INDICE
1)
Locandina per la
presentazione del libro alla Libreria Ubik a Trieste
2)
Power point su
copertina a prima pagina del libro
3)
Articolo sul Giornale
di Maria Luisa Bressani – Giorno Ricordo 2010
4)
Elio Varutti, presente
alla Ubik, blogspot 9 giugno 2017
delle parole del prof. Benelli
Alla “mia” Trieste e ai
profughi giuliano-dalmati è uno dei miei ultimi libri, ma tanto caro al mio
cuore perché sono nata a Trieste. E’ una raccolta di articoli usciti su il
Giornale, pagine di Genova con la direzione di Massimiliano Lussana, per il
Giorno del Ricordo 2005/2013.
Riguardo
alla copertina e alla prima pagina del libro-raccolta di articoli e che però
comprende anche una parte centrale di articoli su momenti nodali della Storia
del Novecento come la caduta del muro di Berlino o Tienanmen (eventi di
libertà) desidero precisare poche cose.
In
copertina due loghi di due Associazioni che molto mi hanno onorato su proposta
di Bruna Zuccolin (triestina e presidente
dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato provinciale di
Udine) e dei Giuliani nel mondo con presidente Bruno Locchi e direttore
Fabio Ziberna.
Sopra
la cartolina che conservo dal ritorno di Trieste all’Italia; quindi la prima
pagina con righe in rosso che non sono solo una sottolineatura del testo ma che
nel mio immaginario si legano alla frase che sentii a Trieste: “quando la vite vergine rosseggia
sul bianco Carso è il sangue dei nostri martiri”. Questo libro gronda sangue
per il martirio di tanti italiani.
Sempre
in copertina una foto di me bambina a cinque anni, sul terrazzino di via dello
Scoglio a Trieste e di fianco il titolo del libro come una dedica alla mia
città natale, però per me un po’ città del mito perché in fondo poco la
conosco.
Questa lettera mi è così cara perché Emilia con la sua similitudine
all’anima dalle mille voci mi ha fatto venire in mente il canto degli uccelli
al mattino o alla sera tutti insieme come la prima volta che li ascoltai: ed è
stato a Trieste in Via dell’Acquedotto. Sono proprio le prime sensazioni o
immagini che da bambini memorizziamo e ci accompagnano tutta la vita, in questo
caso con un senso buono, di armonia.
Inserisco ora l’articolo della nostalgia
per la mia Trieste, un po’ città del mito perché vi ho vissuto solo dai quattro
ai sei anni e a metà della prima elementare nel 1948 siamo venuti a Genova. E
il libro è stato concepito proprio per aver occasione di dover tornare a
Trieste come è stato per la presentazione alla Libreria Ubik.
Raro privilegio da giornalista poter scrivere di ciò che ci è
più caro: per me è stato questo articolo.
2010
- VI Giorno del Ricordo - il Giornale 9
febbraio
Una “genovese” (= Maria Luisa Bressani) racconta: la mia Trieste che non c’è più…il gusto della cioccolata, il sapore inebriante della bora, la birreria sotto casa…
Sono nata a Trieste, ma vi ho vissuto
solo due anni, dal 1946 al ‘48, dal ritorno dalla prigionia africana a Saida di
papà fino ad inizio della mia prima elementare.
“Fortunata
lei che è nata in una città tornata all’Italia”, disse una volta il fiumano Fulvio Mohoratz presidente ANVGD. Nel tempo Trieste è diventata la
città di un mio “mito”. Mi spiego. Allora gustai la cioccolata
simile alla nutella che i soldati americani nel dopoguerra davano a me come ad
altri bimbi quando ci recavamo a Barcola per i bagni estivi. Da allora per me
l’America ha gusto buono di cioccolata al di là delle sue bandiere bruciate,
calpestate in altri Paesi. Per me, studiando, è rimasta il rifugio dei Padri
Pellegrini e madre di democrazia.
Per non andar fuori tema: allora Trieste
è stato il luogo dove mia madre dava un piatto di minestra ad un povero che
bussava da noi. Quanti i poveri nella città di frontiera?
Da allora per me è città-simbolo di
tolleranza con le sue tante chiese di culti diversi: San Spiridione
Serbo-Ortodossa, S. Nicolò Greco-Ortodossa, la Neogotica Evangelica Augustana,
S. Michele Anglicana, la Sinagoga di S. Francesco E oltre alla città vecchia,
ebraica, ha la dolente Risiera S. Sabba, un tempio dove pregare per il futuro.
La dominano la Cattedrale e il Castello
di San Giusto martire, per la sua festa coperto di vite rossa. Nel bianco Carso
quando la vite vergine rosseggia si dice: “E’ il sangue dei nostri martiri”. La
domina il Santuario del Grisa dove ho trovato un dépliant con il testamento
dell’Arcivescovo Antonio Santin, testimone
di due guerre mondiali: “Ho assistito allo strazio della mia povera terra e
delle nostre buone popolazioni. Le foibe sono calvari con il vertice
sprofondato nelle viscere della terra... Quello che tutti ci unisce e ci fa
ricchi è l’amore.”.
Tre ricordi importanti questi, ma
Trieste ne ha per me di legati alla bora, al suo mare, alla sua luce. Il vento
che soffia forte mi vivifica: il ricordo si lega a quando il nonno, un
salutista, ci portava in giro nelle giornate di bora e per attraversare le strade
facevamo “catena” con gli altri: per mano perché “insieme si può”. Il vento per
me ha il senso di libertà, si associa a solidarietà, anche ad indipendenza.
Questo perché allora, pur così piccola quando mi mandavano sotto casa a
comprare la birra alla spina, capii cosa vuol dire avere un compito proprio da
svolgere: mi sentivo importante! Abitavamo in via dello Scoglio, una stradina
periferica che si affacciava sulla Birreria Dreher, a due passi da via
dell’Acquedotto dove vivevano nonno e zii. Oggi si chiama via XX Settembre, un
tempo strada del passeggio oggi invasa da auto in sosta. Alla birreria Dreher,
di festa, i triestini si riunivano sulle panche per un panino e un bicchiere
sotto certi stupendi affreschi “ubriaconi”. Di festa con pochi soldi erano
tutti fuori: splendida socialità! Oggi la Birreria è un Centro Commerciale
uguale a tutti.
Trieste allora non era solo questa
festa: quando per il 4 novembre i miei esponevano il Tricolore, con un
fazzoletto bianco cucito sopra lo stemma sabaudo, scendevano gli slavi dal
Carso a tirarci pietre ai vetri. Una volta un donnone slavo quando mia madre in
bicicletta incuneando la ruota nelle rotaie del tram cadde, le gridò: “Crodiga
di un’italiana” che sta per la cotenna del maiale. Nel ’48 papà decise di portarci
a Genova, più tranquilla e con il mare.
Inverno 1948: sul treno del nostro esodo
mio fratello Ferruccio cantava a fior
di labbra “No ghe esisti un altro
paradiso più splendido de ti, Trieste mia”. Un suo compagno, quando ci
furono le proteste del 5/6 novembre 1953 e migliaia di triestini scesero in
piazza contro il piano anglo-americano che voleva fare della città una base
navale, fu tra i giovani uccisi nella sparatoria. Poi con gli zii, a Trieste, i
miei ne parlavano sottovoce per non farci sapere.
Eravamo tornati ogni anno come in
pellegrinaggio, e alla vigilia del 4 novembre ‘54, ritorno di Trieste
all’Italia, nell’unica stanza d’albergo dove dormimmo tutti e quattro, mio
padre andò avanti e indietro tutta la notte. Il giorno dopo i bersaglieri in corsa tra la folla
scaldavano come il sole. E quel 5% di sloveni che temevano ripercussioni simili
a ciò che loro avevano fatto, dovettero ricredersi: non gli fu torto un
capello.
Ancora una cosa: se penso alla bellezza,
vedo il Castello di Miramare di Massimiliano e Carlotta D’Asburgo sotto
cui andavamo a fare il bagno. Racconta “La fanciulla di Giralba”, leggenda
trentina, che se una donna muore nel partorire saprà il destino del figlio: a
dirglielo compare un pesce con una pergamena dove campeggia quel Castello del
dolore. Mi sembra di risentire recenti parole di monsignor Ravasi al Ducale: nell’Apocalisse, Gerusalemme, la sposa
dell’Agnello, cieca, incinta, incatenata davanti alla città del Male, è la
spina di luce del Bene. La mia Trieste che ha sofferto (i 40 giorni di
occupazione titina quando un Comunicato Alleato denunciò: “Da Trieste sono
scomparsi 2260 italiani”, i 1200 esuli per lavoro in Australia ai primi del ‘54
con la Castel Verde) è quella spina luminosa.
Per lungo tempo a Genova o altrove, mi
sentii sradicata, straniera. Ad una partita della triestina ad un goal si alzò
il grido: “Titini, slavi!” Da allora accompagnai mio padre allo stadio per un
patto: ogni volta mi regalava un libro e leggevo, finché un giorno a 18 anni,
alla fine della partita vidi un ragazzo indicarmi alla fidanzata con un “ha
letto tutto il tempo”. Arrossii e mi trovai anch’io il fidanzato con cui uscire
ed esser dispensata dalla partita.
Ho scoperto il 9 giugno, a Bobbio
mentre ero al pronto soccorso per una visita banale e dovevo passare il tempo
in attesa di essere chiamata – quindi per caso e ben dopo la presentazione,
piacevolissima sorpresa!- che Elio
Varutti di Udine, evidentemente presente
alla libreria Ubik ha scritto 11 pagine di attenta cronaca di quanto vi è stato
detto e allego il suo scritto (ringraziandolo mentalmente di cuore)
Esodo
e Giorno del Ricordo, un libro di
Maria Luisa Bressani
Esodo
e Giorno del Ricordo, un libro di
Maria Luisa Bressani
Fin dalle prime
righe di questo volume fa una bella mostra una cartolina di Trieste italiana,
riprodotta pure in copertina.
Trieste, Libreria Ubik,
presentazione del libro di Maria Luisa Bressani, al microfono; è il 24 maggio
2017
L’autrice custodisce il cimelio sin dal 26 ottobre 1954, quando Trieste
viene riannessa all’Italia, dopo la fallimentare esperienza del Territorio
Libero di Trieste (1945-1954). E,
riguardo a quella data, aggiunge questa nota personale e familiare: «quando con i miei genitori e mio
fratello Ferruccio, arrivati da Genova, in piazza dell’Unità attendemmo le navi italiane».
Già così si capisce che è un volume
sull’esodo giuliano dalmata, scritto dalla viva voce di una che l’esodo della
sua famiglia fino a Genova l’ha vissuto quotidianamente, essendo nata a Trieste
nel 1942. Il testo è miscellaneo. È un insieme di tanti racconti, tante
testimonianze. Raccoglie vari articoli che la giornalista Maria Luisa Bressani ha scritto su «Il Giornale», «Il
Cittadino», «La Trebbia», «Corriere Mercantile», «Il Giorno» ed altri giornali.
Da destra Bruna Zuccolin, Fabio Ziberna,
Direttore dei Giuliani nel Mondo, Dario Locchi, Presidente dei Giuliani nel
Mondo.
Bressani è poi autrice di vari
libri, vincendo alcuni premi letterari. Salta subito agli occhi la tecnica
espositiva usata per questa produzione. Non c’è solo il racconto della fuga
dalle terre perse e tutto quello che si è (o non si è) raccontato in famiglia.
Qui ci sono delle inusuali riflessioni sul rapporto tra la Shoah e l’esodo degli italiani
dall’Istria, Fiume e Dalmazia.
L’autrice chiosa e commenta i suoi
articoli pubblicati sulla stampa nazionale. Aggiunge poi degli inediti. Molti
di questi pezzi sono scritti col cuore. Il lettore precisino noterà alcune
ripetizioni e dei concetti esposti poche pagine addietro, ma lo scrive la
Bressani stessa che non ha voluto modificare o tagliare certe parti dei testi
pubblicati. Molti originali interventi sono sulla data del Giorno del
Ricordo,
nata per legge dal 2004, ma attiva in molte parti d’Italia già da qualche tempo
prima.
L’autrice compie numerose incursioni
cronachistiche nei fatti e scrittori del Novecento e anche in quelli del Terzo
Millennio: Piazza Tienanmen, terrorismo islamico, Giampaolo Pansa, papa
Wojtyla. Ma non scorda di rintuzzare i bolsi negazionisti degli eccidi nelle
foibe.
Maria Luisa Bressani
Il volume è corredato da una serie
di fotografie dell’epoca e di qualche ritaglio di giornale. Contiene paragrafi
stampati a colore rosso (per evidenziare e per dare maggio risalto).
Come mai la famiglia Bressani va
via da Trieste? È uno strano esodo avvenuto in treno nel 1948 da Via dello
Scoglio. Il motivo è che il clima cittadino, nel dopoguerra, non era dei più
favorevoli. Ecco qualche brano (tratto da pag. 10) per capire meglio la
situazione.
«Trieste allora non era solo questa
festa [della birreria Dreher]: quando per il 4 novembre i miei esponevano il
Tricolore, con un fazzoletto bianco cucito sopra lo stemma sabaudo, scendevano
gli slavi dal Carso a tirarci pietre ai vetri. Una volta un donnone slavo
quando mia madre in bicicletta incuneando la ruota nelle rotaie del tram cadde,
le gridò: “Crodiga de un’italiana!” che sta per la cotenna del maiale».
Durante l’esodo il fratello della
Bressani, Ferruccio cantava a fior di labbra: «No ghe esisti un altro paradiso
più splendido de ti, Trieste mia».
Il volume gode del patrocinio dell’Associazione
Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine e
dell’Associazione Giuliani nel Mondo.
L’interessane volume di Maria Luisa
Bressani è stato presentato a Trieste, con una folta partecipazione di pubblico
il giorno di mercoledì 24 maggio 2017,
alle ore 18, presso la libreria Ubik, in Galleria Tergesteo - Piazza della
Borsa 15. Alla presentazione ha parlato Bruna Zuccolin, presidente
dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato provinciale di
Udine.
L’intervento dotto è stato diretto
dal professor Giuseppe Benelli, dell’Università di Genova e presidente
dell’Accademia Lunigianese di Scienze “G.
Capellini” di La Spezia. Erano presenti
anche Fabio Ziberna, Direttore dei Giuliani nel Mondo e Dario Locchi, Presidente
dei Giuliani nel Mondo.
--
Le fotografie sono di proprietà di Fabiana Burco, ove non
altrimenti scritto.
--
Maria Luisa Bressani, Alla
mia Trieste e ai profughi
giuliano-dalmati, Tricase (LE), Youcanprint, 2017, pagg. 174, euro 18, con
fotografie in bianco e nero e a colori.
ISBN 978-88-92642-45-4
La copertina e, sotto, una
pagina del volume
Il segnalibro col logo dell'ANVGD
- Comitato Provinciale di Udine che ha dato il patrocinio alla originale
presentazione nella libreria Ubik di Trieste
Ecco l'interessante e lungo intervento di presentazione
del professsor Giuseppe Benelli.
La cartolina della copertina col
tricolore, con due vedute di Trieste e sotto la scritta «Saluti da Trieste
italiana», ricorda il 26 ottobre 1954, quando le truppe italiane entrarono a
Trieste. È una data importante perché segna per l’Italia la fine della seconda
guerra mondiale, nove anni dopo che si era conclusa sui campi di battaglia. In
quel giorno il generale Winterton sale sulla nave da guerra su cui si era già
imbarcato l’ultimo contingente di truppe inglesi, mentre il generale Edmondo De
Renzi entra nella città. Trieste esce così definitivamente dalla guerra. «Eravamo tornati ogni anno
come in pellegrinaggio – scrive Maria Luisa Bressani - e alla vigilia del 4
novembre ‘54, ritorno di Trieste all’Italia, nell’unica stanza d’albergo dove
dormimmo tutti e quattro, mio padre andò avanti e indietro tutta la notte. Il
giorno dopo i bersaglieri in corsa tra la folla scaldavano come il sole. E quel
5% di sloveni che temevano ripercussioni simili a ciò che loro avevano fatto,
dovettero ricredersi: non gli fu torto un capello».
Poche città italiane, tra la metà dell’Ottocento e la metà del
secolo successivo, hanno sviluppato una civiltà della portata di quella di
Trieste. Questo luogo di confine, abitato in parte da italiani e in parte da
popolazioni affluite da varie parti del nostro continente, ha espresso opere
poetiche, letterarie, artistiche di eccezionale qualità. Per l’autrice Trieste
è «città-simbolo di tolleranza con le sue tante chiese di culti diversi: San Spiridione
Serbo-Ortodossa, S. Nicolò Greco- Ortodossa, la Neogotica Evangelica Augustana,
S. Michele Anglicana, la Sinagoga di S. Francesco. E oltre alla città vecchia,
ebraica, ha la dolente Risiera S. Sabba, un tempio dove pregare per il futuro.
La dominano la Cattedrale e il Castello di San Giusto martire, per la sua festa
coperto di vite rossa. Nel bianco Carso quando la vite vergine rosseggia si
dice: “È il sangue dei nostri martiri”. La domina il Santuario del Grisa dove
ho trovato un dépliant con il testamento dell’Arcivescovo Antonio Santin,
testimone di due guerre mondiali: “Ho assistito allo strazio della mia povera
terra e delle nostre buone popolazioni. Le foibe sono calvari con il vertice
sprofondato nelle viscere della terra... Quello che tutti ci unisce e ci fa
ricchi è l’amore”».
La catena della memoria è la trama che
consente all’uomo identità e progettualità. La memoria è ricordo, un ri-accordo
che dalla dispersione genera unità, e nell’unità rintraccia quell’identità che
per la ragione occidentale definisce la storia nazionale. Condizione che
obbliga a fare i conti col passato, a riparare ai torti subiti dalle vittime, a
onorare la loro memoria e organizzarne la commemorazione. Dopo quel 1954,
quando la vicenda triestina è di fatto conclusa, su tutta la complessa e
delicata questione del confine nord-orientale cala il silenzio generalizzato.
Trieste e i giuliani non servono al confronto politico interno e neppure a
quello internazionale. Tuttavia la storia nazionale è da tempo il campo di battaglia
più affollato nelle polemiche culturali italiane, almeno a partire dal
dibattito sull’eredità di Renzo De Felice, quando il termine «revisionista»
diventa di volta in volta una bandiera da sventolare o un’accusa da cui
difendersi. Ma non si sono solo incrociate le armi: anzi in parallelo con una
guerra combattuta tra libri, prese di posizioni pubbliche e qualche anatema, il
modo di scrivere storia è cambiato molto, si è allargato, ha investito altri
campi che tradizionalmente venivano ignorati. Nasce l’esigenza di giungere una
storia condivisa del passato, nella consapevolezza che «condividere» non
significa né assolvere, né confondere i progetti e i valori per i quali nel
1940-45 si era combattuto. La storia è per sua natura revisionista, sia perché
ha il dovere di verificare la veridicità dei fatti, sottraendoli alla versione
dei vincitori, sia perché deve prendere posizione pubblica contro l’invadenza
della politica.
***
Maria Luisa Bressani, nata
a Trieste, ha preso la Maturità al Liceo classico D’Oria di
Genova. Laurea con 110 e lode, medaglia d'argento e «proposta di
richiesta del diritto di pubblicazione della tesi» sull’Aristeia omerica e
virgiliana da parte del relatore, l’insigne grecista Enrico Turolla. Diplomata con il massimo
dei voti alla Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali
dell’Università Cattolica di Milano e diplomata, sempre con il massimo dei
voti, alla Scuola di Specializzazione in Giornalismo della stessa università. Ha lavorato per «il Giornale»,
«Il Cittadino», «La Trebbia», «Corriere Mercantile», «Il Giorno» (pagine della
cultura), il «Settimanale cattolico» diocesano di Genova. Ha scritto diversi saggi per
«Archivum Bobiense», rivista prestigiosa fondata da Michele Tosi. Poi
sotto la direzione di Flavio Nuvolone, docente di Patristica a Friburgo, ha
collaborato con diversi saggi da I mulini di Valtrebbia a Forni e pane, e studi
su artisti tra cui Italo Londei e Alberto Nobile, che allestì
il primo Museo dell’Abbazia di Bobbio con Gianluigi Olmi ed Enrico
Mandelli.
I libri pubblicati: Begonza («ovvero della donna due volte gonza», con etimologia da lei
inventata); Scrivere o ricamare: scrittrici italiane del Novecento; Lettere d'amore e di guerra,
libro tratto dalle mille lettere dei genitori. Nel 2015 Nel tempo,
raccolta di racconti
con riflessioni su alcuni temi cari all’autrice. Dal «perché credere»
all’indagine sulla condizione femminile, al dramma dell’aborto e al valore
intangibile della vita, dalla ribellione della giovinezza al mistero dell’arte,
allo splendore del mondo su cui camminiamo, fino al dramma della Giustizia che
prima ti condanna a morte civile e poi ti riabilita perché «il fatto non
sussiste». Tra i tanti premi ricordiamo
il Candoni-TeatroOrazero, Sìlarus, Bontempelli, Scrittori per la scuola, Premio
Pieve di Santo Stefano e il premio UCSI
Liguria per il Giubileo 2000 (articolo su San Colombano comparso sul «Giorno»). Sposata da più di 50 anni, ha tre figli e sei
nipoti.
Ho conosciuto Maria Luisa Bressani nel
2006 in occasione dell’uscita del suo libro, Lettere d’amore e di guerra. L’epistolario dell’ufficiale Edgardo
Bressani all’amata Ida, con la battaglia di Tunisia e la prigionia a Saida
(1934-1945), Lint editoriale, San Dorligo della Valle (Trieste). La storia d’amore tra Edgardo Bressani e Ida Ragaglia, i
protagonisti di questo libro tratto dalle lettere raccolte e spiegate dalla
figlia Maria Luisa. Un’appassionante “microstoria” familiare, segnata
dall’esperienza della prigionia in un campo francese in Algeria, che
restituisce in uno stile immediato, giornalistico, l’umanità e il vissuto di un
paese in guerra. Forte autenticità,
ricostruzione obiettiva, debito affettuoso. È suo padre che l’ha spinta
involontariamente a fare la giornalista; un uomo coinvolto ingiustamente in un
processo, ma assolto perché innocente e perché il fatto non sussiste. «Il mio
giornalismo – scrive Maria Luisa Bressani – è nato da una questione di mala
giustizia (in un primo tempo) e per tenere la penna pulita, per non fare come
quei tre giornalisti dei quaranta articoli in prima pagina e della notizia
d’assoluzione all’interno in poche righe».
***
In questo libro Alla “mia” Trieste e
ai profughi giuliano – dalmati Maria Luisa Bressani racconta di vite negate, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, scampoli di
vita e di morte, che per pudore l’esule arrivato dall’Istria, dalla Dalmazia,
da Fiume chiude nel dolore. In questo modo una pesante coltre di omertà si
distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. L’esule dei paesi
comunisti non è mai stato troppo gradito e le sue scelte giudicate con
sospetto. Il partito comunista jugoslavo era impegnato a cacciare con «pressioni
di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre.
Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia
etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa,
se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui
camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A
decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso
dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati.
E poi gli esuli che lasciarono tutto,
pur di rimanere italiani e vivi. Per avere la dimensione dell’esodo, prima
della seconda guerra mondiale in Istria gli italiani erano dall’80 al 95%, in
Dalmazia Zara era italiana al 95% e a Spalato e Ragusa vivevano floride
“colonie” di italiani discendenti dai veneti che le abitavano dai tempi della
Repubblica Marinara. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri,
assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso
comunista jugoslavo. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le
Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla
stazione di Bologna per fare rifornimento d’acqua e di latte da dare ai
bambini. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua
firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito
come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio,
sostenendo, come voleva “il Migliore”, che il confine italiano fosse
sull’Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia.
Nel marzo 2004 viene istituita la
«Giornata del ricordo» per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di
coloro che patirono l’esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono
voluti sessant’anni per incominciare a restituire un po’ di verità alla storia
e chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati,
massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani. Nei suoi articoli per le
Giornate del Ricordo Maria Luisa Bressani ospita solo testimoni del tempo.
Contro ogni barbarie riporta voci autorevoli su cosa conclude una guerra, su
scempi diplomatici riguardo le migrazioni, sui tanti perché di una memoria
negata. Scrive nell’articolo L ’Odissea dimenticata.
Mezzo secolo di colpevole silenzio: «Tra il ’45 e il ’46 i comunisti slavi uccisero oltre diecimila
persone, ma nessuno ne parlò. Sono trecentocinquantamila i profughi
giuliano-dalmati che abbandonarono terra e case, affrontando la povertà per non
rinunciare ad essere italiani. L’esodo ebbe due fasi: la prima dopo l’8
settembre 1943 per sfuggire all’emergenza degli infoibamenti, la seconda nel
dopoguerra e in conseguenza del Trattato di Pace del ’47: gli esuli furono più
del 60% degli abitanti di quella che era stata la Venezia Giulia e che
comprendeva Gorizia, Trieste, Pola, Zara».
Giulio Vignoli, titolare all’Università
di Genova della cattedra di Diritto delle Comunità europee, scrive in Gli
italiani dimenticati (Giuffré, Milano, 2000): «In Istria nel biennio 45/46
scomparvero più di diecimila persone e di esse non fu più trovata traccia
tranne i cadaveri di alcune centinaia ricuperati dalle foibe. Di questo
genocidio, di questa barbarie, delle torture e delle efferatezze compiute ben
poco si seppe e si sa in Italia. La Sinistra, che tanta voce in capitolo e
tanto controllo dell’informazione ebbe ed ha in Italia, evitò di citare delitti
compiuti da forze politiche ad essa ideologicamente affini...». Da ricordare ancora
l’esodo silenzioso da Trieste, conseguenza del terrore dei quaranta giorni di
occupazione titina e del clima conflittuale creatosi con gli slavi fatti
infiltrare nel territorio. «Poi la marginalità della città nel tessuto
industriale italiano durante gli 11 anni di Territorio Libero, ma in regime di
amministrazione straniera, che spinse tanti triestini a cercar lavoro altrove.
In 2.100 emigrarono in Australia con il piroscafo Castel Verde nella primavera
‘54 quando ancora Trieste non era tornata italiana».
L’autrice descrive Zara. perla d’italianità, capoluogo
storico della Dalmazia e unica città dalmata annessa al Regno d’Italia dopo la
prima guerra mondiale. «Zara della storia romana, veneta e italiana, ebbe sei
Accademie, la prima, degli Animosi, fondata nel 1562 e l’ultima, L’Economica-Agraria,
nel 1793; ebbe la Biblioteca Paravia con 66.571 volumi e l’Archivio di Stato
con 18.887 volumi. A Zara, dal 1912 al 1945 era attiva una sezione della Società
Dante Alighieri che è stata ricostituita nel 1995».
Viene bombardata pesantemente dagli angloamericani, sulla falsa
indicazione dei titini di obbiettivi militari, per distruggere l’unico centro
rimasto a maggioranza italiana. «Subì 60 incursioni aeree per cui già nel ’42
la parte storica della città era in macerie, come è documentato in Vennero
dal cielo, 185 fotografie di Zara distrutta, 1943-44, a cura di Oddone
Talpo e Sergio Brcic. In Dalmazia. Una cronaca per la storia
'1943-44) (Roma, 1994) Talpo ha raccolto le testimonianze delle efferatezze
dei partigiani slavo-comunisti dopo l’ingresso in città il 31 ottobre 1944 e la
mattanza di 372 persone, nominativamente ricordate: ricordare non è per
rinfocolare odi o riacuire dolore di chi non ha smesso di piangere i propri
morti, ma per riprendere in futuro il passato di civile convivenza».
Famose le sue distillerie. «Bisogna far
giustizia - commenta Riccardo Vlahov la cui famiglia prima della guerra aveva
la fabbrica dell’Amaro Zara e cento operai -. Far giustizia su silenzio
e omertà di menzogne riguardo l’esodo, perché un establishment politico
consegnò una città e una popolazione italiana ad una terra straniera. Nella
nostra famiglia eravamo antifascisti e lo mettevamo in pratica nelle
assunzioni degli operai aggirando filtri imposti dal regime, ma ciò non servì
a proteggere mio padre Ramiro. Per potersene andare libero con la famiglia nel
’44 gli fu estorta la donazione delle macerie dalla fabbrica. Il nostro amaro
era forte e secco, con poteri medicinali, e la ricetta era stata consegnata al
mio bisnonno dal monastero per cui era fornitore di droghe speziali. Ho una
foto del 1920 in cui se ne vede la pubblicità su una casa di New York».
Stefano Zecchi, filosofo e romanziere, pubblica nel 2010 Quando
ci batteva forte il cuore (Mondadori), libro che ci ricorda le
ripercussioni della tragedia dell’esodo e ci narra un’«italiana universalità».
«Zecchi, - scrive l’autrice - nato a Pola, fu abbandonato dalla madre entrata
nella lotta clandestina dopo la Pace di Parigi, 10 febbraio 1947, che consegnò
l’Istria alla Jugoslavia. Da un volantino del tempo: “Una banda criminale di
malviventi, appartenente ad un CLN clandestino con sede a Pola, sta svolgendo
attività di spionaggio e sabotaggio contro il potere popolare e la nuova
Jugoslavia”. Tra i ricercati anche la sua mamma, la maestra Nives Parenti.
Fu allora che il padre, artigiano di calzature, fuggì con lui per raggiungere
l’Italia. Scrive Zecchi: “Come tanti bambini del mio tempo e della mia terra ho
conosciuto presto la crudeltà del mondo e la generosità di pochi. Mia madre è
stata trucidata, l’hanno trovata in una foiba con i polsi stretti dal fil di
ferro, legata insieme ad altri sette sventurati...Non so neppure dove è
sepolta”». Zecchi, dopo la morte del padre, tornò a Pirano da don Egidio,
il sacerdote che li aveva aiutati nella fuga a Trieste. «Da lui ebbe una
lettera, lasciata dal padre per Nives, che non aveva potuto consegnarle. Una
gran lettera d’amore. Zecchi non perdonò mai la mamma di averlo lasciato scegliendo
la clandestinità. Al sacerdote che ne elogia il coraggio e l’amore dei genitori
risponde e sembra Piccolo Mondo Antico: “Discutevano in continuazione,
litigavano e sempre per la politica”. Don Egidio: “La politica li ha divisi,
sono stati sfortunati, li ha separati prima la guerra, poi la pace”».
Con grande coinvolgimento emotivo Maria Luisa Bressani entra
nell’animo degli intervistati, li fa parlare di cose lontane e pur così
tremendamente vicine. Il cuore dell’esule continua ad essere segnato dal dolore
dei campi di accoglienza, fatti di sguardi mesti, occhi lacrimosi, voci
balbettanti. Ciò che le testimonianze propongono con la forza amara
dell’esperienza vissuta sono raccontate con estrema delicatezza e sofferenza
condivisa. Nelle loro partenze non c’era la prospettiva di un cambiamento o la
ricerca di un nuovo inizio, ma la consapevolezza di un andarsene senza ritorno
e della rottura di una tradizione. Anna Maria Crasti, esule da Orsera, conclude
la sua testimonianza nel 2013 su Anita Quarantotto, martire di Vergarolla: «Hai
rimpianti? Sono passati sessantasei anni, eppure per noi Istriani, Fiumani,
Dalmati non è cambiato quasi nulla. Spesso siamo considerati sempre e comunque
fascisti... troppo (inutilmente italiani). Chiediamo solidarietà, non compassione.
Chiediamo di non dire Vrsar (Orsera) - Porec (Parenzo) - Rijeka (Fiume) - Zadar
(Zara), ma di chiamarle come le hanno chiamata sempre non solo i Veneziani, ma
gli Austriaci (Impero Asburgico), i Francesi (Napoleone) e tutti quelli che ci
hanno difeso o dominato perché quello da sempre era il loro nome. Chiediamo
troppo che alcune associazioni della Resistenza non definiscano “la
commemorazione dei caduti delle foibe una pericolosa attività di agitazione
revanscista?”. È troppo se chiediamo che un morto nelle foibe, istriano e
quindi italiano, sia considerato uguale ad un morto in un lager nazista? Il
dolore di un’istriana, madre, moglie, figlia d’infoibato non è eguale a quello
di una madre, moglie, figlia di un ebreo, zingaro, prete, omosessuale comunista...
morti in un lager nazista?». Sono i destini incrociati di una esperienza
tragica, dove la guerra prosegue dentro la pace, e rispetto alla quale la
storia ha ancora tanto da scrivere.
Maria Luisa Bressani annota: «Amo il libro che ha storia, memoria
e un po’ di sé per chi legge. Per lui - il lettore-amico! - finisco con un po’
di me». Nata a Trieste, dove vi ha vissuto solo due anni, dal 1946 al ‘48, ha
struggenti ricordi legati alla bora, al suo mare, alla sua luce. «Il vento che
soffia forte mi vivifica: il ricordo si lega a quando il nonno, un salutista,
ci portava in giro nelle giornate di bora e per attraversare le strade facevamo
“catena” con gli altri: per mano perché “insieme si può”. Il vento per me ha il
senso di libertà, si associa a solidarietà, anche ad indipendenza».
Un cimelio da una
casa di esuli fiumani; bandierina ricordo del 26 ottobre 1954 a Trieste.
Collezione E. Conighi, Ferrara