire via San Lorenzo a Genova, dove tanti giovani di buon gusto e in procinto di sposarsi da sempre decidono di fare la loro lista nozze. Però quando mi sposai io, - ero al terzo anno d’Università e Turolla quando gli dissi che per quindici giorni di quella lontana primavera non avrei potuto frequentare le lezioni perché mi sposavo, commentò assorto “Povera bambina!” -, allora in quel lontano 1963 le liste nozze erano ancora cosa quasi sconosciuta e non praticabile. Ogni dono sarebbe stato ben accetto dagli sposi, anche il più orrido o improbabile, ma comunque perché fatto con il cuore nel tempo sarebbe divenuto così caro da non potersene più separare. Pensando al negozio Radif ritengo che come si dice “la classe non è acqua”, lo stesso si può pensare per l’eleganza di scrittura e di presentazione connaturata a Ludovica e pur se applicata a tutt'altro settore.

 

Ma bando ora alle nostalgie per ciò che poteva essere e non è stato.

 

Inizio da una frase, che porta dritto nel cuore del testo da lei tradotto e commentato. Le parole di Penia (la Povertà) rivolte a Farfuglio ne La commedia della ricchezza (o il Pluto) di Aristofane: “Rispetto a Pluto io li rendo migliori gli uomini, di mente e di aspetto. A contatto con lui prendono la podagra e la pancia, hanno le gambe gonfie e sono schifosamente grassi, vicino a me magri e sottili come vespe, e molesti con i nemici”.

 

Risposta scherzosa, ma non troppo, di Farfuglio: "Con la fame, è probabile sì che tu procuri loro la vita da vespa!”

 

L’elegante sapienza di ricercatrice di Ludovica risalta nella scelta di mettere a fronte il testo di Aristofane, ultimo fra le commedie superstiti dell’autore e rappresentata nel 408 a.C., e poi nel 338 a. C. , con il testo di Rinuccio Aretino che nel 1415-16, durante il suo soggiorno a Creta, si accinse a tradurlo in latino.

 

La trama è presto raccontata: Cremilo (cioè Farfuglio, il personaggio citato del dialogo con Penia) per poter dare un futuro migliore al proprio figlio, va a consultare a Delfi l’oracolo per eccellenza dell’antichità, Apollo. Il dio gli risponde di affiancarsi alla prima persona che  incontrerà e di non lasciarla prima di averla convinta ad accompagnarlo a casa. Questa persona è il dio Pluto (la ricchezza). La favola antica c’insegna da subito che Pluto, è stato accecato da Zeus per invidia degli uomini onesti e di qui deriva l’apparente ingiustizia della distribuzione del denaro. Dall’Aretino la sezione del Pluto che corrisponde all’entrata e alla permanenza in scena della Povertà, è stata chiamata Fabula Penia con un rovesciamento del nome del protagonista. Attraverso l’Aretino, uomo dell’Umanesimo, abbiamo l’occasione per riflettere sulla vera centralità della commedia, sospesa tra Povertà e Ricchezza.

 

Ci spiega Ludovica: “L’architettura narrativa esposta nelle prime righe della Fabula (31-130) è da noi riutilizzata nelle sue linee essenziali, come cornice per una nuova commedia dei soldi, sintesi delle due”. Una tragicommedia, dunque e quant’è bello questo "noi" del plurale maiestatis, naturale per  me dai  tempi dell’Università e usato da me talvolta in famiglia per darmi un po’ di tono, ma provocando solo sconcerto. “Sei tu che parli o chi c’è con te?”, mi prendevano in giro marito e figli.

 

Tre i brevi capitoli del libro cioè la  traduzione de La commedia della ricchezza di Aristofane, La Tragicommedia dei soldi, La Commedia della Povertà di Rinuccio Aretino. E l’idea sostenuta dall'Autrice è “una sostanziale natura bifronte del denaro: visto da Aristofane, visto da Rinuccio; conquista attraverso il duro lavoro o bottino di un furto, bene effimero o patrimonio duraturo, Ricchezza-Povertà, Povertà-Ricchezza". E ancora: "Il soldo è una terminologia ricca di storia e d'esperienza, che affonda le radici nell’idea di solido, (oro) massiccio di romana ascendenza, e diviene comune in ambito europeo all’epoca di Franchi e Longobardi, giungendo fino al secolo scorso a indicare un sottomultiplo della lira, ma anche traslato ai giorni nostri come sinonimo di denaro, ricchezza.

 

Delizioso!, e ricordando come possano essere fulminei certi giudizi su di noi, ricevuti da persone che poco o niente ci conoscono, mi colpì quello di un anziano ingegnere, collega di mio marito in Ansaldo. Con sua moglie c’invitarono con altri amici a casa loro, una  villetta in riviera. L’ingegnere mi disse mentre conversavamo in un prato verdeggiante che circondava la casa: “Lei mi sembra una fachira..." Aveva ragione, nella vita spesso mi comporto come se il mio giaciglio fosse un immaginario e spartano letto di chiodi. Perciò il bel soldo con intorno il mio nome - la dedica  insolita e preziosa di Ludovica Radif, premessa al suo antico dono - mi fa pensare di me che appartengo a madama Povertà. Questa, Penia,  divenne Pluto nella versione umanistica e, non a caso, proprio in Aristofane c’è la distinzione tra povero e accattone. “La vita di un mendicante è vivere senza aver nulla, mentre il regime del povero è quello di risparmiare e portare avanti un’attività, senza che niente gli avanzi, ma senza che niente gli manchi". Condivido!

 

 

 

 

                                                             Annamaria De Marini

                              Emanuele Brignole e L’Albergo dei Poveri

                                                    di Genova

 

 

                                              

 

Un grazie alla professoressa Annamaria De Marini che ha ripubblicato nel 2016 con Stefano Termanini un libro scritto 20 anni or sono e la differenza è già evidente nei due titoli: con Termanini  Emanuele Brignole e L’albergo di Poveri di Genova, con Giuffrè, nel 2000, il titolo è stato L’Albergo dei Poveri apre le porte all’Università. La nuova pubblicazione è ricca d’importanti approfondimenti ed è incentrata  sulla figura e la famiglia di Emanuele, il lungimirante fondatore.

Termanini a Genova gode prestigio avendo tra l’altro edito una monumentale opera sul cardinal Siri, tanto caro alla memoria dei genovesi, e altri libri di genovesi cattedratici e non solo, però sempre brillanti scrittori.

Questo testo ci ricorda l’importante Storia della Carità in Genova. Non a caso la prima pagina riporta una lettera d’encomio da parte del cardinal Angelo Bagnasco ed ha un’introduzione di Giovanni Toti, presidente della Giunta Regionale della Liguria.

E’ singolare, ma non raro, come talvolta i nipoti raccolgano - e lo vogliano fare con tutti se stessi – il massimo insegnamento dei nonni e pur se Annamaria non conobbe il suo, questi è stato un medico genovese, un luminare, che curava gratis chi non poteva permettersi di contribuirgli adeguata parcella e per questo nell’Albaro bene di un tempo ebbe molta stima.

In questo libro spicca la figura del fondatore dell’Albergo, Emanuele Brignole, oggetto d’invidie così grandi che venne accusato di aver troppo abbellito l’edificio con statue splendide e splendida architettura senza però aver impiegato quei soldi nella vera carità per i poveri.

                                        

                                      (Emanuele Brignole di Giuseppe Molinari, atrio superiore, 1857)

 

E dovette risponderne davanti al Senato e con tutta probabilità in questa occasione padre Massimiliano Deza compose la famosa Difesa dell’Albergo dei Poveri che si va edificando in Carbonara. Il Brignole rimase così colpito dalle accuse da ammalarsi e farsi curare sotto il falso nome di Gabriele Mennuo. Annamaria ricorda in proposito il libro del prof. Paolo Moruzzi, Stanislao Omati da Borgo San Donnino e il Signor Ipocondriaco, una disputa medica del Seicento intorno al caso di un paziente illustre, in cui racconta nel dettaglio la storia della depressione che colpì Emanuele dopo le accuse che gli furono rivolte.

Noterei la differenza di comportamento tra il gentiluomo Emanuele e i tanti facce-di-tolla che si aggirano inverecondi nella politica nostrana, restando non solo indenni, anzi quasi corroborati dai disastri che generano: tali politici continuano nelle loro stucchevoli passerelle come di recente a Bergamo dove si sono recati tutti, ma a contagio finito.

Invece durante la costruzione dell’Albergo (1656-1835 con aggiunte posteriori al 1835), Genova conta sei epidemie di peste nel solo ventennio dal 1493 al 1510. Quella del 1493-94 fu così devastante da contare 5000 vittime, ma nel 1656 in un’altra terribile epidemia di peste, durata un anno e mezzo, su una popolazione di 70mila abitanti i morti furono ben 50mila.

E’ il Seicento genovese un secolo di splendore dell’architettura e delle arti con il filone della pittura legato al Barocco e alla Controriforma (Bernardo Strozzi, Valerio Castelli, i Carlone, i Piola cui si affiancano in quanto operarono per alcuni anni al soldo di committenti genovesi Rubens e Van Dyck). Non solo, precedentemente durante la pestilenza del 1524, fu inaugurato il Lazzaretto alla Foce in cui perse la vita a 54 anni lo stesso Ettore Vernazza che lo aveva attuato. Nella pestilenza del 1493 era entrato in contatto con la nobildonna genovese Caterina Fieschi Adorno (Santa Caterina da Genova) e a seguito di questo incontro, per lui determinante nel confermarsi nella sua opera caritativa, aveva fondato la Compagnia del Divino Amore i cui adepti, appartenenti alle migliori famiglie genovesi, si chiamavano Fratelli, operavano in segreto e con le loro ricchezze e nel loro tempo libero realizzavano opere non solo di carità anche di respiro sociale ed economico. Questa storia antica non manca di ricordarci quanto siamo fragili pur in momenti storici di cosiddetto splendore come fu il Seicento per Genova.

Nel libro Annamaria ci ricorda che  ad inizio di quel secolo, quasi a presagire un nuovo spirito, mutò l’atteggiamento nei confronti del povero. Prima era considerato quasi “sacro” nel senso che il sistema assistenziale ecclesiastico prevedeva per i benestanti l’obbligo di soccorrere “il povero di Dio”, rappresentante di Cristo in terra. La sua figura venne degradata e criminalizzata e si arrivò alla scelta della reclusione, separando fisicamente i poveri dal resto della società e mettendoli nei reclusori dove potevano svolgere lavori: il lavoro con la preghiera li avrebbe redenti. Il primo reclusorio era sorto a Lione dove già nel 1614 l’Ospedale di San Lorenzo era stato adibito ad accogliere i mendicanti della città. A metà del Seicento Genova fu la prima a dotarsi di un proprio reclusorio, cioè l’Albergo dei Poveri. Ma esperimenti di reclusione erano stati realizzati in Olanda, Inghilterra e anche appunto in Italia, a Roma e Bologna e con il Lazzaretto alla Foce, una delle soluzioni trovate per il pauperismo dilagante.

Quando i poveri entravano nell’Abergo erano divisi in uomini e donne ed avviati ai laboratori dove veniva loro insegnato un mestiere.

Questo libro è un’affascinante Storia della Carità in Genova con i nomi di Bartolomeo Bosco (che costruì il primo nucleo dell’Ospedale Maggiore di Pammatone (una delle prime forme europee di ospedale civico), con imprimatur della bolla Pia quaelibet (1472) del ligure papa Sisto IV (Francesco della Rovere). Fu l’accorpamento in un unico ente di tutti gli ospedali cittadini ad esclusione di San Lazzaro riservato ai lebbrosi. Seguono in questa “esplosiva” storia genovese della solidarietà i nomi di Caterina Fieschi, Ettore Vernazza, Gaetano di Tiene, Virginia Centurione Bracelli, San Gerolamo Emiliani. C’è il ricordo anche degli Ordini ospedalieri cavallereschi.

Una grande compassione suscita quel settore critico della carità che riguarda gli “esposti” cioè i bimbi abbandonati che attraverso “la ruota”, dove venivano lasciati, confluivano all’Ospedale di Pammatone. Ettore Vernazza dispose che fossero accolti in appositi locali nei pressi del Ridotto degli Incurabili in modo che protettori benestanti si occupassero della loro istruzione: i maschietti venivano poi trasferiti in botteghe artigiane, la bambine erano seguite da donne di onesta fama. Poi potevano abbracciare la vita religiosa, sposarsi o restare per assistenza agli infermi presso l’Ospedale di Pammatone. Se si sposavano i protettori le fornivano di dote. Grazie a Giovanni Battista Salvago, uno dei Fratelli della Compagnia del Divino Amore, questi bimbi abbandonati, cioè gli esposti, detti anche i “Putti spersi” ebbero una loro sede in una villa nella zona del Bisagno.

Tornando al protagonista Emanuele, affascinante è la storia della sua famiglia originaria di Val d’Aveto e il suo consolidarsi in fama e ricchezza anche attraverso una politica oculata di matrimoni. Non a caso, il pensare in grande di Emanuele volle dare un  nome appropriato all’Albergo che occupava ben 60mila metri quadri: “Reggia dei Poveri!

Un libro da leggere e rileggere per entrare a fondo in quei due secoli di crescita di Genova che iniziò a  declinare dopo il grave bombardamento del 1684 da parte della flotta francese di Luigi XIV. La costruzione dell’Albergo durò appunto quasi due secoli e  durante la Grande peste del 1656-7 morirono anche Cristoforo Monsia, il direttore dei lavori e due degli architetti, Girolamo Gandolfo e Giovanni Battista Ghisa.

E’ dunque anche una storia di  uomini e donne, coraggiosi e determinati, al di là delle proprie fragilità umane (si pensi una volta di più a quanto soffrì anche fisicamente Emanuele per le accuse che gli furono rivolte davanti al Senato).

La mia conclusione e molto accorata è che i politici moderni, i nostri nuovi santi, si muovo solo a tempesta passata: non prendono nemmeno in considerazione l’idea di poter essere contagiati in un’assistenza diretta:si sentono troppo importanti e necessari.

Ora l’Albergo dei Poveri è in parte in uso all’Università di Genova con parti destinate a sede delle Facoltà di Giurisprudenza e di Scienze politiche e vi sono progetti sia per la fruizione da parte del pubblico del patrimonio artistico presente negli ambienti di rappresentanza sia per la realizzazione di una nuova biblioteca con 250 posti a sedere e capienza per 100mila volumi e cinque nuove aule con un totale di 360 posti a sedere.

Ancora un elogio alla professoressa De Marini, oltre che per la ricerca storica, per il suo stile chiaro, senza fronzoli o sbavature, che rende la lettura di  agevole e veloce comprensione accrescendone l’interesse.

Un pregio del libro, dato che ormai abbiamo acquisito che le immagini sono l’occhio della pagina, consiste  nelle  foto d’epoca d’inizio del Novecento: come il laboratorio di ricamo,  la tipografia per l’insegnamento, la cucina a vapore, il refettorio dell’asilo affollato da circa cento bambini. Quanto ai numeri, cosa assai importante, per darci la dimensione dell’opera se gli assistiti registrati nel 1676 erano 971, salgono a 1169 nel 1678 e a 1377 nel 1679. Tale crescita fu anche dovuta alla carestia del 1678 che causò un’ondata di miseria e però i decessi nel 1679 per epidemie interne furono di 218 persone oltre i 51 anni e nel 1693 morirono 150 bambini sotto i 10 anni.

E gli ignoranti del nostro tempo strepitano contro i tanti decessi da covid 19 nelle strutture per anziani senza capire la logica di quanto è avvenuto e che quasi certamente non si poteva evitare.

Una foto da segnalare per intensa bellezza è l’Immacolata Concezione di Pierre Puget sull’altare maggiore nella Chiesa dell’Albergo, ma un’altra di strepitosa bellezza è la veduta dall’alto dell’Aula Magna che sembra una nave quasi a dover simbolicamente sfidare nuovi eventi calamitosi perché la cultura è certo un modo per superare le avversità.

Infine nel retro di copertina è questo suggestivo Ritratto di Emanuele Brignole, probabilmente ad opera di Giovanni Battista Merano, che è nella sala delle adunanze dal 1678: il nobiluomo genovese indica sullo sfondo la sua grande opera assistenziale: L’Albergo dei Poveri.                                               

  

                                   

 

 

 

 

                                               Claudio Papini

                                            Marx 1968 V

                    Attualità e inattualità del pensiero di Carl Marx

 

                                      

 

 

E’ arrivato anche il V libro su Marx del professor Claudio Papini, che dopo 25 anni d’insegnamento nei licei quasi sempre  classici, ora dirige la collana Amici del Libero Pensiero per De Ferrari, Editore laureato in filosofia e quindi meglio in grado di apprezzarne il valore.

    La copertina è in stile pop art e  strizza l’occhio alla celebre serigrafia su Marilyn di Andy Warhol.

                                 

In breve la Pop (= Popular Art) nacque nel Regno Unito e in USA tra fine anni’50 e inizio anni ’60. Gli artisti desideravano rappresentare oggetti della quotidianità e quando Warhol, illustratore pubblicitario di successo,  si entusiasmò alla stampa-serigrafia-fotografica e ritrasse Marilyn era il 1962 l’anno della morte della diva, ma la foto apparteneva ad una pubblicità del film Niagara del 1953.

Aria di novità in contrasto con immagini più togate che Claudio Papini ha usato per le precedenti copertine degli altri suoi 4 volumi su Marx. Potrebbe averlo fatto per una reminiscenza inconsapevole oppure, con un pizzico di gogliardia, con questa cover ha messo a confronto Marx, filosofo-icona e Marylin, struggente icona di bellezza femminile. Marx/Marylin gran bella coppia!

In questo volume Papini  ricorda la sua tesi di laurea e quelle di specializzazione su Karl Marx.

Nel primo volume Marx 1968, edito come i quattro successivi con un’elegante copertina nei colori del rosso e del nero, come per gli scritti di Daniel Massé sull’origine delle religioni e in particolare della nostra cristiana, che l’autore ha rivisitato,  Papini precisava proprio nella Nota introduttiva di avervi voluto raccogliere, in occasione del bicentenario (2017) della nascita del filosofo,  tutti gli scritti che lo riguardavano e che aveva composto tra il 1970 e il 1977. “Questo perché Marx -e non per una mozione d’appoggio alle formazioni politiche che si richiamano con maggior o minor sincerità e coerenza al suo pensiero!- non è certo 'un cane morto’ – precisava -ma è da considerarsi ‘un classico’ per i suoi testi: Il Manifesto del Partito Comunista (scritto con Engels), Il Capitale (Critica dell’economia politica), le Teorie sul plusvalore”.

In questo volume che ha per titolo Attualità e inattualità del pensiero di Karl Marx, solo a p.92 cioè alla metà del volume di 180 pagine, Papini ci spiega perché ha voluto scriverlo, con questa Avvertenza: “i due capitoli che seguono (con le rispettive premesse) e la conclusione costituivano l’appendice alle Tesi di perfezionamento in Filosofia ‘Sul rapporto fra la filosofia e il pensiero di Karl Marx’, discussa nel maggio 1976. Si tratta dunque di pagine legate a quelle che rappresentavano uno sviluppo e un approfondimento dell’originaria tesi di laurea”. Concludeva l’Avvertenza con una domanda “che cos’è l’Italia?” per farci riflettere che “solo a questa nostra variegata totalità di significato va commisurata ogni ideologia o teoria politica non autoctona”.

Il libro non è di facile lettura pur se lo stile è chiarissimo.

Il libro è complesso come lo è la riflessione sull’uomo e sul suo esistere perciò scelgo di estrapolare dal contesto un pensiero di Giovanni Pico, conte della Mirandola, nel suo De hominis dignitate. Papini ne cita queste parole (p.23 in nota): “Dio accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: ‘Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”. Parole improntate allo spirito religioso rinascimentale però nelle pagine successive viene approfondito il concetto di coscienza con questa riflessione: “il processo storico-sociale che è costituito da un nesso triadico di individualità, intersoggettività, oggettività articolandosi in questi tre momenti viene a mostrare tutta la difficoltà che scaturisce da un suo possibile inquadramento concettuale… Lo spazio del conoscere e del significare che risente dell’apporto frammentario e organico della realtà dell’individuale, dell’intersoggettivo e dell’oggettivo… non ci fa raggiungere facilmente l’unità organica di questi tre momenti”.

Ancora con parole del Professore: “per Marx la capacità di prevedere e d’ideare è un fatto essenzialmente storico che riposa sullo sviluppo stesso, lunghissimo, dell’azione, del fare per migliorare le condizioni della sopravvivenza”.

Continua l’analisi: “come già in Feuerbach la dialettica sensibilità–sovrasensibilità si risolve a tutto vantaggio della prima … Il pensiero non è secondo l’accezione tradizionale della riflessione filosofica, un principio autonomo ma soltanto un modo (nemmeno co-originario) nell’ambito del processo cosmico dove la storia della natura e la storia dell’uomo si collegano in modo inscindibile…Di natura sensibile è pure l’elemento stesso del pensiero perciò la realtà sociale della natura, la Scienza umana della natura, la Scienza naturale dell’uomo sono espressioni equivalenti”.

Mi sono soffermata su queste parole per far capire il cuore di questo libro sul pensiero di Marx.

Ma prima e dopo c’è una carrellata su concetti fondamentali:

-bene economico che è il contrario di bene libero. E i beni economici si dividono in beni di consumo per soddisfare direttamente bisogni (cibo, vestiario) e beni di produzione (come gli utensili) usati per produrre altri beni e quindi soddisfare indirettamente bisogni.

-lavoro come fondamento del valore (divisione fra lavoro manuale ed intellettuale)  e in corollario lo sfruttamento…

-economia politica

-le classi

Pagine interessantissime sono costituite dall’analisi di Potere assoluto, Terrorismo.

Il Professore precisa a questo riguardo: “Le realtà storiche in cui il potere politico è di fatto (se non di diritto) assoluto sono purtroppo casi frequenti ma eccezionali” e derivano “da un disordine nell’ambito di un determinato ordinamento istituzionale”. “Ciò che ebbe a dire Goethe parlando dei suoi connazionali e cioè che preferivano l’ingiustizia al disordine, può essersi mostrata accentuata caratteristica in determinati periodi della storia germanica”. Allo stesso modo “appena comincia a salire l’onda del disordine, i meccanismi latenti nei gruppi sociali che si sentono minacciati, cominciano a porsi in azione… Le ideologie del terrorismo (che non è solo ‘affaire’ di pochi) sono degenerazioni di una realtà nelle quali una dottrina per determinate condizioni e circostanze storiche viene imposta come realtà di giudizio, come metro di valori e il fatto che trovi consenso mostra la tragica necessità che viene a legare arbitrio, consenso e sudditanza”.

Quindi segue una conclusione su “Autocomprensione" e "Realtà" che arriva giusto alla pagina già citata con la domanda “cos’è l’Italia?”

Infine due capitoli basilari: “Sulla società cristiano-borghese” e “Sul problema del crollo del sistema capitalistico”.

A p.147 un illuminante parallelo tra Croce e Marx. Il primo (Croce) dà come avvenuto il progresso tecnico e non ce lo spiega nel suo divenire, inoltre si sofferma sulla devalorizzazione che il capitale subisce per effetto del progresso tecnico. Ne consegue l’accrescersi del saggio di profitto e non la sua caduta.

Il secondo (Marx) non ha mai trascurato la devalorizzazione del capitale derivante dal progresso tecnico, ma lo ha concatenato come fenomeno interno al processo di valorizzazione e che genera una posizione preferenziale per l’impresa nell’ambito della concorrenza.

Seguono pagine ardue su questo tema con citazioni da Smith e Bauer.

Però la conclusione ci riporta al nucleo del discorso con queste parole “Marx ebbe a disdegno qualsiasi accusa di idealismo e di messianismo, rivolta alla sua concezione che considerava scientifica senz’altro. Identificando sulla scia del pensiero di Feurbach, genere umano con società, Marx fa oggetto della propria indagine lo sviluppo e il funzionamento della società civile e afferma che l’anatomia della società civile è da ricercare nell’economia politica.

Per concludere: “Scienza della società, Scienza della storia ed Economia politica (criticamente reimpostata secondo il pensiero di Marx) fanno parte di quell’esteso territorio del sapere che oggi possiamo riconoscere, con qualche forzatura, articolato nelle varie Scienze sociali, nervature del sapere che ha per oggetto il macrocosmo Società.

Mi scuso innanzi tutto con l’Autore, ma anche con i Lettori, per questa recensione che è andata avanti a “colpi d’accetta” su pensieri e riflessioni molto, molto articolati e profondi, cercando però di rendere il senso e il nesso del libro stesso.

 

                                                  

 

 

                                          Dino Frambati

                                                Io volo

 

                            

 

 

“Volo perché volare t’insegna e ti costringe ad un ordine mentale rigoroso e t’insegna che non si può e non si deve mai sbagliare” è questa la frase che meglio rappresenta la passione per il volo del giornalista Dino Frambati. Io volo è il titolo del suo nuovo libro per ora solo in ebook e in audiolibro, i cui agili capitoli sono da lui letti.

Alle spalle una notevole carriera: storico corrispondente da Genova di radio Vaticana, direttore di “Buongiorno” edito dal Gruppo Sogegross, collaboratore de “Il Piccolo” di Alessandria, responsabile delle comunicazioni Unicef Liguria, corrispondente dal 1984 di “Avvenire”, per 17 anni vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti ligure per cui ha organizzato molti corsi formativi e sostiene che l’Ordine aveva bisogno di una sveglia per non  scaldarvi solo sedie. Collaboratore de “il Giornale” di Indro Montanelli quando nacquero le sue pagine genovesi. Ora è consigliere dell’Ordine nazionale dei Giornalisti e fa parte del Centro Studi per Giornalismo nelle scuole in ambito del Comitato Tecnico Scientifico.

Non solo dell’Editore Stefano Termanini con cui ha già pubblicato Quando la notizia è buona, Il virus e il Direttore, dice scherzando che questi lo definisce uno produttore “seriale”: ma questo splendido libro ci insegna cos’è la fiamma di una passione e serve a distruggere nel lettore pregiudizi e la paura del volo che tuttora affligge molti, me compresa.

Perdonate una digressione: ricordo quando con i miei genitori andammo a trovare a Lecce alla Scuola Allievi Ufficiali mio fratello che la stava ultimando e, partiti da Roma, nel trasvolare l’Appennino, ci trovammo in un fortunale. I miei genitori sedevano nei posti davanti a me, io dietro e al mio fianco c’era un signore. Ero così spaventata che trovai un sacchetto infilato nella retina del sedile davanti a me e lo rigiravo tra le mani per darmi un contegno. Il mio vicino si alzò e, mentre l’aereo traballava e molto, si mise a passeggiare avanti e indietro. Solo dopo scoprii che quel sacchetto doveva servire a chi fosse assalito da un improvviso conato di vomito. Il mio vicino aveva creduto che fosse la sua presenza ad inibirmi.

Però Dino ci ricorda anche parole di un suo maestro di volo e di vita, Albino Ferretto, collaudatore Piaggio: “il pilota che non ha paura, non è un buon pilota”. E cita pure una massima aurea di Stanley Kubrick: “non sono mai stato sicuro che la morale della storia di Icaro dovesse essere “non tentare di volare troppo in alto, come viene intesa in genere, e mi sono chiesto se non si potesse interpretare in modo diverso: dimentica la cera e le piume e costruisci ali più solide”. “E oggi i moderni aeroplani - chiosa Dino quasi a fugare ogni paura– hanno ali solidissime e strumentazioni eccezionali che impediscono persino l’errore umano”.   Non solo, quanto al rischio di volare, da buon giornalista Dino non manca di portare la giusta statistica: “l’aereo è il mezzo più sicuro. Mi pare avvenga un incidente ogni 5 milioni di ore di volo, ma per l’opinione pubblica l’aereo che cade, uno ogni morte di Papa, è una catastrofe, mentre la strage di 5-6mila morti sulle strade italiane pare essere nulla”.

Non solo, portando un argomento inossidabile per convincerci, afferma: “superare la forza di gravità è un momento psicologico che ti stravolge. In terra, in mare, ti senti sicuro, in aria no. Ti senti instabile”,  ma nello stesso tempo ci rassicura sul pilota: “non deve mai sentirsi un top gun, altrimenti è un pessimo pilota, ma deve avere sempre la massima umiltà e consapevolezza”.

Però anche in questo libro, nonostante la passione per il volo, c’è la descrizione di qualche viaggio più che avventuroso. Come quello di Dino sul Pa30, bimotore dell’Aero Club di Genova, quando porta con sé due signore e un ragazzo di 14 anni. Tutto bello e tranquillo con una maliarda vista di Portofino, ma arriva inaspettata una nube che li avvolge e non permette di vedere all’esterno. L’aereo inizia a ballare e Dino sa che 300 m. sotto c’è il mare e bastano pochi secondi per raggiungerlo. S’impegna mentalmente per uscire da quel fortunale e intanto spiega ai passeggeri le sue manovre, rassicurandoli. Quando mancano 100 m. a quota zero gli appare il mare increspato di Genova “mai tanto bello per me come in quel momento”. L’atterraggio al piazzale Nord dell’Aero Club di Genova è morbido. I passeggeri gli dicono “che non hanno mai avuto paura”. Lui però l’ha avuta proprio per timore di non poter corrispondere alla loro fiducia.

Il libro è anche una galleria interessantissima di piloti che Dino ha conosciuto e frequentato e non manca, quando ci racconta di aver voluto prendere anche il brevetto per idrovolante, di raccontare il suo incontro con Bud Spencer, pilota a sua volta, che ne possedeva una flotta e la metteva a disposizione dei film che interpretava.

Ci racconta pure una storia esemplare dove l’aereo viene definito “suolo italiano” quindi inviolabile quando il comandante Gianpietro Garbagna, 18mila ore di volo alle spalle, atterra a Tunisi il 14 gennaio 2011 ed è il pomeriggio in cui scoppia la cosiddetta “primavera araba”. “Evento –scrive Dino - che ha fatto

Gridare al mondo degli evviva come dovesse diventare un altro mondo quello arabo, strano e affascinante. L’evolversi dei fatti e la cronaca degli eventi hanno invece dimostrato che è stato un inferno ed un inverno più che stagione primaverile, e che ha dissestato gli equilibri di quei bellissimi Paesi. Senza portar vantaggi”. Saggio questo giudizio critico fuori dal coro di quei tanti, tantissimi evviva: e questo denota di per sé la caratura del giornalista.

Di quel pomeriggio all’aeroporto di Tunisi Garbagna racconta di aver fatto scendere i passeggeri dall’Airbus 320 e sta per imbarcare quelli in partenza ma appena questi sono saliti a bordo arriva un pulmino tra il fuggi fuggi del personale di terra. Ne scendono quattro armati di mitra con sulla tuta la scritta “Polizia” e dicono che devono controllare a bordo perciò deve far discendere tutti. Garbagna obbedisce però nota che uno degli agenti saliti a bordo alza la voce e malmena qualcuno, allora dice: “A bordo dell’Airbus è suolo italiano”, e la frase serve da deterrente. Quando i quattro se ne vanno, i 123 passeggeri lo supplicano: “portaci a casa, portaci a casa”, e ci sono bambini che piangono e qualcuno degli adulti sanguina. Garbagna chiede l’immediato decollo e aggiunge per la Farnesina:”se non mi mettono un blindato in pista, decollo”. Pochi secondi e l’Airbus del volo OP 805 è in aria. All’arrivo a Malpensa è nebbia fitta ma cos’è questo impedimento di routine rispetto a ciò che hanno passato? Poco dopo il suo decollo a Tunisi è stato chiuso lo scalo e in pista c’era anche l’aereo presidenziale in fuga.

Tra le vicende ricordate da Dino, se questa è senz’altro la più drammatica, c’è pure il racconto dei voli che servono a salvare vite, al trasporto di malati in sedi più attrezzate e il pregio assoluto di questo libro è proprio che si sta con il fiato sospeso senza mai annoiarsi. Una volta per descrivere un libro che ti prendeva si usava una frase scontata: si legge tutto d’un fiato e questo è proprio così.

Un aspetto non manca mai di colpire chi legge Frambati la sua umanità, la sua sensibilità. Ed ecco lo splendore della nostra terra: dal lago di Como (che gli fa ricordare il suo amato Manzoni), allo svettare del Bianco definito “una delle creazioni più belle della natura”), alla dorata Madonnina di Tortona (e quando la sorvola non manca mai di rivolgerle una preghiera), ma anche i suo senso vivo degli affetti: il ricordo indimenticabile della sua mamma sepolta a Novi Ligure, l’amore l’intelligente moglie Marina che non ha mai ostacolato la sua passione per il volo. Infine un’affermazione: “volare non è roba da ricchi, come vorrebbe la leggenda metropolitana ricorrente e persino ignorante. Chi vola non passa notti brave tra fumi di alcol  droga, ci tiene alla sua salute e sta bene non per una pasticca letale ma piuttosto perché  ama vedere il mondo dall’alto. Il volo è tecnica, scuola ma anche alto valore morale soprattutto per i giovani”.

E conclude: Il volo è il futuro del mondo, augurandosi e augurandoci che l’Italia acquisti una sensibilità moderna ed adeguata  al settore aviazione. La frase finale che ci comunica un po’ di adrenalina al di là di ogni nostra paura è: “pronti al decollo in tutti i sensi della vita!”.

 

 Con l'editore abbiamo deciso il prezzo politico di 5 € per diffonderlo quanto più possibile. 
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                Claudio Papini

                La Repubblica

              Lungo il viale del suo tramonto

 

 

 

                       

 

 

Avventurarsi nella lettura dei libri del Professore richiede riflessione, leggere e rileggere. Questo non perché lo stile e quanto esposto non siano più che chiari ma perché la sua cultura si diversifica e approfondisce diversi campi: storia e filosofia (che sono state le sue materie d’insegnamento per 33 anni), inserite però in un contesto universale e quindi politico, ma anche economia e passione per il cinema.

Non a caso è stato il suo Ben ritrovato Ernst Ingmar, saggio sull’opera cinematografica di Bergman, pubblicato con De Ferrari che ha fatto sì che fosse scelto dall’editore – anche lui con interessi filosofici - per dirigere la collana Amici del Libero Pensiero. In questa ben sette titoli sono per Daniel Massé ed il primo è L’enigma di Gesù Cristo. Non a caso un altro interesse fondamentale di Papini è per la Religione e l’importanza che “una Chiesa intrigante (per sua specifica natura) sempre pronta ad intralciare l’attività politica dello Stato” ha avuto nella storia italiana. Non a caso già nelle prime pagine del libro (p.20) ricorre questo pensiero: “è fin troppo noto nella storia italiana che gli interessi  della Chiesa Cattolica Apostolica Romana spesso non coincidano con quelli dell’Italia e il Risorgimento (quello autentico) fu fatto certo (con l’aiuto dei dei Francesi e dei Prussiani e l’appoggio dell’Inghilterra) contro la Santa Alleanza, contro l’Impero Asburgico, contro lo Stato Pontificio (e anche contro gli altri sovrani molto più fragili della Chiesa stessa).

E per venire al momento attuale il Prof. definisce la Chiesa davvero matrigna verso l’Italia perché con il pontificato del papa Francisco ha fatto intendere quali sacrifici debba la nostra penisola in ossequio alle direttive delle Nazioni Unite e dell’Europa guidate dall’asse franco-germanico.

Nel papato odierno di Francisco s’inserisce anche la questione dei migranti su cui la Chiesa mostra di scontrarsi decisamente con il sentimento dell’utilità nostra e della nostra Patria, perché questa immigrazione “è una vera e propria invasione in larga misura contrassegnata da caratteri religiosi”. L’accoglienza a tutto campo batte sul senso di colpa che dobbiamo provare verso i fratelli sfortunati, quel senso di colpa che fece sì che i cristianesimo (vendicatore di Israele sotto messa anzi storicamente cancellata dei romani) penetrasse in Roma nel momento delle invasioni barbariche, rendendola una propria suddita. Ma giganteggia ancor oggi l’antico monito di Guicciardini di trovarsi sempre dalla parte di chi vince per essere lodati anche di cose in cui non si è avuta parte alcuna, mentre chi si trova dalla parte di chi perde è imputato di infinite cose di cui non ha avuto colpa.

Ma per dare un po’ d’ordine alla mia rivisitazione di questo libro di Papini, segnalo che il primo capitolo ha come titolo Il mitico ’68 e con parole sue: “a cinquant’anni di distanza dal mitico (si fa per dire) ’68 e 200 anni dalla nascita di Marx resta non facile dire cosa sia stato nel profondo quell’anno (così controverso)... I "reduci" (detto ironicamente di quel periodo vorrebbero imporci i loro ricordi, ma reduci da cosa? Dalla propria giovinezza? Senz’altro! …ed è difficile credere che Milano e Roma siano stati i due maggiori centri dell’esplosione sessantottina”

Da subito però nella sua rivisitazione di anni lontani Papini introduce la Cina, in cui la rivoluzione culturale fu fenomeno prodotto dall’alto, chiamata alle armi dei giovani da parte di Mao-Tze-Deng per contrastare i propri avversari nell’ambito del Partito Comunista Cinese.

L’indagine del Professore tocca argomenti italiani scomodi, esemplificandoli con titoli ulceranti: “Cottarelli e i sette peccati capitali”, “l’inarrestabile desertificazione industriale”, “Mattarella contro Paolo Savona (critico del Trattato di Maastricht)”.

Si sofferma sulla Organizzazioni non governative che ci hanno portato in casa sei milioni di profughi e migranti economici, parte dei quali hanno avuto il diritto di cittadinanza più che per volontà loro per impegno di forze politiche e governi di centro-sinistra. E mentre le “ingenue" sardine strillavano in quel di Bologna “accogliamoli tutti” e se si parlava di “invasione” si gridava al “razzismo”, invece alcuni leaders aricani, senza false remore, dicevano apertamente “invasione, sì invasione!”

Quanto alla Chiesa definisce come “distillato di melassa" ciò che è l'attuale clima francescano e che è venuto realizzando un ritornato ‘600.

Il Professore spazia però a tutto raggio anche fuori dalla nostra terra e nei suoi rapporti globali (Usa, politica filo-araba, Cina che Napoleone definì un gigante addormentato che una volta vegliatosi avrebbe cambiato la storia del mondo), ecc. E la Russia, citando il profetico libro Sopravvivrà l’Unione Sovietica  fino al 1984? di Andrei Amalrik. Quando nel marzo 1985 con l’arrivo di Gorbaciov, vennero al pettine i nodi di quel continente “reso muto”: si cominciò a promuovere trasparenza (glasnost) e ristrutturazione (perestroika), ma quel processo finì per travolgere in tre anni il Partito Comunista e l’Unione Sovietica. E Amalrik che era stato profeta con un anticipo di qualche anno su quella dissoluzione ha anche scritto: “i razzi sovietici hanno raggiunto Venere, ma nel villaggio in cui vivo si fa ancora a mano la raccolta delle patate”.

Questo il succo amaro che il Professore trae dalla sua profonda indagine: “non stiamo vivendo all’interno di un suggestivo film hollywoodiano, percorrendo appunto Il viale del tramonto (Sunsetboulevard del 1950)  ma dovremmo reagire con la serietà e la severità necessarie pur se, oggi come oggi, è arduo sparare in un risorgimento della Patria.

C’è anche una pagina esemplare tra altre della stessa caratura, in cui in una lunga nota ricostruisce retroscena storici sulla base di quanto ha denunciato  Nino Galloni, docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, che insiste sulla necessità di archiviare gli “specialisti del disastro” Angela Merkel e Mario Monti e rovesciando la politica europea tornare alla sovranità monetaria, cancellando il debito pubblico come problema. E ricorda sulla base di quegli scritti Andreotti che temeva la riunificazione tedesca, non per “provincialismo storico” ma per la coscienza di un sottofondo reale, cioè “un piano contro l’Italia” che portò al rovesciamento del Trattato di Maastricht, concorrendo ad inguaiare un’Italia sempre più indebolita. Maastricht infatti impone all’Italia un ulteriore aumento dell'avanzo che nel 1995 era di 15 miliardi, per la parte corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero, mentre consente alla Germania un disavanzo (cioè l’opposto di quanto prescrive la logica economica). Quando crolla il muro di Berlino, la Germania si è giocata la riunificazione a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale; ricattati dai Francesi per riconquistare l’Est, i Tedeschi accettano di rinunciare la marco per aderire all’Euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il lor concorrente più pericoloso: noi.

Infine ci ricorda come nei rapporti dell’Italia con l’Europa abbia pesato “un cattolicesimo che vive in bello sposalizio cum sineristate (e quivi è perfetta letizia, frate ovvero papa Francisco)”.

Tante le riflessioni del libro e nona manca il pool di Mani Pulite, timoroso di dover consgnare il governo del Paese alla Lega Nord e alle forze politiche di Destra (“che pure erano escluse dall’area della ragguardevole corruzione che affliggeva la Repubblica”) finì per graziare la Sinistra e ciò giovò a Berlusconi quando nel 1994 scese in campo politico.

Il caso Berlusconi, –scrive il Professore-, “marachelle” personali a parte è stato il simbolo più significativo fino ai nostri giorni di una persecuzione giudiziaria realizzata quasi esclusivamente per cause politiche.

Su questo libro, così ricco di intelligenza, di cultura storia mondiale, ma anche di diagnosi personali sugli avvenimenti che ci hanno accompagnato, si può essere d’accordo o non sempre, però “la palla” ora è in campo e può passare ad altri per confutare o approvare.

 

Poiché è indubbio che stiamo vivendo un momento di decadenza della nostra Repubblica, allego qui il mio commento – come sempre mettendo in risalto il pensiero dell’Autore più che le mie personali convinzioni – ad uno scritto Il declino del Parlamento che è molto in linea con i nostri mali denunciati da Claudio Papini.

 

 

                    Giglio Reduzzi

             Saggista Politico

           Il declino del Parlamento

 

     

 

In sintonia con il precedente libro La Repubblica sul viale del tramonto è questo saggio che mi piace riportare solo un poco in sintesi, perché la chiarezza di Giglio e la sua mancanza di ridondanze è magistrale.

Inizia così Reduzzi (e potete seguire il suo blog su wix):

“Tutti citano 

il 1968, considerato l’anno della rivoluzione dei costumi.

“Pochi parlano

del 2018, che rivoluzionò la politica.

“Entrarono nel Parlamento italiano i rappresentanti del Movimento Cinque Stelle (M5S)fondato da Beppe Grillo i cosiddetti ‘grillini’.

Fino ad allora i deputati erano persone di una certa età, con lunga esperienza lavorativa, invitati a metterla a disposizione della società entrando in Parlamento.

“Destra e Sinistra vi mandavano i migliori, che fossero De Gasperi o Togliatti (che ebbe appunto questo appellativo). Un onore avere un parente in Parlamento ed io lo ebbi. C’erano anche giovani idealisti oltre ai portatori di esperienza.

“I ‘grillin’ del 2018 (poco più che trentenni alla Camera, e poco più che quarantenni al Senato)erano invece per lo più giovani in cerca di primo impiego. Appartenevano però alla generazione che meglio smanetta su computer e così andarono a nozze a presentare la propria candidatura sulla piattaforma telematica Rousseau ed ottennero un terzo dei seggi disponibili.

“Quando dovevano parlare erano proprio come noi bambini messi sulla sedia per recitare la poesia. (Impagabile l’umorismo di Giglio Reduzzi).

Ma per tal motivo Grillo e Casaleggio, artefice della piattaforma telematica, proibirono loro di concedere interviste.

“Quanto al reddito: se prima avevano un reddito medio di 1500 euro se lo trovarono decuplicato!

“Perché? Ricevono 15mila euro a mese con tanti benefit che lo fanno lievitare a 20.000.

“Conseguenza: finché la vita di un esecutivo è legata a persone che se andassero a casa guadagnerebbero un decimo di quanto ora percepiscono, questa vita è assicurata.

“Non solo, il PD che ama stare al potere ha nel M5S il partner ideale.

“Finché l’indennità parlamentare sarà uguale per tutti, e non rapportata alle esperienze precedenti come accade in ogni azienda o impresa, l’elettore non potrà contare sulla fedeltà dei suoi eletti: a loro interessa solo la poltrona al di là di ogni meta o programma.

“Lo stesso Giuseppe Conte tornando al privato dovrebbe compiere una grave rinuncia sul piano economico e gli mancherebbero anche tutti i suoi fringe benefit e i salamelecchi (che con evidenza adora!!!).

(Per inciso: Conte ha dovuto andarsene ma appunto è già rientrato in forza nei M5S e sembra che la politica per lui sia ormai indispensabile!!!).

“Cosa ha inventato Conte pur di restare al posto di Premier?

1)      la task force, ricorrendo a tecnici esterni all’Amministrazione dello Stato.

2)      Il DCPM per aggirare il Parlamento.

3)      La clausola ‘salvo intese’ a fine dei decreti per cui non si dimetterà nel caso dovessero decidere altrimenti.

4)      La tecnica del rinvio (e al suo confronto il cunctator Quinto Massimo è stato quasi un principiante o solo un apripista. Il peggio –storicamente- può sempre avvenire, basta che la pista sia aperta).

Il Covid 19 è stata la Fatalità.

Avrebbe richiesto il migliore dei governi possibile e giovani inesperti non sono stati all’altezza.

  Conclude Giglio:

  il 2018 è data indimenticabile perché quel massiccio ingresso in Parlamento

  d’inesperti ha mutato:

  sia l’identikit del Deputato che svilito il ruolo dell’Istituzione.

  E –aggiungo- come diceva l’indimenticabile Govi: “e io pago, io pago!"

  Gli Italiani tutti stanno pagando, a carissimo prezzo, e pagheranno non solo

  i vecchi che muoiono come mosche ma soprattutto i nostri giovani, cui si è

  tolta perfino la speranza di quel “io speriamo che me la cavo”.

 

 

                      Martina Salvante

          La paternità nell’Italia fascista

 

                  Risultato immagine per Martina Salvante. Dimensioni: 125 x 160. Fonte: www.tcd.ie (L’Autrice)

 

Questo libro - con copyright dell’Istituto Storico Germanico di Roma & Viella, Libreria Editrice, (via delle Alpi 32, I-00198 Roma, tel.068417758)- a me sembra indispensabile per capire il fascismo, per conoscere Mussolini, uomo ma anche Padre della Patria come fu considerato.

L’autrice Martina Salvante, di cui potete ammirare il bel volto serio, è Assistant Professor of Twentieth-Century European History presso l'Università di Nottingham nel Regno Unito. Ha conseguito il dottorato presso l’Istituto Universitario Europeo ed è stata docente al Trinity College Dublin, all’Università degli Studi di Firenze e all’University of Warwick.

La professoressa si occupa di fascismo, prima guerra mondiale, storia delle disabilità e storia di genere e delle maschilità.

Un curriculum che fa comprendere la sua preparazione ma che non può rendere in nessun modo il piacere che si prova in questa lettura: chiara, ricca di spiegazioni però sempre essenziali, documentata e affascinante.

Impariamo a conoscere un Mussolini quasi inedito, che va cavallo a Villa Torlonia (in quelli che definisce “anni indimenticabili”), che fa pedinare i figli per capire chi frequentano, che si rammarica di non aver seguito abbastanza la sua famiglia (“io ero assente", ammette) e che soffre per la perdita del figlio Bruno.

‹‹Parlo con Bruno›› è l’unico testo in cui Mussolini svelò alcuni dettagli della propria vita in famiglia come ci spiega Salvante. Forse Bruno seguì la carriera militare per cercare l’attenzione del padre, per non essere solo suo figlio ma anche soldato del Duce. Bruno era il terzogenito, fu aviatore, anzi a 17 anni il pilota militare più giovane d’Italia, poi anche dirigente della compagnia aerea Ala Littoria e l’ideatore della LATI (linee aeree transcontinentali con tratta Italia-Brasile); ebbe la medaglia d’Oro al Valore Aeronautico e due volte quella d’Argento al Valor Militare, morì a soli 23 anni perché durante un volo di prova nei cieli di Pisa, i motori del suo aereo militare in fase di atterraggio subirono un calo di potenza e si schiantò in un campo di granoturco.

Il padre lo ricorda così: <<Bruno!, Il mio Bruno! Brunone ti chiamavo quando ti accarezzavo con violenza i capelli>> e commenta che il figlio avrebbe certo preferito una morte in combattimento.

Da subito però in queste pagine Salvante ricorda pure la relazione del Duce con Ida Dalser e la nascita del figlio Benito Albino. Il commento della storica è che tali vicende parallele al matrimonio erano frequenti nella società dell’epoca. La vicenda è stata ripresa dal regista bobbiese Marco Bellocchio (che iniziò al Centro sperimentale di cinematografia di Roma sotto la guida di Andrea Camilleri) nel film del 2009 <<Vincere>>. Il regista mise in luce i reiterati e disperati tentativi della Dalser di veder riconosciuta la paternità del figlio da parte del Duce finché non venne dichiarata “malata di mente”.

Ma se questi sono stati alcuni risvolti della vita del Duce, una parte molto avvincente del libro riguarda i suoi genitori. Il padre Alessandro proveniva da una famiglia di piccoli proprietari terrieri danneggiati dalla crisi agraria di fine Ottocento, faceva il fabbro e si avvicinò al socialismo internazionalista diffusosi nelle campagne dell’Emilia Romagna; la madre Rosa Maltoni era una pia maestra romagnola.

Scrisse di lei enfaticamente Carlo Delcroix, scrittore e politico: <<La casa del fabbro ebbe la sua Madonna e quelle mura videro la sua pietà ma non seppero il suo strazio ed ella si affinò nelle mani e si asciugò nel volto senza dar segni di stanchezza>>.

La letteratura agiografica mussoliniana andò equiparando la famiglia del Duce alla sacra famiglia biblica che la stampa cattolica proponeva come esemplare.

Per non farla troppo lunga nel seguire il cammino delle leggi a favore della famiglia, i rapporti con il Vaticano che furono buoni, mi appello a parole della stessa Autrice quando in un capitolo finale <<Epilogo. Continuità>> ripercorre ciò che ha incluso e scandagliato nei VII capitoli precedenti.

- Nel II ha trattato i modelli familiari proposti dalla Chiesa cattolica attraverso le encicliche papali ed altre pubblicazioni;

- nel III le conseguenze della partecipazione bellica sull’assetto familiare; - nel IV ha esaminato i cambiamenti introdotti dal regime nel regolamentare i rapporti familiari con la riforma dei Codici Penale e Civile;

- nel V le forme di censura <<feroce>> contro quelle maschilità considerate <<nocive>> e spesso quindi destinate al confino(oppositori politici, coloni italiani che allacciavano rapporti con donne autoctone, ebrei).

Da notare che era intervenuta la conquista dell’Eritrea, ampia quattro volte l’Italia. Il confino era in sette isole più la località Pisticci in provincia di Matera. Ad esempio, il giornalista Giovanni Ansaldo fu confinato a Lipari e quando tornò in libertà continuò a pubblicare sul <<Lavoro>> di Genova con lo pseudonimo Stella Nera.

Ma il racconto è arricchito da storie umane e reali come la preoccupazione di un padre di Trieste per la lontananza dalla sua bimba. Non solo, Mussolini era sentito come un padre e a lui inviavano le richieste per togliere dal confino i propri cari. Anzi queste erano mandate anche a membri della sua famiglia come la lettera di un balilla al balilla Romano (altro figlio di Mussolini).

Non solo, Mussolini proteggeva le madri nubili e qualcuno si adirò e il confinato Giuliano M. fu fermato dalla polizia per aver pronunciato queste frasi: <<La colpa è di quel porco (Mussolini) che protegge le puttane quando partoriscono>> e ancora <<quel mascalzone ha rovinato e sta rovinando l’Italia>>.

Quanto ai matrimoni con le autoctone dei luoghi dove si stava estendendo la colonizzazione, sui giornali anni addietro uscirono articoli di esecrazione per Montanelli, il principe dei nostri giornalisti, che in quei tempi lontani aveva sposato un’eritrea di dodici anni. Giornalisti disinformati e pretestuosi, se proprio in questo libro una testimonianza di uno dei numerosi italiani emigrati nelle colonie africane in cerca di lavoro ci parla così: <<C’era una legge che proibiva la convivenza con le nere, per proteggersi dalla malattie e per questione di prestigio, anche se non era osservata. Si faceva tutto di nascosto. Nacquero anche dei figli, ma non erano legittimi. Anch’io avevo una nera. La presi che aveva 13 anni, io ne avevo più di 20, l’ho tenuta per due anni e poi l’ho lasciata. Era considerata come donna di servizio ma la tenevo anche di notte, anche se non si poteva>>.

Ma questo libro di approfondita ricerca per me ha un di più perché nel sottocapitolo <<Famiglie in guerra>> (a p. 97) vengono riportate parole di mio padre Edgardo Bressani a mia madre Ida mentre era impegnato in Africa contro gli Alleati: era il febbraio del 1943.

E poiché questo è un libro sulla paternità ma l’altra parte sono i figli è naturale commuoversi nell’affiorare di tanti improvvisi ricordi e lo constatai anche per una figlia illustre: Maria Gabriella di Savoia che era stata invita a Palazzo Ducale di Genova e le portai ad autografare il primo dei due volumi sulla Storia di Casa Savoia che uscirono nel 1955 in 400 copie e con la firma di Re Umberto. Gabriella mise la firma sotto quella di suo padre commuovendosi e per me quei due volumi erano stati importanti: li avevo chiesti in regalo a mio padre dopo l’esame di terza media ritenendo che noi tutti italiani avessimo un debito con I Savoia che fecero l’Unità d’Italia.

E queste parole di mio padre sono di un uomo sposato e fedele che aveva messo la famiglia al centro della sua vita, che partì per la guerra per senso del dovere e quando tornò nell’ottobre 1945 era tutto fasciato causa un eczema diffuso dopo essere stato nel campo di prigionia di Saida, tenuto dai francesi (e quindi male e ben diversamente da come stavano i prigionieri di guerra presso gli inglesi). Per mangiare spesso mio padre e altri compagni di prigionia si dedicavano alla caccia delle cavallette. Sul treno del ritorno in patria per raggiungere mamma che aveva continuato a fare la maestra elementare nei dintorni di Bobbio, un controllore gli consigliò di togliersi la divisa perché i reduci non erano amati. Sceso a Piacenza seppe solo allora che era morta sua madre, nonna Gisella e che l’ultima volta l’aveva vista a Trieste quando lo aveva accompagnato in stazione per partire per la guerra.

Scrive mio padre:<<Non so perché Ida ma spesso in me affiora la disperazione. Non vedo via d’uscita. E’ terribile. Terribile non per me, ma per te, per i miei pupi che volevo rendere felici, sorreggere durante tutta la vita…Prega tanto, Ida, Per me. E più grave è il pericolo, maggiore è il pensiero per te. E’ in quei momenti che io ti ricordo con più intensità. Non mi si toglie la vita, capisci, mi tolgono te, i miei bambini».

In nota questa parole vengono riportate come prese dal mio libro Lettere d’amore e di guerra, giunto alla II Edizione e pubblicato dalla Lint di Trieste. Ma il fascicolo delle lettere dei miei genitori era stato tra i dieci finalisti al Premio dell’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano dove era stato messo in gara con un romantico titolo scelto dagli esaminatori <<Tu sei per me l’aria che respiro>>, frase in una lettera di mio padre.

Allora mi chiesero di poterne trarre un libro, però pensai che il compito toccava a me che meglio avevo conosciuto i miei genitori. Comunque da quell’Archivio (era il 2002) erano già uscite più di cento tesi universitarie. Donai le lettere dei miei genitori all’Archivio stesso: ogni documento può servire ad altre ricerche.

E il loro ritrovamento era stato quasi inaspettato per me: quando era morto papà, Ottavio suo uomo di fiducia che veniva a tagliare l’erba e a curare il vigneto nella casa di campagna che aveva voluto costruire a Bobbio in onore alla mamma, bobbiese, mi chiese: <<Cosa devo farne di questa cassetta militare di suo padre che lui aveva carissima>>. Mio marito riuscì ad aprire il lucchetto e dentro c’erano legate in due pacchetti le lettere di mio padre a mia madre e quelle di lei a lui, da quando si erano conosciuti nel 1934 fino al 1945 al suo ritorno dalla guerra. Scusate la lunga digressione personale, ma i padri coinvolgono anche i loro figli.

Il libro della Salvante è da centellinare perché ricostruisce un quadro d’epoca molto dettagliato ma in questa ricerca sul concetto di paternità mi piace concludere con la voce di una donna.

Mussolini aveva concepito una serie di misure per garantire il rinvigorimento della stirpe italica e nel 1926 creò l’ONMI, un ente parastatale con ampia autonomia amministrativa per la difesa e il miglioramento fisico e morale della razza. L’ente faceva le veci del padre incoraggiando la formazione di nuclei familiari stabili e legittimi. Si occupava pure del riconoscimento legale dei figli naturali, ma la responsabilità dei padri di fronte all’abbandono fu raramente affrontata. Insomma era una sorta di doppio binario o doppia morale come era il caso di Mussolini con la Dalser e il figlio Albino pur essendo protettore delle madri nubili. Una studiosa femminista Teresa Labriola, proprio dalle pagine del bollettino ONMI, deprecò l’indegna noncuranza dei padri nei confronti dei figli illegittimi in uno <<Stato di tipo maschile e quindi con diritti e doveri paterni>>.

A concludere riporto il senso del libro con parole della Salvante: <<Quello che ho inteso fare è stato de-naturalizzare la famiglia, mostrandone la varietà, non solo di forme, ma di significati nel tempo e nello spazio. In particolare ho presentato i significati che furono assegnati alla paternità in un preciso momento storico, accostando simboli, esperienze e norme>>.

E concludo a mia volta osservando che proprio le tante esperienze o storie umane riportate fanno luce su quel periodo e ce lo fanno capire più a fondo.

 

 

                       A cura di Claudio Papini

                              Ezio Flori

                     Dell’Idea Imperiale di Dante

 

 

                       

Nel 1921 Ezio Flori pubblica a seicento anni dalla morte di Dante questo libro,nel 2021 a settecento anni dalla morte, Claudio Papini commenta quel testo in una Introduzione dove la storia italiana s’inserisce in quella europea. Scopriamo che Dante non solo fu costretto all’esilio ma in successive epoche storiche, “durante la Riforma cattolica e la Controriforma, fu considerato una sorta di ‘bestia nera’ pur non senza resistenze – commenta il Professore - all’interno della Chiesa e delle élites colte”.

Questo ostracismo terminò sotto il pontificato di Leone XIII nel 1881 quando le fortune del potere temporale della Chiesa erano tramontate e non risorsero nemmeno alla fine della I guerra mondiale da cui l’Italia per “suo destino, valore e sacrificio” uscì vittoriosa. Bastano queste parole virgolettate a far capire la partecipazione ideale del professore ai nostri eventi storici ed è un suo stile  per renderci la storia passata come la stessimo rivivendo.

Continua Papini: “fu una felicissima conclusione del nostro Risorgimento, in parte modificata dalla II guerra mondiale perché la sistemazione dell’Italia da parte dei vincitori assicurò alla Democrazia Cristiana (emanazione filoccidentale – U.S.A.- della Chiesa cattolica) il controllo maggioritario della nostra penisola in coabitazione contrastata con il Partito comunista (filorientale – U.R.S.S.).

Per tornare a giudizi su Dante tratti dal libro di Flori colpisce questo di Giuseppe Mazzini: “chi lo fa Guelfo, chi Ghibellino e quasi tutti lo vogliono cattolico ortodosso. Ora Dante non era né Cattolico, né Guelfo, né Ghibellino: era Cristiano ed Italiano”. Ma segue anche una frase lapidaria di Francesco Lanzani, scrittore milanese su La Monarchia di Dante del 1864: “è guelfo nel Comune, è ghibellino nell’Italia, è monarchico nell’Umanità”. Non a caso per far capire il substrato politico e filosofico della Commedia, seguendo il testo del Flori, il professor Papini dà spazio a quell’opera del “vate” ad essa propedeutica.

Nell’Introduzione mi è sembrato molto interessante “il sogno giudaico-cristiano di potere politico, cioè liberare Israele dal dominio romano e impadronirsi dell’Impero”. La città che divenne centro degli scontri tra popolazione ebrea e quella greca, fu Alessandria d’Egitto. Sembra importante, riguardo quei tempi antichi, una frase di Louis Rougier, che a Roma nel 1921 scrisse: “l’Impero romano d’Occidente è morto di malattia interna e tra le malattie interne figura al primo posto la nuova fede: il cristianesimo”. Non solo, se i culti ammessi nell’Impero furono tutti considerati veri dal popolo,  ma dal filosofo come ugualmente falsi e dal magistrato come ugualmente utili, la tolleranza manteneva la concordia. Perfino Cicerone, membro del Collegio degli auguri, scrisse però il De Divinatione dove stabilisce l’inesistenza della divinazione, pur riconoscendo la necessità di conservare gli auguri per non turbare credenze popolari.

Su questo substrato di tradizione s’innesta la Commedia di Dante che considerò “il monarca come un magistrato supremo in una repubblica di più stati indipendenti”, Dante per cui come per il Medioevo l’Impero era nella coscienza comune “la pace”, il suo capo Imperator Pacificus e i Paesi del mondo erano grandi feudi che i re tenevano da lui come principi feudatari, “debitori a lui di omaggio, di fedeltà e di servizio militare contro gli infedeli”. La vita del Nostro non fu certo pacifica pur se per lui l’Italia avrebbe dovuto formare il centro dell’Impero universale, costituire essa stessa contro l’impero e di fronte a questo uno Stato autonomo unitario. Come potete constatare ogni parola ha un peso nelle lunghe contese che accompagnarono sia la formazione della lingua italiana (grazie alla Commedia) sia nei rapporti politici e passarono secoli prima di arrivare all’età moderna.

Non solo bella, ma importante e doverosa questa ripresa da parte di Claudio Papini del testo del Flori. Il professore non è mai solito ad esternazioni personali ma qui ricorda come ad inizio del suo insegnamento dividesse il tempo tra questo e la visita di Roma e della biblioteca della École de Rome al Palazzo Farnese. Dice a questo riguardo: “andare alla scoperta in una nuova biblioteca è uno dei regali dell’esistenza”.

 

 

E permettete un ricordo personale di quando al Liceo D’Oria Piero Raimondi, mio prof. di Lettere, e impareggiabile prefatore degli autori in lingua spagnola dei Nobel della Utet, girava in classe come “una bestia nera” mutuata da Dante, nel senso che reggeva alta la Divina Commedia passando tra i banchi e poi la apriva e dove gli cadeva l’occhio interrogava tutti gli allievi il cui cognome iniziava con la lettera che aveva visto per prima. E c’era un compagno chiacchierone che per “penso” doveva portare una cantica di Dante a memoria (e non ricordo quanto ne abbia collezionate), ma poiché non è più lo immagino nell’al di là seduto ai piedi di Dante a ripetergli i suoi indimenticabili versi con il Vate che lo bacchetta se per caso sbaglia.

    Da notare che il libro è stato da lui rinvenuto nella cabina telefonica di piazza Tommaseo (book crossing)

 

                                     BOOK CROSSING

 

C’è una bella iniziativa che si chiama Book crossing e consiste nello scambio di libri in punti fissi della città.

Dove vivo io, a Nervi di Genova, proprio la biblioteca della zona, la Virgilio Brocchi, porta i suoi libri in eccesso o presso la Gelateria Giumin (gelati squisiti: fatevi una gita per gustarli!) o dove c’è una pensilina degli autobus davanti ai giardini comunali di piazza Duca degli Abruzzi. In questo secondo luogo, al coperto, ogni giorno quando passo lì davanti guardo i libri che sono a disposizione. Il giorno dopo è difficile reperirli: sembra vadano a ruba. Mi sono informata e mi hanno anche detto che un libraio del centro storico qualche sera passa per farne incetta e rivenderli, ma ho anche chiesto ad una signora anziana: “E’ possibile che ci siano così tanti lettori accaniti e che i libri scompaiano nel giro di poche ore. Non sarà qualche extracomunitario che viene a prenderli per rivenderli come carta?" Risposta: "Non saprei, è possibile. So solo che io li porto e mio marito mi segue per riprendersene qualcuno e così il libro mi ritorna a casa”.

Comunque grazie a questa intelligente iniziativa a casa mia sono arrivati questi tre libri citati nell'Indice, che ho letto con grande interesse. Confesso che per ì poeti "americani" come Bukowski mi ero fermata tanti anni or sono a Bob Dylan che mi era piaciuto da subito moltissimo e avevo trovato conforto a questa mia scelta d’anima in un’ottima professoressa di lettere nei licei (commentava Dylan ai suoi allievi), mia coetanea e compagna in un’altra sezione del Liceo D’Oria. Lei, Laura Dedone Bisio, è poi diventata anche un’affascinante conferenziera in occasioni letterarie organizzate dal Municipio IX Levante di Genova. Insieme abbiamo presentato alla Biblioteca Universitaria di Genova, lunedì 23 aprile 2007, Diari ed Epistolari di guerra (1934-1946): Laura ha parlato di Immagini d'esilio di Antonio Mor (Grecia-Egitto-India), io ho commentato Il testamento del Capitano(Mio padre disperso in Russia sul Don, 1942) di Piero Gehddo, Giuseppe Benelli il mio Lettere d’amore e di guerra, tratto dall'epistolario dei miei genitori (Edgardo ed Ida Bressani – Trieste, Kairouan, Saida, Bobbio), già tra i dieci finalisti nel 2002 al Premio dei Diari di Pieve Santo Stefano (vicino ad AR, Toscana).

Quanto al secondo e al terzo libro, arrivati con il book crossing a casa mia, cioè La pienezza del vuoto  e Einstein e il Sasso, hanno interessato soprattutto mio marito, ingegnere. Ne è rimasto affascinato e quando è passato  salutarci un suo fratello minore, Peppi, dottore in economia e commercio, gli ha messo in mano il primo dei due e lui si è appassionato alla lettura al punto che dopo la mia recensione, mio marito ha deciso che glielo spedirà in modo che lo possa “centellinare”. Questo mio cognato è stato da sempre un poco appassionato di libri, soprattutto però dal lato commerciale, nel senso del come diffonderli e farli acquistare. Ciò avvenne, grazie a lui, con The American Peoples Encyclopedia (A modern reference Work, Grolier Incorporated - New York, venti volumi più quelli di aggiornamento dal 1967 al 1975, uno per annata).

Mio marito l’acquisì perché proposta da suo fratello ed io allora, giovane sposa, piansi perché era costosa e avevo già altre insigni enciclopedie in casa, Il grande dizionario enciclopedico della Utet (XII volumi più la Cronologia universale, più sette Appendici) e, sempre della Utet l’Enciclopedia universale dell’Arte (XVI volumi). Però nel tempo ho ben apprezzato l’enciclopedia The American… in quanto di agile consultazionee forse più dinamica delle mie.

Da sola io mio sono regalata solo la Biblioteca Romantica di Mondadori e I Nobel della Utet.

Quanto alla Biblioteca Romantica trovo nell’ultima pagina di Guerra e Pace un nota dell'editore Arnoldo Mondadori. Questi precisa che nella Nota di seguito alla Certosa di Parma, primo volume della Biblioteca, pubblicato nel 1931, venivano illustrati i criteri della scelta dei testi e delle traduzioni. La Nota era di Giulio Antonio Borgese e conteneva il progetto d’insieme della collana. Alcuni autori (pochi9 non venero poi pubblicati e Guerra e Pace e il Don Chisciotte previsti in un vlume furono pubblicati in due: queste le sole modifiche rispetto al progetto iniziale. La ristampa avvenne nel 1970. Acquisii la collana grazie alla segnalazione sulla rivista Grazia cui mi abbonava zia Pina e ne fui oltre modo lieta anche perché i libri erano accompagnati dagli Ex-librise ne allego la riproduzione di uno intestato a Marisa Ferrero, mio nome in famiglia e cognome da sposata, mentre poi per i miei scritti ho sempre adottato il nome di battesimo e il cognome d’origine: Maria Luisa Bressani (mi sembrava più in linea con i

    miei studi pregressi e notate l’eleganza di questo ex-libris come la carta avariata delle pubblicazioni che portavano sempre in apertura una foto

     dell'autore.

                                                             

Ho anche un biglietto da visita di un libraio, Bardini Libri, che l’autunno passato esponeva in Galleria Mazzini I classici italiani, latini, greci e della scienza (sempre editi Utet e a me regalati da mio padre) e se mai i miei nipoti non li vorranno dato che i libri portano via spazio e comunque se sono tanti si rischia di non leggerli come ho fatto io per  la maggior parte di questi, questo libraio sarebbe interessato ad acquisirli. Altra soluzione, potrei far erigere con disposizione testamentaria una gran pira di tutti questi libri e farmi bruciare lì sopra come usava in India. Non so se i nostri crematori oltre al corpo accettino anche i libri: penso proprio di no tanto più che ora sono al collasso per le tante vittime del Covid 19.

Mi viene in mente quando una volta da giornalista di quartiere ero andata per le scuole locali per scriverne e mentre mi attardavo a prendere appunti, un bidello, desideroso di chiudere al più presto, mi si avvicinò per dirmi, imitando Carducci: "E scrive e scrive e ha poche altre virtù". Un modo per farmi andar via al più presto ma anche un modo simpatico e da uomo che ricorda ciò che a scuola gli hanno insegnato.

Bando alle chiacchiere, ora torno alle mie recensioni e dopo queste scenderò nella cantina comune del mio caseggiato dove c’è un armadietto che a suo tempo spostammo dalla nostra per far spazio alle moto dei due figli maschi. In quell’armadio ci sono I Classici stranieri della Utet libri carissimi a mia madre che ereditai da lei e ne ho letto solo alcuni, trovandone qualcuno molto, molto attuale pur se scritto molti anni prima. Intendo completare questa pagina (il mio esteso libro on line) con le recensioni a qualcuno di essi.

 

 

                                                                 Charles Bukowski

                        Seduto sul bordo del letto mi finisco una birra nel buio.

 

                                                             

 

                                                           

 

 

 

 

Non ho mai amato i “ribelli", cioè coloro che pur avendo incontrato -come i tanti di noi- le difficoltà della vita, di queste si fanno un vanto come fossero  degli incompresi.  Penso, da sempre, che l’esser ribelli paghi  nel senso di notorietà, accoglienza o pentimento dei tanti - i più - per non aver da subito individuato il “genio ribelle”.

Amo molto di più, da sempre, coloro che faticano come tutti, giorno per giorno, ma non se ne fanno un vanto, anzi ritengono che sia  dovere d’Uomo.

Però ora che, grazie al “book crossing”, ho scoperto Bukowski, un po’ mi devo ricredere. In passato già ho molto amato Bob Dylan quando era considerato solo “un ribelle", ho molto amato Leopardi, che a sua volta si sentì incompreso e  indirizzò tutta la sua poesia come la sua “ribellione” e con infinita sensibilità, malinconia, umanità.

Credo che una delle doti massime e incontrovertibili del Poeta sia la “veggenza", cioè la dote di camminare avanti a noi anni luce. La prima poesia di questi “Sotterranei 50” di Bukowski, è intitolata "Il Mondo dello Spettacolo" ed inizia così: "io non posso farcela/ e tu non puoi farcela/ e noi non/ ce la faremo". Parole profetiche e in contrasto con i messaggi che vengono diffusi durante la pandemia di Covid 19 (una delle tante che ha afflitto l’umanità). I messaggi che ci propinano  sono sempre: "tutti insieme ce la faremo”, invece Bukowski sembra avvertirci già allora e malinconicamente che “così non è". Leggo ancora in modo metaforico questa prima poesia in cui il poeta dice che l’unica cosa nelle nostre possibilità è “alzarci da letto ogni mattina, vestirsi e poi salire in auto, felici nel constatare che questa non ti è stata rubata e non ha le gomme sgonfie”.  E “poi entri/dentro/ e se lei/ parte – tu/ parti”. Ed è come un film ma dentro ci sei tu.  Continua: “e la più lunga/tenuta in sala/ in cui /puoi mai sperare/è/ un solo/giorno”. Ecco ci ha descritto la nostra vita ricordandoci la sua durata massima: “un solo giorno”. Sono passati forse tanti, tanti anni da quando siamo venuti al mondo ma sembra ieri. Un attimo…

Nell’attuale pandemia di Covid 19 alcuni sono stati multati, specie giovani, perché sono saliti in auto dicendosi: “non contagiamo nessuno,andiamo solo in giro per vedere com’è”. Quattro della Lombardia, dalla zona rossa, si sono spinti a Recco per mangiare la focaccia al formaggio e sono stati multati. Così è questo nostro giorno che corre veloce.

La seconda poesia del libro sembra un divertissement del poeta e s’intitola “Tenebre & ghiaccio”. Anch’essa inizia con un richiamo alla precarietà delle vita, quindi alla morte: “passo per Westerm Avenue e guardo le lapidi/ piazzate per terra invece che all’impiedi sul prato del cimitero:/la nostra dignitosa/modernità non vuole turbarci con le cose definitive anche se poi/ paghiamo il 22% di interessi se compriamo con la carta di credito…/ abbiamo bisogno dei nostri punti di riferimento (tipo i cimiteri)/ abbiamo bisogno del nostro liquore e delle nostre responsabilità/ abbiamo bisogno di così tante cose di cui pensiamo di non aver bisogno”.

Il poeta sta guidando verso la sede de Il Mondo è quadrato, una S.p.a., un’istituzione in ci s’incontra e si discute sul fatto che il mondo è quadrato con  il Polo Nord al centro a far sì che tutto non scivoli al di là del margine.

Dice: “Il MARGINE in realtà è un MURO DI TENEBRE E GHIACCIO”. Pensa che forse i pianeti che crediamo rotondi sono illusioni e la luna e il sole in realtà sono quadrati e si fa forza per entrare nel luogo del convegno sperando nel Polo Nord che gli impedisca di cadere al di là della Curva o del Margine. Strana questa poesia ma riflette l’ansia di entrare in un luogo dove forse o si fanno chiacchiere “impegnate” o forse solo “da bar” e quella porta, che esita ad aprire per entrare, potrebbe pure essere quella di casa al rientro serale quanto la moglie può metterlo davanti alle proprie responsabilità. Potrebbe anche essere un centro di ricupero per alcolisti dato che l’Autore aveva il vizio di bere assai, ma ciò che colpisce e ci fa sentire uno con lui è la sua ansia da cui qualcosa deve salvarci: Curva o Margine o Polo Nord, qualcosa che non ci lasci cadere fuori, piombare nel vuoto, anche quello di noi stessi.

La terza poesia è proprio dedicata alla Morte che però qui è un vero colpo di reni della vita e s’intitola “La grande corsa.

Bukowski sta andando in bici (una bici a dieci marce – e si sente il suo orgoglio nel dirlo…) lungo il belvedere sul mare. Sente di avere il viso intenso come un melone e sa che nello zaino ha una bibbia con un panino alla salsiccia e alla mela rossa rossa. Pensa tra sé che la giovinezza è passata nel senso che mai più bacerà una vergine. Ormai ha “faccia mal rasata e peli che fuoriescono dal naso”. Pensa: “vado avanti/liscio liscio/ preparandomi alla tomba…" Poi incontra un gruppo di ragazzi seduti nella loro decappottabile (che abisso sociale con la sua bici…) ed uno commenta nel vederlo: “sapete chi era quello?” “era? era?” l’Autore si scuote, non accetta di buon grado queste parole tombali e grida di rimando: “ehi voi,/scorreggette rumorose!/ voi pezzi di/ cacche/ di coniglio!"  Quindi come spronato per fargliela vedere: “metto la marcia/ alta,/ salgo su una collina/m'infilo in una macchia/ di nebbia,/ le gambe/pompano e/ il/ mare/s'infrange..." Insomma respira di nuovo a pieni polmoni lontano dall’annuncio di morte.

Entro però nel cuore dell’artista, di ciò che lui pensa sia la sua creatività.  La poesia è “Tra una corsa e l’altra”. Un impiegato dell'ufficio postale lo contatta come fanno quasi tutti, quelli ancora in cerca di gloria, con i famosi: "so che non dovrei disturbarti..." Ruvida risposta: "dici bene". L’altro gli spiega che ha passato la notte a leggere un suo libro e vorrebbe intervistarlo. Risposta sempre ruvida: “sono stanco delle interviste, non hanno niente a che fare con niente”. Replica dell'altro: "guarda che l'intervista non è per il nostro giornale ma per me che voglio uscirmene dall'ufficio postale". Bukowski: “devi solo prendere una sedia/ e sederti/davanti alla tua/ macchina da scrivere…”  E quando l’altro gli “toglie il disturbo”, di cattivo umore  definisce così  tutti gli aspiranti scrittori: “non erano/abbastanza fuori/ di testa/ da sedersi a una/macchina da scrivere/ e lasciare che le parole battano/ i tasti./

                                                   non volevano

                                                       scrivere

                                                      volevano

                                                   diventare famosi

                                                       scrivendo.

In queste parole c’è il suo credo d’artista e altrove parlerà del foglio bianco appallottolato quando l’idea non arriva e le dita non fluiscono sui tasti, ma ci parlerà anche del suo amico, il Budda, che gli tiene compagnia sullo scrittoio e che è ormai così impolverato da fargli senire il bisogno di lavarlo. Hanno sopportato tanto insieme in lunghe notti e sembra lo guardi con un sorriso: "sta ridendo di questo schifo di vita”. Il Budda sembra dirgli: “perché pulirmi, tanto mi sporcherò di nuovo” e ancora: “beviti il tuo vino, che è quello che sai fare”. Poi l’amico torna zitto.  Il pensiero della morte prorompe come non mai nel ricordo di Céline.  Sulla parete della sua stanza ha una foto di quest’altro scrittore “maledetto” come lui. “Ha un bastone e un cesto, indossa un cappotto troppo pesante, è stremato dalla vita: i cani l’hanno assalito e non ce l’ha fatta più”. E’ morto in questo 1988 – dice Bukowski -  e ricordando l’amico “tutti questi mesi li ho sentiti in modo tremendo come non mi era mai capitato prima. Accendo una sigaretta e aspetto”. 

Per lui la morte arriva nel 1994 a Los Angeles, quindi a 73 anni che pochi non sono. L’amicizia con Céline era iniziata quando gli aveva scritto una lettera dopo  aver letto il suo Viaggio al termine della notte e lo definì un maledetto maestro che mi sussurra nella testa e che lo aveva fato vergognare della sua pochezza.  E ancora a chi gli chiese perché gli fosse piaciuto così tanto rispose: “perché si è tolto le viscere e ci ha riso sopra”.

Bukowski, nato nel 1920 in Germania, dove il padre svolgeva il servizio militare e dove conobbe la madre, dopo la fine della Prima guerra mondiale, poiché l’economia tedesca era al collasso, i suoi genitori si trasferirono con lui negli Stati Uniti. Lì era nato suo padre poiché il nonno vi era emigrato negli anni ottanta dell’Ottocento. Quanto al vino iniziò a bere a 13/14 anni e scrive: “se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare, se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare, e se non succede niente si beve per far succedere qualcosa”. Frequentò l’Università per due anni seguendo corsi di Arte, Giornalismo e Letteratura. Fu disinteressato alla politica nel senso come evidente da questo suo pensiero: “la differenza tra dittatura e democrazia è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini, in dittatura non dobbiamo sprecare il nostro tempo andando a votare”.

Ha scritto sei romanzi, centinaia di racconti e migliaia di poesie. A 24 anni il suo primo racconto, ma non riuscendo a sfondare nel mondo letterario, per altri dieci anni non mise giù una sola parola. Ottenne un lavoro come postino, ma dopo tre anni si dimise, però nel 1960 ritornò a quell’ufficio come impiegato archivista e vi restò per oltre dieci anni. Nel 1969 accettò una proposta dell’editore John Martin della Black Sparrow che gli contribuì 100 dollari al mese purché si dedicasse a scrivere a tempo pieno. Meno di un mese dopo pubblicò per lui Post office che gli diede fama e perciò – riconoscente (dote rara)- pubblicò tutti i suoi altri scritti sempre con questo editore. Nel 1988 si ammalò di Tbc ma continuò a scrivere fino alla morte. Ultimo suo romanzo Pulp e il suo funerale fu officiato da monaci buddisti, disciplina spirituale cui si era avvicinato (ricordate il Budda sullo scrittoio, non era quindi a caso, ma del tutto autobiografico). Ci ha lasciato questa massima: “La verità profonda per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità”.  Finisco ancora  con la sua poesia “Sguazzare”:

“certe persone sono così cretine che le senti sguazzare dentro la loro cretinaggine…

hanno quasi tutti pezzi: mani, piedi, orecchie, gambe, gomiti, intestini, unghie, nasi e così via

                                                              ma

                                                      non c’è niente

                                                          lì dentro

                                                            anche

                                                           se sanno

                                                            parlare,

                                                         costruire frasi –

 

…loro sono il deposito di tutte le banali stupidaggini di cui si sono imbottiti e mi urta guardarli, mi urta ascoltarli, vorrei correre a nascondermi, vorrei sfuggire alla loro fagocitante inutilità…

                            …non c’è film dell’orrore più brutto né omicidio così irrisolto

                                             ma il mondo va avanti e loro vanno avanti.

 

Concludo sull’assoluta modernità del Poeta e scrittore Bukowski e non a caso la copertina di questa raccolta di poesie, da me ora un poco commentata,  porta una figura da cartone animato che è un suo disegno, una sua elaborazione elettronica.

Se penso all’Infinito di Leopardi immagino ascoltando i suoi versi un quadro ottocentesco in tutto il suo splendore di paesaggio, ma il mondo cammina in fretta e ogni Poeta coglie  il colore del suo tempo.

E proprio per concludere il poeta e uno dei suoi gatti (ai gatti dedicò anche una poesia definendoli “suoi Maestri”).

 

                                                          

 

 

 

                                                Trinh Xuan Thuan

                                     La Pienezza del Vuoto

 

                                         

 

In via del tutto eccezionale dopo questo libro che mi ha affascinata, facendomi capire tante cose sull’Universo e sull'Uomo inserisco due foto dell'autore: una al suo scrittoio e una durante una conferenza.

L’Autore, nato ad Hanoi nel 1948, ha studiato al California Institute of Technology e lal’Università di Princeton, Insegna astronomia all’Università della Virginia ed è ricercatore all’Institut d’Astrophysique di Parigi. Ha ricevuto il premio Kalinga dell’Unesco nel 2009 e il Prix Mondial Cino del Duca nel 2012 (www.trinhxuanthuan.fr)

Mi ha fatto capire con il libro che sto per recensire quanto siamo provinciali culturalmente e capaci di credere l’Italia che è nel “cortile” del Mediterraneo come tuttora al centro del mondo. Per spiegarmi meglio vi prego di leggere sia questa recensione sia la successiva di uno scienziato palermitano che ha lavorato al CERN di Ginevra: entrambi sull’Universo arrivano più o meno in base alle più avanzate conoscenze attuali alle stesse conclusioni, ma tra i due c’è una diversità abissale. Il vietnamita di Hanoi dà spazio anche a ciò che è l’uomo nella sua essenza spirituale, il palermitano si ferma alla Scienza come verbo incontrovertibile e come non ci fosse altro al di là di essa.

 

 

                                                      

 

 

La pienezza del vuoto inizia con un capitolo intitolato “Il vuoto matematico”  che nella prima pagina riporta una definizione del dizionario Petit Larousse: “Uno spazio che non contiene niente” o anche dal Dicionnaire culturel: “Uno spazio che non è occupato dalla materia”. Definizioni entrambe profondamente in contrasto con la sua dedica di questo libro che è alla memoria di genitori e sorella, ma anche a chiunque sia alla ricerca di un vuoto fecondo.

L’Autore ci suggerisce di fare il vuoto nella nostra mente giungendo alla conclusione che, dopo aver scartato tutto, comprendiamo di dover smettere di muoverci, di agitarci, comprendiamo di “non agire soltanto per fare, ma di agire anche per essere”. Ritrovimo così il vuoto della piena consapevolezza e della “coscienza attenta”.

Da scienziato ci fa osservare che nel regno della matematica il vuoto assume la forma della cifra zero e che questa parola trae origine dal termine indiano sunya che significa vuoto o nulla, parola che in arabo è diventata sifr, anch’essa con il significato di “vuoto” e zephirum in latino dando origine al termine zero.

Ci ricorda che il pensiero matematico è nato dal desiderio dell’uomo di contare gli oggetti che possedeva e che l’uomo si è servito anche del suo corpo per contare. Non per incidervi tacche (corrispondenti a numeri) come sulle ossa, sul legno o sulla pietra ma per far corrispondere un numero a determinate parti del corpo. Le dita della mano sono state associate al numero cinque e i cinesi hanno utilizzato un calcolo digitale basato sulle dita delle due mani, mentre alcune tribù indiane d’America utilizzano un sistema di numerazione a base 8 che è il numero totale di intervalli tra le dieci dita. I Sumeri (la loro è una delle più antiche numerazioni conosciute e risalente al 3000 a. C.) adottarono una base decimale, ma anche una base 60 e ancor oggi usiamo quest’ultimo sistema per contare il tempo: un’ora è di 60 minuti, un minuto di 60 secondi. Il sistema degli Egizi, che si sviluppò circa alla stessa epoca e faceva ricorso a geroglifici, utilizzò una serie di disegni.

La cosa da notare è che in tutti questi sistemi lo zero è assente.

E’ stata la numerazione posizionale a rendere necessario lo zero.

Prima dell’invenzione dello zero per calcolare si usavano abachi, pallottolieri e i quipo (cordicelle intervallate da nodi, usate dagli Incas a partire dal tredicesimo secolo, 1200/1300).

Vi sono stati tre zero nella storia della matematica:

1) Con i Babilonesi, nel 300 a.C.  e con il sistema di numerazione a base 60 (simile a quello dei Sumeri). Però compresero che ci potevano essere ambiguità d’interpretazione in quanto rappresentavano lo zero con un chiodo verticale e lo spazio delle migliaia, riservato al chiodo, era solo più ampio di quello riservato ad esso nelle decine, per cui diventava soggettivo interpretare questo spazio.  Perciò lo zero fu poi da loro rappresentato con un doppio chiodo inclinato.

Due chiodi verticali che si susseguivano indicavano 61, due verticali separati di uno doppio chiodo inclinato rappresentavano 3601. Ingegnosi!

2) Con i Maya compare il secondo zero (500-925 d.C.). Usavano una numerazione a base 20 e una separazione a forma di conchiglia indicava lo zero.

Questi zero babilonesi e maya svolgevano il ruolo di marcatori di spazi vuoti.

3) Con i matematici Indiani lo zero diventa numero. S’ispirarono al sistema posizionale babilonese, da loro scoperto quando li aveva invasi Alessandro Magno. Il loro zero è quello che utilizziamo ancor oggi e la parola sunya (vuoto) appare per la prima volta in un trattato di cosmologia indiana - 458 d. C. - scritto in sanscrito.

Aggiungendo nel V secolo d. C. lo zero e usando la base decimale, la numerazione indiana segnava una nuova e decisiva tappa posizionale ed è poi diventata la numerazione universale.

A questo punto l’Autore ci pone e si pone una domanda: come mai lo zero è nato in India e non in Occidente dove i Greci dal VI secolo a.C. al V d. C. avevano compiuto grandi progressi?

Spiegazione: Per loro lo zero era come un anatema perché se si somma un numero a se stesso esso cambia, mentre resta uguale se si aggiunge lo zero che si “rifiuta ostinatamente di modificare tutti gli altri numeri”. La divisione per zero porta in scena l’infinito, mentre se si divide qualsiasi numero per l’infinito si ottiene zero. Al contrario nella coppia Yin (pieno) e Yang (vuoto)  lo zero e l’infinito sono indissolubilmente legati.

Paradossi della filosofia greca come quello di Zenone su Achille e la tartaruga (che l’eroe sfidandola in una gara di corsa non può raggiungere)  fanno sì che perfino Aristotele ritenesse che lo zero fosse un concetto da tener lontano in quanto entità che sfidava la ragione. Aristotele dominò la cultura del mondo occidentale e l’Occidente bandì per venti secoli l’infinito e lo zero, mentre così non fu in Oriente. Mentre il concetto di nulla e di vuoto non erano ben accolti dall’Occidente, nella civiltà indiana il vuoto svolge un ruolo importante nella religione induista. Il dio Siva rappresenta il vuoto supremo che ha generato l’universo. Un libro Al-Hsab al-Hindi, il cui autore, un matematico di Bagdad, al-Khuwarzmi (vissuto tra il 780 –850 d.C.),  spiegava il funzionamento di numerazione indiano e si diffuse assai nel mondo islamico. Gli scienziati arabi conoscevano le idee di Aristotele e la sua avversione per lo zero e l’infinito però accettarono la concezione indiana dello zero come rappresentazione del vuoto. Dopo tre secoli arrivò la prima traduzione latina del libro di al-Khuwarizmi, cioè Algoritmi de numero indorum, diffondendo questa conoscenza del calcolo indiano nell’Occidente cristiano. Nel 1277 l’arcivescovo di Parigi Étienne Tempier decise di abolire alcune dottrine aristoteliche in contrasto con l’idea di un Dio onnipotente e sdoganò il vuoto di cui da allora si  parlò. Ci furono riluttanze come a Firenze dove nel 1299 furono proibiti i numeri arabi perché con un semplice tratto di penna lo 0 poteva esser convertito in 6, ma in Occidente si diffuse il termine algoritmo per una serie finita di istruzioni che portano alla soluzione di un problema.

Dopo questa affascinante ricostruzione del cammino della numerazione decimale e con lo zero, da noi adottata, il secondo capitolo spiega il perché di questa ostilità antica per il vuoto o il nulla o lo zero: “L’horror vacui”. Trinh ci offre una splendida carrellata sul “miracolo greco” che per otto secoli produsse menti speculative eccezionali con la convinzione che doveva essere esistita una materia primordiale a partire dalla quale era nato l’Universo, il Caos era diventato Cosmo quando vi aveva trionfato l’ordine e il vuoto fece il suo ingresso ufficiale nella scienza con la nascita della teoria atomista. Leucippo (circa 500 a.C.) fu il primo a formulare l’ipotesi che  la materia fosse composta di unità fondamentali invisibili chiamate atomi (che etimologicamente in greco significa “indivisibile”).  Ma la voce di atomisti e stoici fu sopraffatta da Platone e dal suo allievo Aristotele (384-322 a.C.) che ripresero l’idea di Empedocle cioè che lo spazio dell’universo non fosse vuoto ma immerso in una sostanza informe, l’etere, che si aggiungeva ai quattro elementi: aria,acqua, terra, fuoco, costitutivi dell’universo. Quello di Aristotele era un universo finito con al centro la terra e codificò il principio dell’horror vacui: “la natura ha paura del vuoto”. “L’universo non era stato creato, c’era sempre stato ed avrebbe continuato ad esserci per l’eternità”, era un concetto molto rassicurante.

Verso la fine del II secolo a.C. la Grecia fu annessa all’Impero romano e i Romani erano poco inclini alle astrazioni e non s’interessarono della cosmologia. Nel V e VI secolo le invasioni barbariche diedero a Roma il colpo di grazia, la sapienza greca scomparve dall’Occidente, il testimone della scienza passò ai califfi di Bagdad che tra il 750 e il 1000 fecero tradurre in arabo le grandi opere greche.

Nel mondo medievale il sapere divenne appannaggio della Chiesa e i teologi cristiani sostenevano che Dio avesse creato il mondo ex nihilo, dal nulla, facendolo passare dallo stato di inesistenza a quello di esistenza. E alla domanda “Che cosa avesse fatto Dio prima di creare il mondo?”, Sant’Agostino, aggirando il problema, rispondeva che Dio aveva creato il tempo (e lo spazio) simultaneamente al mondo e quindi la domanda non aveva senso perché il concetto di anteriorità non si poteva applicare prima della creazione del tempo.

Nel sedicesimo secolo (il 500) la riscoperta del De rerum natura di Lucrezio, cantore e divulgatore dell’atomismo, fece rinascere l’idea di uno spazio vuoto tra gli atomi e Lucrezio celebra anche la pluralità dei mondi.

Tra Cinque/Seicento fu Galileo a riflettere sul problema del vuoto…

Vengo però al punto fondamentale: circa 14milioni di anni fa avvenne una spaventosa deflagrazione, il Big Bang che diede origine al nostro universo. E’ stato nel 1929 che l’astronomo americano Edwin Hubble si è accorto dell’espansione dell'Universo e se con un esperimento ideale invertissimo il corso degli avvenimenti tutte le galassie si troverebbero nello stesso istante nello stesso punto, ma con il Big Bang si è costituito un universo dinamico in perpetua formazione, il cui movimento di espansione trascina con sé galassie ferme.

Un fatto dobbiamo fissarci bene in testa: il Bang è avvenuto nella quiete assoluta perché quando la materia non aveva ancora fatto la sua comparsa non c’era mezzo che trasmettesse le onde sonore. Il film dei primordi è muto, senza suono.

L’Universo è stato plasmato da quattro interazioni fondamentali: la nucleare forte che tiene insieme protoni e neutroni, i “mattoni” dei nuclei atomici; l'interazione elettromagnetica per cui le cariche opposte si attraggono e quelle uguali si respingono (e le molecole e la struttura a doppia elica del DNA dipendono tutte da essa); l’interazione nucleare debole che agisce come un'anticolla ed è responsabile della disintegrazione della materia, processo che si chiama radioattività (senza essa il Sole non produrrebbe energia per una decina di miliardi di anni, ma vivrebbe pochi milioni di anni, cioè un battito di ciglia nella storia cosmica); infine l’interazione gravitazionale, mille miliardi di miliardi di miliardi di miliardi (1039) più debole dell'elettromagnetica.

Poiché tuttora l’Universo è in espansione e il suo spazio continua a rarefarsi e raffreddarsi, tutto ha avuto inizio da uno stato di calore e densità elevatissimi concentrati in uno spazio infinitesimo, però le fluttuazioni del campo di energia primordiale non si stabilizzano sul valore zero e quindi lo spazio non potrà mai essere vuoto.

Attraverso affascinanti sotto capitoli come “La cristallizzazione del campo di Higgs e l’origine delle masse”, “La particella di Dio”, “Il Bang: un espansione inflazionaria”, “Un Universo in accelerazione”, “Un Universo nato dal vuoto”, “Susy (cioè SuperSymmetry) e la teoria delle stringhe”, “Il Multiverso” viene introdotto questo concetto: in una delle centinaia di miliardi di galassie dell’Universo osservabile, quella dal dolce nome di Via Lattea, vicino ad una stella di nome Sole, su un pianeta chiamato Terra, circa 3,8milioni di anni fa degli atomi si aggregarono in catene di DNA che diedero origine alla vita, poi alla coscienza e a uomini capaci di interrogarsi sull'Universo che li ha generati.

E sorge la domanda: è possibile che l’energia del vuoto sia determinata dal mero fatto che noi esistiamo?

Gli astrofisici si sono accorti che l'esistenza della vita e della coscienza nel cosmo dipendono da una calibratura precisa delle costanti fisiche e delle condizioni iniziali. Se questi parametri numerici variassero di pochissimo, l’universo sarebbe del tutto diverso: non potrebbe ospitare la vita e noi non potremmo esistere. L’astronomo anglofrancese Brandon Carter (1942) ha proposto di chiamare tale constatazione “Principio antropico”. Si è in seguito considerata l’idea di Universi paralleli in cui però è solo il nostro a possedere le condizioni richieste.

Non solo, trascinate dall’espansione accelerata dell'universo, le centinaia di miliardi di galassie oggi osservabili, diventeranno per noi invisibili entro duemila miliardi di anni circa, cioè cento volte l’età attuale dell’Universo, e tra quattro miliardi di anni la Via Lattea si fonderà con la vicina Andromeda. I nostri discendenti potranno osservarla per dedurne che il nostro Universo attraversò una fase in cui era molto piccolo, caldo e denso ed è nato da una deflagrazione, il Big Bang? No, non potranno più farlo e l’espansione dell’Universo della materia oscura e dell’energia del vuoto apparirà loro il mito di un’antica civiltà scomparsa, concepito per descrivere l’origine del mondo, ma privo di qualsiasi riscontro concreto: tale concezione corrisponde in maniera sorprendente a quella delle maggiori tradizioni spirituali d’Oriente: l’induismo, il taoismo, il buddismo. (Ed è su questo tema religioso la conclusione del libro).

Nella splendida carrellata di conquiste scientifiche riguardo l’Universo, un nome di questi straordinari inventori, mi ha intenerito: Blaise Pascal, morto a soli 39 anni, afflitto da disturbi di salute tra cui violente emicranie (e bisogna averle provate come me per capire cosa significhino).

Diede un contributo fondamentale a settori della fisica come calcolo delle probabilità, geometria, algebra e studio dei fluidi e dei gas sotto pressione. Era nato in una famiglia della piccola nobiltà di toga, suo padre era magistrato ed aveva deciso di educarlo personalmente, desiderando si dedicasse allo studio del latino e del greco più che alla matematica. Ma il bambino “prodigio” scoprì a dodici anni le proprietà geometriche dei triangoli che Euclide aveva enunciato duemila anni prima, a 16 pubblicò le sue prime scoperte di geometria nel Saggio sulle coniche, a 19 inventò una delle prime calcolatrici meccaniche, la “pascalina”, per aiutare il padre nella riscossione delle imposte…

Non mi dilungo a ripercorrere le sue scoperte (perfino quando troppo ammalato per procedere ad un esperimento si rivolse al cognato perché lo eseguisse e con successo), ma riprendo le parole a suo riguardo che Trinh  riporta  dal Genio del cristianesimo di Chateaubriand:

“C’era un essere umano che, dodicenne, aveva creato la matematica con sbarre e tondi, uno che, sedicenne, aveva scritto il più competente trattato delle coniche che si fosse visto dall’antichità, uno che, diciannovenne, ridusse in macchina una scienza che esiste tutt’intera nell’intelletto, uno che, ventitreenne, dimostrò i fenomeni del peso dell’aria e distrusse uno degli errori più gravi della fisica, uno che  all’età in cui gli altri uomini incominciano appena a nascere, dopo aver finito di percorrere il cerchio dell’intera scienza umana, si accorse del suo nulla e volse i pensieri alla religione… Un uomo che da quel momento, fino alla morte arrivata quando aveva 39 anni, sempre ammalato e sofferente, risolse teoricamente uno dei problemi più complessi della geometria e buttò giù su foglietti di carta pensieri che hanno tanto del divino quanto dell’umano: questo spaventoso genio si chiamava Blaise Pascal”.

Mi sono dilungata a ripercorrere la vita di Pascal perché nelle parole sopra sottolineate in azzurro c’è il concetto stesso di questo libro: il non fermarsi alla scienza ma capire che l’infinito o l’ansia d’infinito dell’uomo spazia molto più largamente.

Pur se l’Autore scriverà alla fine: “Quelli della scienza e della spiritualità sono due Magisteri diversi, come ha sottolineato il biologo americano Stephen Jay Gould”. “La scienza funziona benissimo – ci ricorda ancora Trinh – e raggiunge lo scopo che si è prefissa – lo studio e l’interpretazione dei fenomeni senza alcun bisogno di sostegno da parte di una tradizione spirituale o di una religione, mentre queste ultime mirano a indurre in noi una metamorfosi interiore profonda a livello di percezione del mondo e d’interazione con esso, e ad aiutarci a pensare e agire in modo corretto.

Che sia la Terra a girare intorno al Sole o il contrario, che all’origine dell’universo ci sia il Big Bang o un’altra causa, per la religione non cambia niente. Ma scienza e spiritualità s’ispirano entrambe a una ricerca della verità i cui criteri sono l’autenticità e il rigore. Le rispettive maniere che hanno d’immaginare il reale non devono condurre tanto ad un’opposizione irriducibile, quanto ad un’armoniosa complementarietà”.

E se queste sono le parole finali del libro, prima c’è un interessantissimo capitolo “Il Tao del Vuoto” che indaga le religioni trovando i punti di contatto con la scienza.

Poiché per noi cattolici sono concetti poco frequentati ne accenno in breve.

“Tao” significa “via”, “metodo”. Quale via? Quella dell’Universo!

Il Tao non può essere visto, non può essere enunciato (e troviamo in questo concordanze con il cristianesimo sul concetto di Dio). Il Tao è la “madre di quel ch’è sotto il Cielo”. Ma il concetto taoista è anche di un Vuoto-pieno all’origine di tutto, di un Non-essere che genera l’Essere e presenta incredibili somiglianze con la cosmologia moderna.

Non solo, il Vuoto tende alla pienezza, quindi è alla radice della “Via”. L’antica pittura cinese, d’ispirazione taoista, è una riprova di questo assunto: non mira a produrre un oggetto estetico ma ha come obiettivo la rivelazione stessa del mistero dell’Universo. Nel libro un dipinto taoista che, nel raffigurare valli e montagne, mostra l’interazione tra Vuoto e Pieno. Il taoismo spesso paragona il Vuoto ad una valle, infossata tra i monti ma che nel fondo contiene alberi, corsi d’acqua ecc.

I Ching o Libro dei mutamenti, del primo millennio a.C., considerato uno dei testi più importanti del pensiero universale, contiene 64 segni che si basano sul simbolismo dello Yin e dello Yang, cioè del Pieno e del Vuoto. Tali segni si mutano di continuo gli uni negli altri, come i fenomeni evolvono da una forma all’altra. Dai pianeti alle stelle, dalle galassie agli ammassi di galassie nulla è permanente. I cicli di vita e di morte delle stelle, però, non si misurano in termini di un secolo, ma di miliardi di anni.  E in campo scientifico superata la rigidità di Newton, il tempo e lo spazio di Einstein sono diventati dinamici, elastici, con comportamenti sempre complementari.

Il Buddismo ha riflettuto a sua volta sulla nozione di vuoto.

Siddharta Gautama, il Buddha (il “risvegliato”, in sanscrito) visse nel V o VI secolo a. C., periodo straordinario nella storia umana che vide altri uomini eccezionali come Confucio e Lao-tzu in Cina,  Platone e Democrito in Grecia. Si è interessato alla natura del mondo come fa la scienza perché riteneva che l’ignoranza fosse fonte di sofferenza. C’insegna che dobbiamo imparare a distinguere la realtà apparente dalla realtà ultima (il modo in cui le cose sono davvero). C’insegna -e questa è interconnessione- che la nostra felicità dipende da quella degli altri: “risveglio” non è solo uno stato di conoscenza illimitata, ma anche di compassione infinita.

Il buddismo rifiuta l’idea di un universo che passa dalla non esistenza all’esistenza e ci ricorda in maniera sorprendente il vuoto-pieno dei fisici. Poiché però non accetta l’idea di un inizio dell’universo in cui tempo e spazio siano simultanei, viene a proporci un Universo ciclico. Il Big Bang non sarebbe quindi un’esplosione primordiale unica, ma l’inizio di un ciclo specifico di una successione infinita di cicli, estesi all’infinito, sia verso il passato che verso il futuro.

Il primo scienziato che elaborò il modello di Universo ciclico è stato il russo Aleksander Aleksandrovič Fridman (188-1925) e lo fece con sorprendente sintonia con l’Universo ciclico della mitologia induista. Per essa il dio Brama creò il mondo nel sonno, mentre dormiva e sognava ed ogni ciclo cosmico corrisponde ad uno dei suoi respiri. Ciascun respiro corrisponde a circa 8,6 miliardi di anni, un lasso di tempo vicino all’età moderna valutata intorno ai 13,8 miliardi di anni.

Però le osservazioni attuali escludono un Universo ciclico per lo meno all’interno del modello standard del Big Bang di cui però esistono altre versioni. Oggi, l’evoluzione cosmica, guidata dalle leggi della fisica e della  biologia ricorda sotto molti profili la creazione ex nihilo dell’Universo evocata dalla tradizione giudaico-cristiana.

Una lettura affascinante questo libro al punto che ricercherò un altro testo di Trinh: Lo scienziato e l’infinito- Numeri, uomini e universi. Voglio approfondire.

 

 

                                      Gianpaolo Benincasa

                                              Einstein e il Sasso

 

                                               

 

Sondo mio marito per capire perché questi due libri gli siano piaciuti. Risposta: pur partendo da presupposti diversi arrivano alla stessa conclusione. Cioè: “L’uomo è così perché esiste”.

In sintesi:

-         ogni uomo è quello che è e crede in ciò in cui crede perché...

-         il bagaglio genetico

-         il bagaglio somatico

-         il bagaglio culturale

-         il bagaglio sociale

-         il bagaglio cromosomico dei genitori.

Seleziono dal libro alcuni concetti che valgono più di una mia recensione.

“Ogni uomo nasce con un bagaglio genetico che dipende in gran parte dal patrimonio cromosomico della nostra razza, ma più specificamente da quello dei suoi genitori.

“Sono così ereditari certi tratti somatici e del carattere, certe predisposizioni artistiche i sportive, e purtroppo anche la predisposizione a certi tipi di malattie.

“A questo patrimonio di partenza se ne aggiunge un secondo, non meno importante, fornito con l'interazione don l'ambiente durante il periodo di sviluppo dalla nascita in poi. Patrimonio importante per la formazione del carattere e delle cartatteristiche che formano il bagaglio ideologico, sociale e politico di ogni uomo.

Ogni uomo è quello che è e crede in ciò in cui crede perché così è nato e così si è formato.

Le interpretazioni dei fatti dipendono appunto in gran parte dal bagaglio genetico-ambientale della persona che interpreta.

Nessuno di noi è esente da questa regola: la perfetta obiettività non esiste, è solo un mito.

Può accadere che un giudice con delle idee politiche ben definite, per quanto imparziale ed onesto, mostri spesso maggior empatia ed indulgenza verso quelle più vicine alle sue idee e le cui azioni quindi si prestano, dal suo punto di vista, a qualche giustificazione.

Anche nel campo della scienza, le interpretazioni di fatti certi sono spesso guidate dalle credenze e dal solito bagaglio personale degli scienziati che interpretano tali fatti".

Benincasa cita la Sindone che la Chiesa non ha mai ammesso sia il vero sudario del Cristo deposto dalla croce, ma la tradizione popolare non ha avuto bisogno di questo imprimatur per considerarla tale..

Ora inizia la mia recensione dopo aver premesso chi sia Benincasa, l’autore.

Inizio con un Ah, ah, ah, cioè una grassa risata che si collega a quanto da lui detto sulla Sindone.

Ma prima sull’autore: Gianpaolo Benincasa, palermitano, si è laureato in Ingegneria Nucleare e dal 1967 ha lavorato al CERN di Ginevra per realizzare sistemi di controllo e sicurezza dei più grandi acceleratori di particelle del mondo. Benincasa scrive questo libro per sfatare alcune delle più false credenze riguardo il formarsi dell’universo e la nostra storia, parte dal Big Bang (15 miliardi di anni fa), dalla comparsa di quello che si può considerare il nostro antenato (100mila anni fa) per venire alla nostra storia negli ultimo 10mila o 20mila anni. Stupisce che il libro sia stato edito da Mursia, casa editrice di divulgazione perché per le tante equazioni, ecc. meglio figurerebbe come pubblicazione accademica.

Perché la mia risata? L’Autore sostiene che bastava l’inequivocabile test del carbonio 14 per escludere che la Sindone appartenga al tempo di Cristo, ma gli è sfuggito del tutto il significato della devozione popolare. L’uomo del sudario parla così ai tantissimi fedeli: “Guardate cosa mi avete fatto. E io sono ancora qui nel vostro ricordo per insegnarvi il perdono quello che non avete usato con me”. Grandeggia l’Uomo-Cristo e la gente accorre.

Così tutti i capitoli di Benincasa nati da un profondo sapere scientifico sono dimostrazione che sì forse un giorno l’uomo ne saprà di più ma mai e poi mai si potrà accontentare della scienza in se stessa. Confuta i miracoli e forse un poco, ma solo un poco si arrende davanti al sole roteante a Fatima che però cataloga come una possibile illusione ottica collettiva. Non sa dire “credo quia absurdum” né come Sant’Ignazio di Loyola “gettati a terra e prega e ti verrà la fede”. Crede solo nella scienza che per ora gli dà risposte limitate, crede negli Ufo perché crede negli Universi paralleli. Qui merita proprio di riportare le sue parole Tra le più famose testimonianza quella antichissima di Plinio che parladi Clipeus ardens sui cieli di Roma, quella di Basilea nel  1566 quando durante tutta una giornata, dischi, sigari e altre sfere hanno volteggiato sul cielo della città e sono state riportate nelle cronache locali e quella del 1608 in Costa Azzurra quando si spararono perfino salve di cannone contro questi strani oggetti. In tempi più moderni una vera esplosione di avvistamenti dopo la seconda guerra mondiale…L'ipotesi più affascinante è di macchine volanti guidate da esseri intelligenti venuti da lontanissimi pianeti …E questi visitatori hanno una tecnologia di qualche migliaio di anni più progredita della nostra... Conclusione:essi sono coscienti di quale catastrofe si genererebbe da un eventuale contatto tra due civiltà così differenti. Così come quando noi scopriamo una qualche piccola tribù in una regione sperduta del nostro globo, rimasta isolata dalla nostra civiltà, facciamo enormemente attenzione a non creare questo catastrofico shock di civilizzazioni (come è purtroppo già accaduto). Quindi gli extraterrestri ci avrebbero risparmiato per non causarci ciò, però  il progetto SETI (Search for ExtraTerrestrial Intelligence): ricerca di intelligenze extraterrestri e che utilizza una serie di grandi telescopi per captare segnali dall'universo, finora non ha raggiunto risultati apprezzabili.

Forse con umiltà, pur affascinati da questa ipotesi, dovremmo tornare a Shakespeare quando dice che “fra cielo e terra ci sono più cose di quanto l’uomo non immagini". Forse pur continuando sull'arduo cammino della scienza (e ricordando che le più grandi scoperte sono spesso avvenute per motivi del tutto casuali) dovremo accontentarci di sfangare e sfangare sulla strada del progresso e della civiltà, ma forse potrebbe esserci più facile se accogliessimo con umiltà il senso del mistero e allora forse quelle domande impervie: Perché esiste l’universo? Chi siamo? Da dove veniamo? Perché ci siamo” che sono quelle dell'uomo da sempre troveranno qualche piccola risposta.

 

                                                 Alan Lightman

                                                                 L’universo accidentale

                                                            sette riflessioni cosmologiche

                                                        sul mondo che credevi di conoscere

 

                                            

 

Nella cover (in quarta) è riportato questo commento dal Columbus Dispatch: Alan Lightman è forse l’unico scrittore in grado di destreggiarsi attraverso non uno ma sette universi in un libro poco più largo di una mano”. E in 140 agili pagine l’autore fisico teorico, specializzato a Princeton e a Caltech, che per venti anni ha svolto ricerca in astronomia e fisica, insegnandole ad Harvard e al MIT (Institute of Technology del Massachusetts uno dei più importanti al mondo) è come ci prendesse a bordo di una navicella spaziale. Ci porta così a capire un po’ di più il mistero dell’Universo che ci circonda.

Lo fa con semplicità, chiarezza e maestria in quanto al MIT ricopriva due incarichi: insegnava Fisica al mattino e Scrittura creativa al pomeriggio. Non avrebbe queste sue qualità, così importanti per chi legge e deve e vuole capire, se non avesse imparato molto dal secondo incarico, affinando il suo potenziale di scrittore. Se al mattino parlava di un mondo di “pura logica e razionalità” al pomeriggio invece analizzava con gli studenti  la natura caotica delle vicende umane e i percorsi poco chiari della mente. Partiva da un presupposto inconfutabile: “le persone reali non sono prevedibili”. “Un personaggio che agisce sempre in modo razionale è fasullo, un personaggio che puoi capire al cento per cento è come morto”. Anzi gli studenti che scrivevano storie con personaggi privi di contraddizioni erano sonoramente rimproverati per aver creato solo “robaccia scadente e senza vita”.

Cosa c’insegna Alan?

Parte da una premessa: “come scienziato credo fermamente che gli atomi e le molecole siano reali (anche se consistono soprattutto di spazio vuoto) e che esistano in modo autonomo dalla mente di chiunque”. “Noi sappiamo – continua – che le istruzioni per ‘costruire’ un essere umano – o meglio qualsiasi forma di vita – sono codificate in una molecola a forma di doppia elica (Dna) che si trova in ogni minuscola cellula del nostro corpo”. Prosegue così: “nel primo saggio di questo libro, L’universo accidentale, parlerò della possibilità che esistano Universi multipli, molteplici ‘continuum’ di spazio-tempo, alcuni dei quali con più di tre dimensioni. Mentre nel concetto antico e proprio secondo etimologia Universo  deriva dal latino ‘unus’ (uno solo, unico) combinato con il participio del verbo ‘vertere’, che significa ‘volgere’. Quindi secondo i latini l’universo sarebbe ciò che è avvolto in un tutt’uno”. E’ chiaro che il discorso fisico e cosmologico ha una lunghissima storia e se nel V secolo a. C. il filosofo Democrito concepì gli atomi, nel XIX gli scienziati scoprirono che le proprietà chimiche degli atomi si ripetevano periodicamente tanto da poterne trarre una tavola periodica degli elementi. Precisa Alan: “la storia della scienza può essere vista come rielaborazione di  fenomeni prima accettati come dati di fatto in fenomeni che vanno compresi in termini di cause e principi fondamentali”. Conclude questo primo assunto con l’osservazione che “l’impetuoso sviluppo delle ricerche cosmologiche ha portato ad ipotizzare  che il nostro universo sia solo uno tra un enorme numero di altri e che alcuni dei più basilari parametri del nostro particolare universo sarebbero puri accidenti: un tiro casuale di dadi cosmici”.

I fisici chiamano la totalità degli universi Multiverso. E oggi due teorie fisiche – note come inflazione cosmica (teoria del Big Bang) e teoria delle stringhe (che vuole conciliare la meccanica quantistica con la relatività generale) – ci indicano che gli stessi principi fondamentali da cui derivano le leggi di natura da noi  conosciute possono condurre a molti diversi universi con molte differenti proprietà. Perciò noi viviamo in un universo accidentale. Per capire meglio: il quanto dal latino (dove significa quantità) indica la quantità elementare di una certa grandezza e per estensione il termine diventa sinonimo di particella elementare associata ad un campo di forze. La teoria quantistica dei campi sviluppa la meccanica quantistica applicandola al concetto di campo per cui la particella prende il significato di “stato eccitato del campo”. Ma qui arriva anche il tocco magistrale dello scrittore perché ci spiega al riguardo che è come entrare in un negozio di scarpe e poter calzare il 38, 42 o 45  con uguale comodità.

A questo punto Alan non può esimersi da una digressione sul principio antropico per cui se nell’universo i parametri fossero appena diversi da ciò che sono, la nostra esistenza risulterebbe impossibile e anche la vita in sé in ogni sua forma e rispetto al grande ventaglio di possibili universi la frazione di quelli che possono contenere la vita è senza dubbio piccola. Subentra quindi il grande problema del Creatore per cui Alan si appoggia ad un concetto dello scienziato Steven Weinberg: “sono ormai molti secoli che la scienza ha indebolito la presa della religione e non perché abbia confutato l’esistenza di Dio ma perché ha falsificato gli argomenti a suo favore, basati su ciò che è osservabile nel mondo naturale”. Ne nasce tutta una discussione sul “disegno intelligente”, sul Creatore, sulla fede.

Alan si dichiara ateo però anche lui ha una fede fortissima ed è nella natura.

Soprattutto ci stupisce con tanta umanità come quando assiste al matrimonio della figlia (e siamo già nel II dei VII capitoli: L’universo provvisorio). Ci racconta che la figlia  è venuta a prendergli il braccio per farsi accompagnare lungo il vialetto e lui ha desiderato con tutto se stesso di riaverla all’età di dieci anni mentre ora ne ha già trenta. Tale accostamento personale lo porta ad introdurci la freccia del tempo, che i fisici chiamano secondo principio della termodinamica. In grande sintesi la constatazione è di un universo che implacabilmente si sgretola, si consuma mentre un tempo i continenti erano uniti insieme e l’atmosfera era fatta di ammoniaca e metano, mentre ora è di ossigeno e azoto.

E lo scrittore si sovrappone allo scienziato per ricordarci la lunga ricerca umana sull’elisir di lunga vita. Anzi il primo imperatore della Cina Qin Shi Huangdi ormai vecchio spedì centinaia di servi a cercarlo e poiché tornarono a mani vuote il suo medico gli prescrisse pillole di mercurio per renderlo immortale con il risultato di avvelenarlo. Commenta: “oggi siamo risposti a spendere per parrucchini, addominoplastiche, lifting e trattamenti con il botox e avendo fatto una ricerca su Google sui “prodotti per restare giovani” ha trovato ben 37.200.000 risultati. Commenta ancora: “però nel mondo un po’ dappertutto si conservano monarchie ultradatate e nella Chiesa cattolica la norma sul celibato dei preti è intatta dal Concilio di Trento del 1563…” Alan si addentra in una digressione in base a ricerche di altri scienziati per mostraci la sua fede in fenomeni dell’universo, compresa la nostra esistenza che si possono derivare completamente dalle leggi di natura e da processi casuali senza necessità di alcun Disegnatore intelligente. Conclude che “la scienza non arriverà mai a sapere cosa abbia originato il nostro universo” e ci ricorda come la fede e la passione per il trascendente che spesso l’accompagna abbiano originato molte splendide creazioni del genere umano. Ne cita alcune come i versi del Gitanjali, l’oratorio Messiah, la moschea dell’Alambra, gli affreschi sulla volta della Sistina. Ci chiede: “dobbiamo rimproverare Tagore o Hendel  o il sultano Yusuf o Michelangelo di essere irrazionali?” “La fede – ci spiega - è qualcosa di più che credere in Dio o non curarsi delle prove scientifiche. La fede, a volte, è disponibilità ad affidarsi a cose che non comprendiamo completamente, è credere in qualcosa di più grande di noi”. Ci offre anche la riflessione scontata che in nome della Religione gli esseri umani hanno inflitto sofferenze e morte, ma, paragonandola alla Scienza anche questa ha partorito armi di distruzione, specie nel XX secolo. Conclude che per lui Scienza e Religione hanno il senso dello stupore (il nostro modo di entrare in sintonia con la natura di fondersi con essa) e tutte le Religioni contemplano l’idea dell’immortalità. Però ci ricorda anche lo sbocciare del fiore del cactus che dura una sola notte, “delicato e fugace come una vita nell’universo” e come quel fiore è anche la nostra vita: un battito di ciglia su questa terra.

Però da questa meraviglia della natura e dallo stupore che ne consegue, passa ad introdurci l’episodio dei falchi pescatori che hanno fatto il nido vicino alla sua casa di vacanza nel Maine. Con la moglie registravano tutti i particolari della loro vita su un quadernetto ed erano certi ed orgogliosi di aver documentato con precisione una piccola porzione di universo. Ma un pomeriggio d’agosto i due falchetti che spiccavano il primo volo, puntarono dritto su di lui che li aveva osservati così a lungo come se pure lui fosse in un nido. Gli volarono contro a grande velocità e lui pensò che con i loro potenti artigli potevano ferirlo ma rimase fermo e per mezzo secondo gli capitò d’incrociare gli occhi dei falchetti. “Le parole non riescono a tradurre ciò che è passato tra noi in quell’istante – ci precisa- era uno sguardo di mutuo rispetto, il riconoscimento che spartivamo uno stesso luogo”.

Continuando nella sua analisi serrata sulla natura che ci circonda, si chiede perché siano così tante le simmetrie in natura proprio come nell’alveare di api. Spiega molto bene che dipende dal principio di economia. Né dimentica il mistero e ce lo riporta con parole di Einstein: “la più bella esperienza che possiamo fare è il mistero. E’ l’emozione fondamentale che sta accanto alla culla della vera arte e della vera scienza”.

Per continuare però il discorso più propriamente scientifico ci ricorda che la stima fatta da Newton sulle posizione delle stelle più vicine superava qualsiasi altra distanza mai concepita prima nella storia. Queste distanze vengono poi soverchiate dalle misurazioni effettuate all’inizio del XX secolo da Henrietta Leavitt, un’astronoma dell’Harvard College Observatory. Nel 1912 ideò un metodo completamente nuovo per determinare la distanza degli astri più lontani. Alcune stelle, chiamate variabili cefeidi, sono note per l’oscillazione della loro brillantezza.

Leawitt scoprì che il periodo di tali stelle è correlato alla loro luminosità. Sono disseminate in tutto l’universo: funzionano come segnaletica per la distanza cosmica nell’autostrada spaziale. (Bellissima immagine partorita dal genio dello scrittore!).

La scienza ha esteso largamente la scala del nostro universo. Nel marzo 2009 la NASA ha lanciato un telescopio spaziale chiamato Kepler con la missione di cercare pianeti orbitanti nelle zone abitabili di altre stelle. Si definisce zona abitabile una regione in cui la temperatura risulti non tanto fredda da ghiacciare l’acqua né tanto calda da farla bollire. Biologi e chimici ritengono sia necessaria la presenza di acqua allo stato liquido perché la vita possa emergere. Sono già state individuate dozzine di pianeti candidati ad avere tale caratteristica. “Se la vita è emersa da un processo casuale  - pensa Alan che è ateo – enormi quantità di materia inerte sono state necessarie per ciascuna particella vivente e questi risultati non possono non influire sulla domanda circa il significato della nostra esistenza nell’universo”.

Appare basilare nel suo discorso alla ricerca delle nostre origini un importante congresso scientifico europeo del 1930 e la lettera che scrisse allora ai colleghi il geniale fisico austriaco Wolfgang Pauli: “ho escogitato un metodo per salvare la legge di conservazione dell’energia: quando un atomo radioattivo emette una particella beta, emette anche un altro genere di particella…” Era quella che allora era ignota e che poi fu chiamata neutrino. Scrisse l’austriaco: “la somma delle energie di neutrino e di particelle beta eguaglia correttamente la differenza nel saldo energetico dell’atomo” e quindi era comprovato che la legge di conservazione dell’energia restasse un principio inoppugnabile. Chiudo l’articolato discorso del fisico Alan, imperniato, pur ripercorrendo la storia delle scoperte, su quanto sarà ancora possibile scoprire e che non finirà mai di sorprenderci. Pur se non arriveremo mai a capire del tutto il perché del Big Bang o il perché dell’origine della nostra vita (se casuale o voluta dal Creatore) non cesseremo di sorprenderci per altre scoperte future.

Poiché però uno dei tratti più emozionanti di questo scienziato è il saper darci piccoli “flash” della sua vita che appartengono anche a noi, mi piace concludere con il suo ricordo di una cena con una figlia venticinquenne e con le sue amiche. “Molte tenevano i loro iPhone sul tavolo, accanto al piatto –commenta- come bombole di ossigeno in miniatura per malati di enfisema, da portarsi sempre dietro. Ogni paio di minuti gettavano un’occhiata al telefono per controllare l’arrivo di un nuovo messaggio. Una ha mostrato la foto digitale del suo cane, un’altra ha fatto ascoltare la musica dal suo iPod. Commenta ancora: “l’esistenza incorporea è la loro realtà”. Ricorda pure quando gli capita di passeggiare nel suo parco del Massachusetts e d’incontrare altri che parlano al telefono ed è come cercassero di essere contemporaneamente in più parti come  onde quantistiche. Ci ha spiegato poco prima che la particella ha una sola posizione, mentre l’onda può avere più posizioni simultaneamente. La sua riflessione è che queste persone in realtà non siano da nessuna parte. Conclude (ed è proprio la pagina finale): “i più di noi si adatteranno a questo genere di vita, proprio come le persone si sono abituate ai cellulari e a Skype. Sarà il modo naturale e normale di stare al mondo.

“Ma qua e là piccoli gruppi di persone si ribelleranno e fonderanno comunità separate, dove le tecnologie più recenti saranno lasciate fuori dalla porta; allo stesso modo in cui oggi alcuni insistono a scrivere lettere a mano o fanno lunghe passeggiate senza portarsi il cellulare.

“Loro avranno la sensazione di preservare qualcosa di prezioso, di vivere un’esistenza senza mediazioni. Ma d’altra parte saranno disconnessi da quel più vasto mondo chiuso fuori dalla loro porta, che resterà invisibile alle loro abitudini”.

                                  

E non potevo non riportare queste parole vergate da mio marito alla fine del libro (gli è piaciuto molto) e che dopo 57 anni di matrimonio non possono non farmi piacere pur se sul nostro calendario, appeso in cucina per ricordarci le date di rilievo, ha anche scritto per questo nostro anniversario: “57 anni di lavori forzati”.

Proprio come ha scritto Alan “le persone non sono mai prevedibili”.