INDICE

1) Donna Letizia risponde su Gente

2) UCSI LIGURIA Giubileo 2000

3) Ernesto Canepa, un lettore

 

Nell’esperienza di ciascuno di noi ci sono alcuni fatti che restano impressi nella memoria e nel cuore come pietre miliari.

Qui di seguito tre importanti per me e da ciò il titolo eccezionale di questo file con ben tre punti esclamativi.

 

Donna Letizia risponde

 

GENTE 28 maggio1982

 

 

Se ricordo bene è proprio stata questa risposta di Donna Letizia (Colette Rosselli, moglie di Montanelli) che m’inviò sul settimanale Gente, (allora lo leggevo sempre molto volentieri), a farmi pensare che avrei potuto scrivere per altri, non solo amici cui inviavo lettere.

Come è evidente dalla risposta il nome con cui scrissi è quello usato in famiglia, Marisa, cioè la fusione di Maria Luisa, troppo lungo e imperiale che fa pensare all’imperatrice d’Austria e Ferrero il mio cognome da sposata. Poi quando iniziai il mio percorso di scrittura e di giornalista firmai sempre con il mio nome d’origine per segnare una continuità con i miei studi.

Un aneddoto che mi fa sorridere: avevo inviato un manoscritto a Mondadori e mi telefonò un’addetta chiedendomi se fossi Ferrero dei cioccolatini, ma alla mia risposta negativa non fui più ricontattata. Chissà se rinascendo sarei capace di mentire per la buona causa di una pubblicazione con la più prestigiosa Casa Editrice italiana.   Scrissi a Donna Letizia per ringraziarla e poi lei che era una valida pittrice, con quadri spesso onirici e misteriosi, m’invitò a Roma ad una sua personale. Non andai perché allora per me era impensabile lasciare anche se per un giorno figli e marito. Anni dopo mi trovai a Roma e guardavo le finestre della sua abitazione e mi sarebbe piaciuto andare a suonare il suo campanello per presentarmi con un “Si ricorda di me?”, ma non lo feci ed una mia cognata che aveva vista lunga sulle persone una volta mi definì “la donna che non sa osare”. Ritengo che avesse proprio ragione. Comunque, resto grata a Donna Letizia per quella sua risposta e pubblicai quelle pagine a Lei dedicate sulla rivista Sìlarus (Battipaglia) che aveva ospitato il mio primo racconto ed altri in seguito e anche saggi. Il titolo da me scelto è stato “Colette Rosselli, signora della penna” perché sono convinta che con il suo garbo abbia contribuito ad educare al saper vivere (cioè alle buone maniere) generazioni di italiani.

In seguito, avendo iniziato a collaborare come primo giornale a quello di Montanelli (alle pagine di Genova) non portai mai a vedere questa risposta di Donna Letizia al mio caporedattore che a dire il vero mi fece vedere “i sorci verdi”. Si era indispettito perché quando avevo iniziato a scrivere per lui frequentavo la scuola delle Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano. Mi ero presentata d’estate e dovevo ancora frequentare il secondo anno della scuola. Il capo, Massimo Zamorani, mi disse: “O s’impegna qui o con la sua scuola” e preferii la scuola perché all’Università Cattolica avevo scoperto un bacino immenso di cultura. Poi a diploma conseguito mi ripresentai e credevo di non avere alcuna possibilità perché il capo mi aveva assegnato d’intervistare l’assessore Acerbi in Regione, ma dell’articolo dopo tre settimane non avevo più saputo nulla. Solo che quando mi ero fiondata nel bar sotto la redazione per prendere appuntamento con l’assessore dal telefono a gettoni avevo notato un signore che sorseggiava un caffè al bar e continuava a sbirciare interessandosi a ciò che dicevo. Pensai che fosse un curioso maleducato. Dopo quelle tre settimane Zamorani mi telefonò per dirmi che Umberto Merani aveva trovato interessante ciò che avevo scritto e quindi l’articolo andava in pagina. Un giorno, scendendo le scale della redazione (allora gli articoli si portavano di persona e non esisteva Internet), incontrai due signori che salivano a braccetto tenendo ognuno una bottiglia sotto il braccio libero. Uno era il maleducato del bar.

Entrarono in redazione e chiesi alla segretaria chi fossero i due: Risposta: “Ma è Merani con un amico”. Merani come poi seppi era anche colui che nella divisione dei compiti necessaria in un giornale teneva i rapporti con la Regione. Mia figlia ha sempre detto che “ho l’angelo custode” e penso che quella volta fu proprio vero perché desideravo diventare a tal punto giornalista che se scrivessi un decimo libro lo intitolerei “Giornalismo, che passione” e Merani è stato il mio angelo custode.

Con Zamorani però i rapporti restarono sempre tesi e divenni amica di Dino Frambati perché ammirai come rispondeva in una telefonata al capo tenendogli egregiamente testa. Zamorani, infatti, quando gli portavo un articolo, mi teneva in piedi ad aspettare che esaminasse il pezzo, facendo prima almeno due o tre sue telefonate. Anzi la prima volta che, presentandomi, lo avevo incontrato, stava telefonando e poi aveva accartocciato un foglietto che aveva sulla scrivania e lo aveva gettato nel cestino dicendomi: “Adesso lei va e lo raccoglie così capisce cosa non si deve scrivere sui giornali”. E un’altra volta che uscivo dalla stanza passando davanti ad un giornalista che lavorava nella postazione subito al di fuori mentre passavo questi aveva detto: “Quel bastardo”. Non scrivo chi è perché l’epiteto da lui usato non è bello e negli anni si perdonano tante cose, ma per quelle sue parole da allora siamo diventati amici ed è stato lui che quando a Zamorani era succeduto Luciano Basso mi avvertì in modo che mi presentassi e riprendessi la collaborazione. Lui, che si era diplomato perfino in una scuola di giornalismo in America quando in Italia erano ancora quasi un miraggio, aveva pronta la lettera di dimissioni se Zamorani, che è stato il fondatore delle pagine genovesi de il Giornale, non se ne fosse andato.

Io me ne andai insalutata ospite dopo aver totalizzato i due anni di collaborazione con gli articoli richiesti per diventare pubblicista, nomina che il capo tardava a farmi avere accampando scuse tant’è che fui nominata d’ufficio dall’Ordine dei Giornalisti:avevano capito che aria tirava a mio riguardo.

Però è proprio vero che non bisogna “mai dire mai” perché incontrai di nuovo Zamorani al funerale di mia nipote Annalisa, dottoressa, la figlia di mio fratello. Lei aveva studiato con la più giovane delle sue figlie e ne era stata amica cara.

All’uscita dalla Chiesa Zamorani mi disse: “Non sapevo che appartenesse a quella famiglia, le chiedo scusa”. E le scuse sono sempre ben accette (ma se avessi avuto un altro capo forse il mio curriculum giornalistico sarebbe stato diverso, con più slancio) e oltre tutto è stato l’unico ad insegnarmi qualcosa di giornalismo in un campo in cui sembra di navigare a vista e non si sa se si è scritto bene o male, una patente che viene solo dai lettori più attenti.

 

 

 

ARTICOLO sul GIORNO

    vincitore dell’UCSI LIGURIA

        PREMIO GUIUBILEO 2000

Premiata con 1 milione

Una giacca a vento e un ombrello da inviata speciale

 

 

Questo articolo che mi valse un così ricco premio è rimasto una delle gioie più grandi del mio giornalismo.

Avevo iniziato a scrivere su il Giornale di Montanelli, me ne andai perché come già detto prima ero in rotta il caporedattore Zamorani. Però chiusa una porta s’apre un portone e iniziai a collaborare al Giorno che ritengo sia stata la mia più bella collaborazione giornalistica. Dato che avevo sempre collaborato a due giornali non avevo mai lasciato il Settimanale cattolico poi diventato il Cittadino dove grazie alla lungimiranza di mons. Giulio Venturini ad ogni collaboratore era affidata una zona e così si veniva a scoprire la città come nessuno avrebbe fatto di sua iniziativa. Con un po’ d’ironia mi definivo l’inviata speciale da Nervi a Quinto e Sant’Ilario ma poi mi allargai a tutto il Levante cittadino dalla Foce, Albaro fino a Nervi appunto e alla riviera.

Questo articolo comparso sul

Giorno venne premiato dall’UCSI (primo premio) seguendo un criterio “geopolitico” come precisò Cesare Viazzi che ne era presidente. Mio marito che mi aveva accompagnato mi pregò di non guardare nella busta finché non fossimo stati fuori dalla sala e solo allora scoprii il cospicuo assegno, dovuto al fatto che quell’anno il Premio era sponsorizzato dalla Banca Carige. Ma anche se si dice che nella carità la mano destra non deve sapere ciò che fa la sinistra, l’assegno lo donai alla ricerca dell’AIP, l’Associazione per il Parkinson pensando che mia madre aveva sofferto di questa malattia per 25 anni dalla diagnosi. Tanto non sarei diventata né più ricca né più povera e so che fare una donazione o un atto di carità può sempre suscitare qualche emulazione e ci spero.

Quanto all’UCSI ne ho un carissimo ricordo. Ricordo Viazzi che alle conferenze anche quelle dove parlava lui si ritirava quando poteva dietro qualche tenda o in qualche angolo per fumare (era un fumatore accanito) e ricordo Giorgio Bubba con la sua simpatia e quando organizzava insieme alla moglie Piera i pranzi conviviali per gli iscritti in qualche trattoria dove si mangiava sempre molto bene. E ricordo la sua forza di volontà quando colpito da un ictus si allenava lungo la strada che porta verso Torriglia per riabilitarsi. Bubba divenne anche caro amico di mons. Piero Coletto a Bobbio dove organizzarono una premiazione di giornalisti liguri e piacentini.

Tutti cari Amici che più non sono ma che hanno lasciato semi di cultura e di umanità.

Inserisco ora una lettera che Ernesto Canepa inviò al caporedattore Massimiliano Lussana – il mio miglior caporedattore per sensibilità e intelligenza insieme a Gianni Buosi da Il Giorno- delle pagine di Genova de il Giornale. È stato forse il più bell’apprezzamento che ho ricevuto per il mio giornalismo, quello che mi ha fatto più piacere e proprio all’inizio di questo mio “amarcord” ho scritto che la patente di buon giornalista arriva solo dai lettori. Non osai chiedere a Lussana chi fosse questo signor Canepa anche perché spesso le lettere arrivano ai giornali firmate ma senza il recapito di chi le ha inviate. Ma per conto mio cercai di rintracciare in Genova questo signor Canepa che portava lo stesso nome del mio nonno bobbiese e che mi faceva pensare a “L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde. Non ci riuscii, sono una scarsa investigatrice ma gli va tutta la mia gratitudine perché evidentemente mi aveva letto nei miei primi passi a il Giornale e ancora quando vi ritornai con Lussana.

C’è però anche un altro lettore che ricordo nel mio cuore con affetto pur se non ne rammento il nome. Seguivo la IX Circoscrizione Levante (prima che diventasse Municipio) ed in un consiglio avevano fatto un applauso ad un consigliere che aveva compiuto gli 80 anni. Lo citai in un articolo insieme ad una sua buona proposta e questi, avuto il mio telefono dalla segretaria, mi chiamò per ringraziarmi e non cessava di ripetere: “Dio la benedica Signora”. Anche questo suo augurio mi è rimasto in cuore.

 

            

ERNESTO CANEPA